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il sublime rovesciato: comico umorismo e affini

Copertina Numero 04

 aprile 2012

Saggi e rassegne

Moena Gandolfo

Heredes et heredipetae. La satira degli eredi e dei cacciatori di eredità nella letteratura latina

I sentimenti inconfessabili e aberranti che fanno parte dell’animo umano, quali il vizio, l’egoismo, la sete di potere e l’avidità sono stati spesso oggetto di satira e spunto per la creazione di effetti comici. Ad accompagnare questa riflessione sarà la figura poco nota di Publilio Siro, schiavo affrancato, nato in Siria, come si desume dal nome e giunto a Roma intorno all’83 a.C. Fu autore di mimi molto apprezzati nell’antichità di cui ci rimangono solo due titoli Murmurco (Il brontolone), Putatores (I potatori), quattro versi e le sue sententiae.
Petronio nel Satyricon 55 mette in bocca a Trimalchione i seguenti sedici senari giambici che attribuisce a Publilio Siro contro l’ostentazione del lusso e i peccati di gola.

Marci nel vizio son gli spalti indomiti.
Pavoni, al tuo palato, le stie ingrassano
piumati d’or qual drappo babilonico,
cappon di Gallia e gallinelle numide.
Fin la cicogna, pellegrina ospite,
cara e pia, dal piè snello e il canto stridulo,
che fugge i geli e annuncia i giorni tiepidi,
vide il suo nido offeso dalla crapula.
A chi la gemma, a chi la perla indica?
Forse a matrona dai gioielli esotici
che si abbandoni su straniero talamo?
Perché il verde smeraldo tu desideri,
o il fuoco della pietra di Cartagine?
Forse perché il pudore se ne illumini?
È decente che sposa, in velo labile,
nuda appaia sotto il lino sottilissimo?

A Publilio Siro apparteneva uno spirito moralistico: nei suoi mimi copiose dovevano essere le sententiae, massime di una sola riga di lunghezza, tutte in senari giambici. Dai suoi mimi già nell’antichità fu estratta un’ampia antologia, arricchita in seguito con l’aggiunta di sententiae di altri autori, anche cristiani. Tale raccolta, attribuita a Publilio Siro e giunta così fino a noi, consta di circa 700 sententiae.
Tra queste sei riguardano la figura dell’heres e il tema dell’hereditas. L’heres è un essere avidus, in preda a un desiderio incontrollabile di ricchezza che sembra non placarsi mai. Egli, spinto dall’aviditas, pur di ereditare un patrimonio è disposto a commettere ogni tipo di inganno fino all’omicidio.

Publio Siro e il teatro dei mimi

Prima di passare all’analisi delle sententiae cerchiamo di conoscere Publilio Siro, scrittore di mimi, alla luce delle testimonianze pervenuteci e di inquadrarlo nel suo contesto storico (per il quadro storico MONACO, DE BERNARDIS, SORCI e PICONE , ROMANO, GASTI).
Nell’età che va dai Gracchi a Silla si assiste alla crisi dei generi teatrali tradizionali: la tragedia, con la sua predilezione per i soggetti mitologici e per un linguaggio fine e ricercato, era divenuta sempre più un genere aristocratico, difficilmente fruibile da parte di un pubblico vasto. La commedia, invece, dinanzi a una società che aveva assistito al disintegrarsi della sua precedente coesione, aveva visto tramontare la sua fondamentale funzione di rappresentazione teatrale in grado di coinvolgere tutta la comunità dei cittadini. Si protrassero le rappresentazioni delle commedie di Plauto e delle tragedie di Accio e Pacuvio; lo stesso Terenzio, nonostante le difficoltà, riuscì a portare in scena l’Hecyra, commedia fine e un po’ sofisticata. Il pubblico però iniziò a mostrarsi sempre meno interessato a tali generi di spettacolo, preferendo quelli più ricchi di vitalità scenica, dal sapore forte e piccante.
A ciò si deve in primo luogo il recupero di un genere popolaresco tradizionale come l’atellana e, qualche decennio dopo, l’affermarsi del mimo. Nell’età che va dalla morte di Silla al 31 a.C., soppiantata l’atellana, il mimo divenne il genere teatrale più in voga.

Il termine latino mimus tradisce un’origine greca: corrisponde infatti al greco mímos, legato al sostantivo mímesis («imitazione») e al verbo miméisthai che vuol dire «imitare». In effetti l’obiettivo del mimo è quello di imitare la realtà. Se da una parte le situazioni rappresentate erano quasi sempre le stesse, dall’altra la struttura dei mimi variava di volta in volta. Si trattava infatti di una scena o di un insieme di scene comiche, come una sorta di gag indipendente, che gli attori improvvisavano avendo in mente canovacci. La funzione precedentemente propria dell’atellana, cioè quella di embolium o exodium, rispettivamente di «intermezzo» o «comica finale», a conclusione dello spettacolo teatrale, dopo le rappresentazioni tradizionali, fu svolta in un secondo momento dal mimo. Questo si deduce anche dalla testimonianza di Cicerone il quale, nelle Epistulae ad familiares (9,16,7), risponde così all’amico Papirio Peto, che gli aveva riferito alcuni versi di una tragedia di Accio:

dopo l’Enomao di Accio non hai introdotto, come si usava un tempo, un’atellana, ma, come è ora d’uso, un mimo.

