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il sublime rovesciato: comico umorismo e affini

Copertina Numero 16

 aprile 2018

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Barbara Ricci

«Questa non è una poltrona». Le indecifrabili cose di casa: Marinetti, De Chirico, Savinio

 

Merci e feticci, simulacri e anime: res ipsa loquitur

A prima vista, una merce sembra una cosa triviale, ovvia. Dalla sua analisi risulta che è una cosa imbrogliatissima, piena di sottigliezza metafisica e di capricci teologici. Finché è valore d’uso non c’è nulla di mistico in essa […]. Ma appena si presenta come merce, il tavolo si trasforma in una cosa sensibilmente sovrasensibile. Non solo sta con i piedi per terra, ma, di fronte a tutte le altre merci, si mette a testa in giù e sgomitola dalla sua testa di legno dei grilli; molto più mirabili che se cominciasse spontaneamente a ballare.

(MARX 1975, p. 103)

Una cosa sensibilmente sovrasensibile: così Marx definisce il processo per cui le cose si trasformano e acquisiscono un margine simbolico che non coincide completamente con la loro evidenza sensibile e apre la possibilità di un’indagine sulla pubblicità, sul sistema della moda, sull’immaginario individuale. Nello stesso capitolo Marx elabora la sua teoria della merce come feticcio, termine che suscita l’idea di una perversione, e con questo significato lo userà poi anche Freud. I due termini, oggetti e cose, sono vicini, ma non perfettamente equivalenti: gli oggetti si contrappongono agli umani sottolineando la loro estraneità, le cose invitano a una relazione anche se parziale.

Ammirevole è la vita delle cose.
Nulla trapela dai loro gesti
impassibili, presagiti e scelti
come unica e costante idea.
Sono sacerdoti assorti
che occupano questa sala
per un misterioso capitolo.

(MAGRELLI 1996, p. 8)

Sacerdote assorto è per esempio il grande armadio che domina il finale del romanzo Il piacere di d’Annunzio. Le cose d’arte che riempivano quasi ogni pagina nelle lunghe descrizioni ossessive sono scomparse, per lasciare il posto alle stanze vuote della casa di Maria Ferrer, dove avviene l’asta di tutti i suoi beni dopo il tracollo economico. Non è più possibile alcuna trasfigurazione estetica e la potenza delle cose prende il sopravvento senza lasciare margini di fuga. Il grande armadio diventa la materializzazione di una sconfitta definitiva, mentre costringe il protagonista a un lento procedere su per le scale. Il romanzo termina con angosciata semplicità:

I facchini scaricavano i mobili da un carretto, vociando. Alcuni di costoro portavano già l’armario su per la scala, faticosamente. Egli entrò. Come l’armario occupava tutta la larghezza, egli non poteva passare oltre. Seguì, piano piano, di gradino in gradino, fin dentro la casa.

(D’ANNUNZIO 1989, p. 410)

Nella poesia del Novecento sono molto presenti gli oggetti-amuleto che dovrebbero accompagnare e forse salvare gli esseri umani. Nella poesia di Montale sono il topo bianco d’avorio, il portacipria, gli orecchini: sono i piccoli oggetti luminosi che danno un segno nel buio del vivere. Ma i talismani in definitiva poi non salvano, assomigliano a una scommessa, a una modalità incerta per sostenere l’esistenza. Sono muti ed estranei e per questo inevitabilmente trascolorano nel sacro e nel divino. Esemplare da questo punto di vista il breve racconto di Rainer Maria Rilke, Come avvenne che il ditale diventasse il buon Dio (RILKE 1978, pp. 105-113).

L’antropologia si è occupata assiduamente di questi temi, riflettendo su alcune categorie che investono il rapporto del sacro con le cose, come l’animismo. Scrive La Cecla:

Il mio è un discorso di ridefinizione dell’animismo: quello che mi interessa dell’animismo è l’aspetto di interrelazione che esso può rappresentare: l’ammissione da parte di certe culture di uno statuto dell’alterità da riconoscere alle cose […]. Io sono convinto che per animismo si debba intendere una categoria della «comprensione» delle cose, un’ermeneutica del loro interagire – esperienzialmente – con noi.

(LA CECLA 1998, nota n.10, p. 58)

Altrettanto interessante è la definizione di creolizzazione degli oggetti, quando essi vivono una seconda vita nel riuso e nel processo di reinterpretazione che subiscono. La Cecla fa l’esempio della Coca-cola arrivata sulle alture del Chiapas e che viene assunta dai Chamulas come liquido lustrale dei propri riti «pagani» in chiesa; oppure delle folle che festeggiano la dea del mare Jemanya a Salvador de Bahia e usano le lattine dei pelati americani tagliate e trasformate in canestri, come ostensori per gli incensi e per le offerte. Si configura così una specie di ribellione involontaria e un sottrarsi al mercato dominante con la modifica di un significato imposto, facendo un passo di lato fuori dello schema (LA CECLA 1998, p. 56).

Il mondo contemporaneo invaso dagli oggetti ha trovato nel realismo terminale di Guido Oldani una efficace interpretazione che determina anche un modo specifico di intendere la poesia. La constatazione che la maggioranza dei popoli del mondo si è trasferita nelle metropoli (la pandemia abitativa) comporta una mutazione antropologica che rivoluziona le modalità della percezione. La distanza fra l’uomo e gli oggetti risulta annullata, cioè terminale, costringendo all’inversione delle similitudini: è la natura ad assomigliare agli oggetti e il testo poetico si fa breve «quanto le istruzioni per l’assunzione di un farmaco». Realismo terminale non significa resa incondizionata allo strapotere degli oggetti, ma resistenza e contrasto, guardando il mondo per quello che è, usando l’ironia che è «l’unica forza rivoluzionaria riscontrabile nella realtà» e «vibrando la poesia come una spada». Le cose di casa sono tangibili e vere, materiche e ineludibili (OLDANI 2010, pp. 5-6).

La stanza
è un capezzolo la lampada al soffitto
che offre il giallo latte della luce
nella stanza è un acquario in cui si tace.
e si incistano i corpi dentro l’aria
che è uguale a come quando fosse assente,
l’armadio è allerta invece il letto dorme
lo specchio è un dritto non ricorda niente.

(OLDANI 2015, p. 29)

Ma è l’infanzia ad avere il privilegio di un rapporto speciale con il mondo delle cose: il bambino sta fra gli oggetti come fra presenze animate, è in grado di comunicare con loro e lui stesso arriva a sentirsi una cosa fra le cose. Il bambino prende sul serio il mondo inanimato senza darlo mai per scontato, perché riesce a essere sempre motivo di sorpresa e di scoperta.

Una bimbetta tira la tovaglia
È da più d’un anno che si è al mondo,
e a questo mondo non tutto è stato studiato
e messo sotto controllo.
Ora sono sotto esame le cose
che non possono muoversi da sole.
Bisogna aiutarle a farlo,
spostare, spingere,
prenderle da dove sono e trasportarle.
Non tutte lo vogliono, ad esempio l’armadio,
la credenza, le inflessibili pareti, il tavolo.
Ma la tovaglia sul tavolo ostinato
– se afferrata bene per gli orli –
manifesta già la volontà di viaggiare.
E sulla tovaglia i bicchieri, i piattini,
la brocchetta con il latte, i cucchiaini, la scodella
addirittura tremano per la voglia.
È interessante,
quale movimento sceglieranno
quando ormai vacilleranno sul bordo:
un viaggio lungo il soffitto?
un volo intorno alla lampada?
un salto sul davanzale e di lì all’albero?
Il signor Newton non ha ancora nulla a che fare con questo.
Guardi pure dal cielo e agiti le braccia.
Questo esperimento deve essere fatto.
E lo sarà.

(SZYMBORSKA 2008, pp. 586-587)

 Il cinema d’animazione si appropria molto presto del tema: un esempio fra i tanti La bella e la bestia (Beauty and the Beast) del 1991 prodotto dalla Walt Disney, dove a parlare sono l’orologio, la teiera e il candelabro. E se gli oggetti hanno un’anima possono ribellarsi alla loro condizione, cercare vie di fuga, come fanno soprattutto i giocattoli, la notte, quando tutto dorme e nessuno li guarda. Lo fanno per esempio già nel 1838 nella favola di Andersen, Il tenace soldatino di stagno, un tema che viene ripreso anche dal film di animazione Toy story del 1995 (ANDERSEN 1990, p.107). Molto interessante è Le avventure del piccolo tostapane. Una favola per elettrodomestici (The Brave Little Toaster), un film d’animazione di Jerry Rees del 1987, tratto dal racconto di Thomas Disch (trailer del film).

Un gruppo di vecchi ma funzionanti elettrodomestici intraprende un viaggio in città per ritrovare il legittimo proprietario che li ha abbandonati nella sua casa di campagna. Sono guidati da un coraggioso tostapane e usano come mezzo di trasporto una vecchia poltrona per ufficio a rotelle alimentata da una batteria per auto e spinta dall’aspirapolvere. Quando ritrovano il proprietario scoprono che li ha sostituiti con elettrodomestici nuovi, che, impietositi, decidono di aiutarli a trovare una nuova casa. Mettono un annuncio sul giornale a cui risponde una signora anziana, un’ex ballerina con problemi economici che si porta a casa gli elettrodomestici, tutti perfettamente funzionanti anche se non proprio nuovissimi. Si tratta di una divertente favola contro lo spreco che però non ha avuto un grande successo, specialmente in Europa.

Molto più successo invece ha avuto e continua ad avere il filone horror legato alle bambole impazzite, dove il giocattolo apparentemente innocuo e innocente, si anima e scatena pura angoscia senza scampo. Nel suo studio sul perturbante (1919), Freud cita Ernst Jentsch che individua tra le cause scatenanti dell’Unheimliche «il dubbio che un oggetto privo di vita non sia per caso animato» (JENTSCH 1977). Jentsch parlava della sensazione prodotta da figure di cera, pupazzi e automi. Secondo Freud il perturbante è «quella sorta di spaventoso che risale a quanto ci è noto da lungo tempo, a ciò che ci è familiare»: le indecifrabili cose di casa come suggerisce appunto l’etimologia di Unheimliche, da Heim, casa.

La perturbante poltrona di Marinetti

L’arte delle avanguardie e in generale tutta l’arte del primo Novecento percepisce con chiarezza la fragilità del soggetto, dell’io che si frantuma, si disperde e spesso si trasforma in qualcos’altro: manichino, sagoma, macchina, robot. Si percepisce inoltre la potenza degli oggetti, non più forme inerti e distanti, ma enigmatiche e vive, destinate a sopravviverci in un futuro indeterminato e spesso spaventoso. Non sono più le polverose cose di pessimo gusto dei crepuscolari, invadenti e malinconiche, ma presentano aspetti inquietanti e misteriosi: Odradek per esempio è l’essere immaginario descritto in un racconto di Franz Kafka, Il tormento del capofamiglia (1917). Questa creatura somiglia a un rocchetto di filo, è piccolo, velocissimo e ha una voce «simile al frusciar di foglie cadute». Il racconto si conclude con queste parole: «È chiaro che non reca danno a nessuno; ma l’idea che possa anche sopravvivermi mi è quasi angosciosa» (KAFKA 1984, p. 132).

Sono soprattutto i futuristi a denunciare la necessità di liberarsi dalla soggettività ottocentesca, romantica ed estetizzante, diventata un inutile orpello che non serve più a comprendere la nuova modernità dominata dalle macchine, dalla velocità, dalle cose. Uscire dalla soggettività dell’io sentimentale e muoversi verso una nuova sensibilità postumana è una delle intuizioni futuriste che ha avuto un seguito anche in tempi molto recenti, quando si è parlato fra l’altro di sex appeal dell’inorganico (PERNIOLA 1994).

Il teatro futurista è concepito dentro questa sensibilità nuova: le battute sono ridotte al minimo, pochissimi i personaggi, il dialogo quasi sparisce, fondamentali diventano le didascalie che servono a spiegare gli effetti scenici di luce e di suono. Nel brevissimo testo teatrale che segue i protagonisti sono gli oggetti, in particolare la poltrona e le sedie. Le cose trionfano sugli esseri umani, eliminando ogni psicologia. Le intenzioni di Marinetti sono chiarissime:

Ho voluto creare una sintesi d’oggetti animati. Tutte le persone sensibili ed immaginative hanno certo osservato molte volte gli atteggiamenti impressionanti e pieni di misteriose suggestioni che i mobili in genere, e in particolar modo le sedie e le poltrone, assumono in una stanza dove non ci sono esseri umani. Sono partito da questa osservazione per creare la mia sintesi. Le otto sedie e la grande poltrona, nei diversi mutamenti delle loro posizioni successivamente preparate per ricevere gli attesi, acquistano a poco a poco una strana vita fantastica. E alla fine lo spettatore, aiutato dal lento allungarsi delle ombre verso la porta, deve sentire che le sedie vivono veramente e si muovono da sole per uscire.

VENGONO

Dramma di oggetti

Sala signorile. – Sera. – Grande lampadario acceso. – Porta-finestra, aperta (in fondo a sinistra), che dà su un giardino. – A sinistra, lungo la parete ma staccata da questa, grande tavola rettangolare con tappeto. – Lungo la parete di destra (nella quale si apre una porta), una grandissima e alta poltrona, ai lati della quale sono allineate otto sedie, quattro a destra e quattro a sinistra (della poltrona).
Entrano dalla porta di sinistra un MAGGIORDOMO e due servi in frak.

IL MAGGIORDOMO Vengono. Preparate. (esce).

I servi, con grande fretta, dispongono le otto sedie a ferro di cavallo ai lati della poltrona, che rimane al posto di prima, come la tavola. Quando hanno finito, vanno a guardare dalla porta, voltando le spalle al pubblico. Lungo momento d’attesa. Il maggiordomo rientra, ansante.

IL MAGGIORDOMO Contrordine. Sono stanchissimi… Molti cuscini, molti sgabelli…(esce).

I servi escono dalla porta di destra e rientrano carichi di cuscini e di sgabelli. – Poi, prendono la poltrona, la mettono in mezzo alla sala, e dispongono le sedie (quattro da ciascun lato) colle spalliere rivolte alla poltrona. Indi, su ogni sedia, e sulla poltrona, mettono cuscini e, davanti a ogni sedia, sgabelli, come pure davanti alla poltrona. I servi vanno di nuovo a guardare dalla porta-finestra. Lungo momento d’attesa.

IL MAGGIORDOMO (rientra dal giardino trafelato) Contrordine. Hanno fame. Apparecchiate! (esce).

I servi trasportano la tavola in mezzo alla sala, dispongono intorno ad essa la poltrona (a capotavola) e le sedie; indi, rapidamente, uscendo e rientrando dalla porta di destra, apparecchiano la tavola. A un posto, un vaso di fiori; a un altro, molto pane; a un altro, otto bottiglie di vino. Agli altri posti, solo la posata. – Una sedia deve essere appoggiata alla tavola, colle gambe posteriori alzate, come si usa nei restaurants per indicare che un posto è riservato. – Quando hanno finito, i servi vanno di nuovo a guardar fuori. – Lungo momento d’attesa.

IL MAGGIORDOMO (rientra correndo) Briccatirakamèkamè! (esce).

Immediatamente i servi rimettono la tavola (che rimane apparecchiata) al posto che occupava all’alzarsi del sipario. Poi mettono la poltrona davanti alla porta-finestra, di sbieco, e dietro alla poltrona dispongono le otto sedie in fila indiana e in diagonale attraverso la scena. – Fatto ciò, spengono il lampadario. La scena rimane pallidamente rischiarata dal chiarore lunare che viene dalla porta-finestra. Un riflettore invisibile proietta sul pavimento le ombre della poltrona e delle sedie. Ombre spiccatissime, che (spostandosi lentamente il riflettore) vanno visibilmente allungandosi verso la porta-finestra. I servi, accoccolati in un angolo, aspettano tremanti, con angoscia evidente, che le sedie escano dalla sala.

(MARINETTI 1960)

Una interessante trasposizione in video della pièce prodotta dal teatro Cust 2000 di Urbino con la regia di Livio Taricco è qui.

Fuori contesto: le poltrone di De Chirico

 

Giorgio De Chirico era ossessionato dai traslochi, dalla mancanza di una casa come punto di riferimento solido e sicuro. Racconta che ogni due anni circa avveniva uno spostamento della famiglia, prima dovuto al lavoro del padre e poi alle circostanze che accompagnavano la vita dei due fratelli, Giorgio e Andrea, poi diventato Alberto Savinio. Ricorda che spesso i mobili venivano ammassati per strada, in attesa di essere portati via. Questo accadeva anche quando c’erano scosse di terremoto che spaventavano la famiglia e i vicini (GANDER – MONTINI 2004/2005).

Dal 1926 De Chirico comincia la nutrita serie Mobili nella valle (fig. 1). I mobili sono accatastati in esterno, appaiono inclinati, l’armadio a specchio sembra stia per cadere e tutto l’insieme comunica l’impressione di una grande instabilità confusa. Una poltrona a righe poggia su un tappeto rosso e sul tavolino nero c’è il busto di una statua classicheggiante. In cima alla montagna sulla destra si vede una costruzione bianca con colonne che ricorda un tempio antico. Come negli altri interni abbandonati in paesaggi esterni, anche qui la composizione si trova su un palco quasi teatrale, formato da listelli di legno.

Nella versione del 1927 (fig. 2) si vedono in primo piano una poltrona di legno e un’altra poltrona rossa che poggia su un piedistallo. In secondo piano sulla destra c’è un armadio a specchio, mentre sulla parte sinistra un mobile che ai lati sembra avere due colonne. Parte del piedistallo e della poltrona in legno poggiano su un piccolo tappeto che, stavolta, a differenza dei quadri visti in precedenza, non esce né dai bordi della piattaforma, né dal quadro. Sullo sfondo si apre una vallata dove si nota una costruzione, forse un tempio.

Vedere un mobile all’esterno provoca un senso di spaesamento e di estraneità. Nello stesso tempo, collocare questi mobili su una specie di palco in legno può comunicare una sorta di intimità, quasi un senso di raccoglimento e di protezione: sono i mobili di casa e sono tutti insieme. D’altra parte il palco di legno richiama la finzione del teatro e quindi tutta la scena sarebbe da collocare in uno spazio fantastico e quindi rappresentare una serenità solo immaginata e irraggiungibile. Inoltre questi mobili sono accompagnati dalle immagini di rovine classiche sullo sfondo, come a voler stabilire un parallelo fra gli avanzi della modernità e quelli del mondo antico.

In Mobili nella stanza del 1927 (fig. 3) si vedono chiaramente un divano, una credenza, una mezza colonna, una testiera del letto in ferro; i braccioli del divano, per la loro forma, richiamano la colonna a terra. Nello sfondo domina un’imponente montagna e sul lato sinistro della composizione si trova una costruzione classicheggiante. In questo caso il mondo esterno sembra voler travolgere la serenità di un ipotetico mondo interno, sempre rappresentato dai mobili accatastati.

La poltrona è simbolo di autorità, di prestigio e di potere. Nel quadro Il figlio consolatore (fig. 4), una variante del figliol prodigo, si vedono la statua di un giovane in piedi, mentre seduto su una poltrona si vede il vecchio pensoso, quasi addolorato. Non è chiaro se si tratta del figlio ritornato o di quello rimasto a casa con il padre. È comunque una statua, un simbolo irrigidito, un estraneo.

Gli indistinti confini: poltrobabbo e poltromamma di Alberto Savinio

Dalla Tua poltrona Tu governavi il mondo

KAFKA 1963, p. 14

Ridiamo tutte le volte che una persona ci dà l’impressione di una cosa

BERGSON 2011, p. 42

Il tema dei mobili che prendono vita è ricorrente nella narrativa di Savinio ed è l’autore stesso a segnalarlo nella premessa al volume Tutta la vita; sempre nella stessa premessa chiarisce i motivi per cui non crede di potersi definire surrealista. E al termine del racconto Poltrondamore, presente nella stessa raccolta, stigmatizza l’atteggiamento comune delle persone comuni.

Quanto a un surrealismo mio, esso […] non si contenta di rappresentare l’informe e di esprimere l’incosciente, ma vuole dare forma all’informe e coscienza all’incosciente. […] Fra questi racconti […] alcuni portano in scena poltrone, divani, armadi e altri mobili, in ispecie di personaggi sensibili, parlanti e operanti. […]

Perché gli uomini […] non sanno ascoltare le voci delle cose che nella loro ignoranza credono mute, non sanno vedere i paesaggi che popolano l’aria e che nella loro massiccia indifferenza credono vuota, e con le grosse teste che non capiscono e gli occhi velati che non vedono, si aggirano ignari in mezzo ai misteri.

(SAVINIO 2011, pp. 11-13, p. 210)

Nel racconto Paterni mobili (SAVINIO 2011, pp.173-186) si narra del mobilio che il protagonista Azio Bot fa riportare in salotto dopo il divorzio dalla moglie Nuccia che lo aveva relegato in cantina per fare posto ad altri oggetti di gusto contemporaneo. Quando Azio torna a casa dopo il trasloco, attraverso la poltrona, il cavalletto e lo specchio vive una scena che coinvolge i suoi genitori e che si conclude tragicamente. All’inizio del racconto si sottolinea la coincidenza tra il nome di una ditta di traslochi (ATMA, in sanscrito anima del mondo) e Atma, il nome del cane che, secondo Savinio, teneva compagnia a Schopenhauer mentre scriveva Il mondo come volontà e rappresentazione. È in quest’opera che il filosofo teorizza il concetto di Wille zum Leben e lo estende ai fenomeni naturali. Nel racconto Savinio riconosce ai mobili una vita propria, dotata di memoria e carica di verità nascoste, destinate a rivelarsi quando si dà loro la possibilità di essere ascoltate e quando si accetta di farle emergere. Nello stesso tempo però la scelta della concretezza e della fisicità di questi oggetti che prendono vita in un salotto borghese senza eleganza e senza fascino, la percezione della povertà delle pulsioni umane, l’attenzione divagante per il cane di Schopenauer e per il bizzarro comportamento del filosofo, sono pervasi da un’ironia distaccata e distante che impedisce ogni sentimento del tragico e del sublime, anche se gli ingredienti ci sarebbero tutti. Il testo quindi si presenta aperto a letture diverse, sfuggente a interpretazioni definitive, e fortemente ambiguo.

Ma è soprattutto dal punto di vista figurativo che Savinio compie una progressiva metamorfosi degli esseri umani e in particolare dei suoi genitori. Dopo una serie di ritratti nel complesso tradizionali, all’inizio degli anni Trenta le figure dei genitori cominciano a ibridarsi con alcuni animali.

La partenza del Figliol Prodigo del 1930 (fig. 5) mostra una porta che si apre su uno spazio obliquo e scuro. La madre seduta in poltrona ha il volto di un pellicano, indossa gioielli vistosi e un abito piuttosto ricco. Il padre, in piedi e più grande, ha la testa di cervo ed è però senza corna. Il torso virile sembra alludere a una certa forza, smentita in parte dalla pelle grinzosa. Indossa una specie di pareo colorato. Intorno ci sono pareti dipinte di giallo chiaro e a terra c’è un pallone abbandonato, forse un ricordo della dimensione ludica legata al figliol prodigo che però se ne è andato, verso l’esterno buio oltre la porta.

In Genitori del 1931 (fig. 6) persone e oggetti si accumulano in uno spazio ristretto. La madre, seduta sempre in poltrona, ha ancora il volto di un pellicano triste e umile, con l’occhio inebetito, ma è vestita elegantemente e tiene fra le mani un mazzetto di fiori. Il padre è nudo, con la testa di cervo ed entrambe le mani sono strette a pugno, a ricordare ira e volontà di dominio. Un oggetto non facile da identificare è decorato di rosso e potrebbe anche essere una immaginaria poltrona deformata. Dietro si intravede un piccolo mobile a cassetti. Il paesaggio sullo sfondo è sconvolto da lampi neri che colpiscono una torre in fiamme. Il pellicano e il cervo sono entrambi simboli cristologici.

Ma è nelle figure definite dall’autore poltrobabbo e poltromamma (fig. 7) che i genitori vengono trasformati in creature ibride e ripugnanti che si fondono con le loro poltrone. Esse compaiono nel 1945 nella litografia intitolata I miei genitori, prodotta in soli trentadue esemplari per le edizioni Concilium Lithograficum a cura del critico d’arte Velso Mucci (DORNA/SALA 2006). La litografia ritrae figure antropomorfe nate dalla fusione dei genitori di Savinio con le loro poltrone. Quelle che sembrano ombre sono le scritte di Savinio che descrive i suoi genitori nell’imminenza della morte con espressioni aggressive e a volte oscene. Il padre di Savinio era morto nel 1905 e la madre nel 1937.

Poltromamma

Scritta a sinistra, rovesciata

Sembrava fatta di/una materia incorrut/tibile. Per una grande parte/della mia vita ebbi la certezza di/essere il figlio di una/donna immortale./La rivelazione/della sua mortalità/la ebbi una volta/che tornai tardi/a casa e senza/le chiavi e mia/madre venne/ad aprirmi la/porta da sé e/impaurita./Usciva dal/letto ed era/un quinto di/quanto io/conoscevo di /lei. L’avita/signora io la/conoscevo adorna,/maestosa, troneggiante./Il tacchino gonfio,/bargigliato, a[…]/d’un tratto aveva/perduto le penne, i/bargigli, la ruota;/si era ridotta a/uno scheletro/di pollastro/con poca/pelle grinzosa/attaccata/sopra…/Negli ultimi anni/ella camminava/avvolta in/un alone/di flatulenza/come una/dea/nella/sua/nube./Così partì/dopo aver/ballato/a lungo con/la morte.

Ciò che resta del corpo femminile dopo essere stato assimilato alla poltrona è la nudità dei seni, il ventre gonfio e scoperto, l’ombelico allargato, quasi a sottolineare gli attributi di un’oscena maternità. La testa è oblunga e animalesca, l’occhio è sporgente e inebetito. I braccioli della poltrona con le frange sostituiscono le braccia, mentre una grossa collana rimane in vista, a decorare il petto. La nube di flatulenza che avvolgeva la madre nei suoi ultimi anni prima di morire è la consueta desublimazione del mito classico che stavolta si incrocia con la volontà di dissacrare le figure genitoriali in un grottesco crudele: come una dea infatti la madre è avvolta nella sua nube di flatulenza prima di sparire, quasi assunta in cielo.

Poltrobabbo

Scritta a sinistra, rovesciata

Un/giorno/mentre/eravamo a/tavola per il/desinare mio/padre d’un tratto/si levò in piedi e andò/di fretta alla finestra che/spalancò e si sporse fuori/dal davanzale. Lo vedevo/di spalle. Sembrava un ora/tore che parla a una folla/sotto a lui; ma vomitava e le/alate parole erano gli scrosci/del cibo rigettato sull’ammattonato/del cortile. Quel discorso a una/folla invisibile fu il preannuncio/della sua morte. […] Lo spogliarono per lavarlo. Un/poco di sterco era uscito dal/sedere. A che indugiare, sulla/smisurata tristezza di quel/poco di sterco? Quel/poco di sterco mi/mostrò che per la morte/è lo sforzo supremo/per passare./Addio/dio/io/o.

Scritta a destra

[…] Mio padre si chiamava Evaristo/Il suo nome inottimiva un superlativo/In quest’ombra io figlio suo scrivo/la sua storia. Egli era davanti a/me come una montagna. Di là da/me, valle, io guardavo di là da lui, perché/un mio segreto ma imperioso sentimento mi/diceva che solo di là da lui era tutto ciò che per me era/importante. Così il figlio guarda di là dal padre.

Il padre è una grande testa che si confonde con il torace, formando un grosso naso, i baffi e un unico occhio, vigile e attento. Savinio stesso collega la frequente presenza dell’occhio nella sua pittura alla sua infanzia: nelle chiese greche che lo incuriosivano e in cui voleva sempre entrare è dio che viene rappresentato così, un «divino e perseguitante strumento ottico che aveva acquistato per me una sua realtà fisica» (SAVINIO 1977, p. 73). Anche il libro Casa “La vita” si struttura intorno a episodi non collegati fra loro tematicamente, ma suddivisi da un brevissimo proemio a forma di cantilena ritmata per bambini, intitolato occhio e numerato in ordine progressivo (SAVINIO 1988). L’occhio è quindi un ricordo di infanzia progressivamente rielaborato in contesti diversi. Le braccia del padre, i polsini della camicia, le maniche della giacca, le mani e l’anello al dito sono disegnati distintamente.

Gli ultimi momenti della vita del padre sono ricordati nelle scritte/ombra con una volontà feroce di vendetta. Le parole dette dal balcone, con un vago riferimento al duce, si trasformano in vomito che cade sul selciato. Lo sterco che è rimasto come bloccato, sottolinea la difficoltà di un passaggio di solito considerato sacro, quello della morte. Nel racconto Mia madre non mi capisce, in Casa “La vita”, la morte viene a coincidere con il passaggio attraverso una piccola fessura e questo sembra preludere a una metamorfosi che non va ostacolata, anzi va aiutata perché avvenga senza la fatica che appare però inevitabile (SAVINIO 1988, p. 178). La considerazione finale è lucida e cruda: il padre è una montagna e solo al di là può esserci vita per il figlio, quindi solo dopo la morte del padre. In alto fra il padre e la madre si vede un cerchio fatto di parole; si tratta di una scritta ripetuta cinque volte in maniera concentrica: la luna dall’alto li contempla.

Queste figure ricordano i Calligrammes di Apollinaire, le parole in libertà del futurismo e certe esperienze di poesia visiva. È ambiguo il rapporto parola/immagine: visivamente i gruppi di parole sembrano ombre; alcune sono rovesciate e costringono il lettore a ruotare la pagina per poterle leggere. Non sono ermetiche in sé, ma non sono facilmente leggibili, come se ci fosse in fondo la consapevolezza di aver infranto con violenza un tabù nell’aggressione grottesca all’immagine dei genitori morti.

Si richiamano a questa litografia due dipinti successivi:I miei genitori del 1947 (fig. 8) e M onumento marino ai miei genitori del 1950 (fig. 9). Quest’ultimo dipinto appare più morbido, i due mostri stanno vicini, l’atmosfera rossastra cambia la percezione, l’insieme è acquatico e paludoso. In un angolo emerge l’occhio vigile e stupito di un pesce in un grottesco meno doloroso, alla Jacovitti.

Gli indistinti confini è il titolo dell’introduzione che Calvino scrive per le Metamorfosi di Ovidio.

La radice della poesia ovidiana viene identificata nella contiguità fra tutte le forme dell’esistente, antropomorfe o meno. La compenetrazione di dei, uomini e natura implica un intricato sistema di relazioni, in cui le forme disfatte e i confini sfaldati sgretolano ogni impianto gerarchico, favorendo ibridazioni e mescolanze. Il mito è il campo in cui queste forze si incontrano e si bilanciano. Questa poetica è particolarmente vicina a Savinio, che conosceva molto bene Ovidio, presente in alcuni suoi testi. Il moderno in fondo è una realtà ermafrodita: negli stessi anni in cui Savinio lavora non è raro che gli artisti sperimentino questo genere di intrecci stranianti. Uno per tutti L’invenzione collettiva di René Magritte che risale al 1934 (fig. 10). Savinio però all’ibridazione con il mondo animale aggiunge quella con la materia inerte. In un articolo del 1947 dimostra di avere una coscienza ben precisa dell’operazione che sta compiendo.

Sono circa quattro anni che, sia con le parole, sia con le linee, sia con i colori, io vado rappresentando delle figure composite, metà uomini e metà mobili. Questi ibridi sono la raffigurazione di alcuni miei ricordi arrivati allo stadio di maturazione plastica. Maturazione lunga, se io penso che la viva figura onde questi ricordi traggono, è la figura di mio padre seduto in poltrona, così come io la vedevo più di quarant’anni addietro […]. Queste figure composite che io chiamo poltromamma e poltrobabbo mi hanno anche dato la riprova naturale di come nascono le figure mitologiche. L’unione di un uomo e di un cavallo finisce per comporre un centauro. L’unione di mio padre e della poltrona sulla quale egli soleva sedersi finì per comporre un poltromo. Mio padre morì, e la poltrona rimase vuota. Rimase vedova. Nessuno ci si sedeva per rispetto. Sul sedile, sullo schienale, sui braccioli restavano le fosse incavate del corpo che non era più: il negativo del corpo di mio padre, la forma della statua, il concavo del convesso passato fra le ombre. E la poltrona sembrava mutilata. Non in un senso ispirato dal sentimento, ma in senso anatomico. Come un centauro che ha perduto la parte umana, ed è ridotto alla sola parte equina.

(SAVINIO 1947)

Recuperato il mito senza sublime tramite l’ironia, Savinio riordina il caos dell’inconscio e dell’informe con la creazione di un nuovo immaginario che recupera elementi del mondo classico spesso rovesciato in parodia grottesca, senza traccia alcuna di consolatoria bellezza. In questo modo è resa più acuta la percezione di uno straniamento complessivo che incrina i parametri interpretativi correnti e restituisce densità al mondo circostante.

La compenetrazione fra gli umani e i mobili, fra gli umani e le cose che li circondano, fra gli umani e gli spazi che abitano, conserva però qualcosa di salvifico, in grado di preservare almeno il ricordo dell’essere umano, un negativo, come la poltrona antropomorfa del padre. Savinio stesso immagina per sé una forma di sopravvivenza legata allo spazio dentro cui lavora, il suo studio, che finirà per assimilarlo.

Io morrò, ma parte di me sopravviverà dentro questo cubo di cemento e ferro, gonfio di lato da un semicerchio vetrato, dentro il quale io mi sto al modo di un oggetto nel suo astuccio: e sarà il guscio della noce dopo che il gheriglio si è disciolto nella marcedine, sarà il carapace della tartaruga dopo che la carne si è consunta nella putrefazione.

(SAVINIO 1989)

L’integrazione fra materia vivente e materia inerte si è compiuta anche nella carne dell’autore: come un oggetto nel suo astuccio, riesce a liberarsi dalla morte e a sopravvivere almeno in parte facendosi assorbire dal cemento, dal vetro e dal ferro che lo circonda. Immagina di concludere la sua parabola vitale facendo il percorso opposto a quello di Pinocchio e celebrando senza enfasi la propria mutazione in una forma dell’inorganico (SCARPA 1995).

La domenica della vita

La donna è mobile?
So per certo
d’essere poltrona.
Ed è la verità,
non solo una credenza.

(TEATINI 1999, p. 93)

Der Sonntag des Lebens, cioè la domenica della vita, è un’espressione di Hegel. Nelle lezioni sull’estetica parlando della pittura olandese sottolinea che la materia rappresentata è indifferente e gli oggetti raffigurati sono banali e quotidiani. Essi rappresentano il transitorio che viene fissato e reso permanente. L’arte trionfa sulla caducità del vivere e la soggettività dell’artista si afferma come umorismo e ironia (HEGEL 1986, p. 130). In altre parole, cose e oggetti si scoprono nella loro luminosa estraneità quando si riesce a compiere una specie di epochè del vivere, una sospensione che potenzia il mondo intorno. È quello che accade appunto nello Stilleben: la pittura esatta delle cose le immobilizza e le trasfigura, potenziandole. E così forse le salva dal tempus edax, che mangia e corrompe.

Nel 1962, durante la sua prima mostra alla Galleria Ferus di Los Angeles, Andy Warhol decide di esibire 32 immagini serigrafiche dei barattoli rossi e bianchi della Campbell’s Soup (fig. 11). Fino a quel momento i barattoli sono presenti solo nei supermercati, da quel momento in poi la loro immagine diventa icona senza tempo, esposta al MoMa di New York.

La proliferazione del superfluo, la democratizzazione del lusso, ma soprattutto la perdita del senso del lavoro che precede la comparsa dell’oggetto, diffondono ancora cose sensibilmente sovrasensibili. Come Warhol, si estetizza la merce e si mercifica l’oggetto estetizzato, (an)estetizzando i fruitori. Senza l’aura e senza il sacro rituale può emergere però il sapore ludico dell’esperienza estetica, l’ironia come forma di resilienza (ERCOLANI 2018).

Nel 1968 Piero Gatti, Cesare Paolini e Franco Teodoro inventano la poltrona Sacco, vincitrice del Compasso d’oro nel 1970. La poltrona era appunto un sacco, pieno di palline di polistirolo, disponibile in vari colori e manipolabile in varie forme. Introduceva un modo nuovo di concepire la poltrona che contrastava con la tradizione italiana del salotto buono. Destrutturata, informale e fuori degli schemi è tuttora in produzione (fig. 12). È diventata celebre anche per un episodio del film Fracchia la belva umana del 1981 per la regia di Neri Parenti. Convocato dal direttore, Giandomenico Fracchia cerca di obbedire all’invito di accomodarsi sulla poltrona senza riuscirci, compiendo disperati tentativi e patetiche acrobazie, fino a prenderla a pugni pieno di frustrazione. Ridotta a uno strumento di tortura sottilmente degradante per chi si dimostra inadeguato, rinnega la comodità e il relax tradizionalmente intesi, presentandosi con una forma alternativa e inconsueta: ancora una volta la poltrona non è (solo) una poltrona.

Bibliografia

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