Uno dei dati più certi relativi al mimo è senza dubbio l’uso di schemi metrici regolari, per lo più metri giambici e trocaici, quelli stessi che nella commedia riproducevano dialoghi e conversazioni.
Il gusto era fortemente realistico, il linguaggio licenzioso e sboccato, come dimostrano i frammenti in nostro possesso. Due erano gli elementi del tutto nuovi rispetto ai tradizionali spettacoli teatrali: in primo luogo il ricorso a interpreti femminili, contravvenendo al tabù religioso che non ammetteva le donne sulla scena, palesando in tal modo il basso apprezzamento riservato a tale forma teatrale; in secondo luogo la recitazione senza maschere, visto il ruolo fondamentale riservato alla gestualità del viso.
Il mimo raggiunse livelli letterari con due autori: Decimo Laberio e Publilio Siro.
Di essi sappiamo molto poco, ma il caso volle che fossero entrambi protagonisti di una vicenda di cui ci informa un autore del IV-V sec. d.C., Macrobio (Saturnalia, 2,7,6-7) il quale scrive così di Publilio Siro:

Dopo aver seguito studi accurati, compose dei mimi che cominciò a rappresentare in varie città d’Italia ottenendo enorme successo. Presentatosi a Roma in occasione dei giochi di Cesare, invitò ad una sfida tutti quelli che avevano un contratto teatrale per le loro opere e la loro partecipazione personale: ciascuno proponesse un argomento e a turno lo svolgesse in gara con lui. Nessuno ricusò ed egli vinse tutti, fra cui anche Laberio.

Siamo nel 46 a.C. durante i ludi victoriae Caesaris che celebravano la vittoria di Cesare su Pompeo.
Laberio, di cui ci restano 40 titoli di mimi più un totale di circa 150 versi, era un eques Romanus, noto per la sua franchezza di linguaggio e il suo spirito mordace e aggressivo.
È Laberio in persona, come si evince dai versi seguenti riportati da Macrobio (Laberio 98-108 e 121-124 Ribbeck3, Macrobio, Saturnalia, 2,7,2-3) ad attestare di essere stato costretto da Cesare in occasione dei ludi a gareggiare sulla scena con Publilio Siro, il quale aveva lanciato una sfida letteraria agli scrittori di mimi.

O necessità, la cui impetuosa furia avversa
molti vollero sfuggire, ma pochi riuscirono,
ove mi cacciasti quasi privo di sensi?
Quello che nessuna ambizione, nessun donativo mai,
nessun timore, nessuna forza né autorità,
poté smuovere in gioventù da dignitoso rango,
ecco che da vecchio si lasciò facilmente piegare,
per le espressioni moderate di un uomo eccelso,
da una preghiera fatta con voce pacata e carezzevole!
A chi gli stessi dèi nulla poterono negare,
come avrei potuto io, uomo, dir di no? […]
Come l’edera serpeggiando uccide il vigor delle piante,
così la vecchiaia mi stronca avvolgendomi d’anni:
simile a sepolcro, non ho più che il nome.

Cesare, con quella costrizione, presumibilmente aveva voluto vendicarsi infliggendo una punizione all’anziano mimografo, per gli attacchi che doveva avergli rivolto in passato. L’anziano Laberio, come avrebbe potuto sottrarsi a quella che risultava essere una richiesta fatta da un potente e che come tale, anche secondo il parere di Macrobio, figurava come obbligo?
Laberio dunque pagava così la sua libertà di parola, ma ad essa non volle rinunciare neppure in quella occasione proprio durante i ludi victoriae Caesaris, quando, mentre interpretava il ruolo di un schiavo colpito dalle sferzate, rivolse a Cesare espressioni pesanti:

porro Quirites libertatem perdimus
davvero, Quiriti, non abbiamo più libertà.
(Laberio 125 Ribbeck3)

A queste parole tutto quanto il pubblico rivolse lo sguardo sul solo Cesare, notando come la sua prepotenza fosse stata presa a pietre da quella mordacità. Per questo Cesare rivolse il suo favore a Publilio Siro. (Macrobio, Saturnalia, 2,7,5)

Così dunque fu punito Decimo Laberio. La sua mordacità gli costò la perdita del titolo di eques, la restituzione dell’anello da cavaliere e dei 500.000 sesterzi che rappresentavano il censo minimo per appartenere all’ordine equestre e infine la consegna della palma della vittoria al giovane Publilio Siro. Dopo averlo umiliato, Cesare lo riammise nell’ordine dei cavalieri, con un gesto della sua ben nota clementia.

Le sententiae di Publio Siro

La mia riflessione sull’avidità e sull’inganno prende le mosse dalle seguenti sententiae di Publilio Siro riferite alla figura dell’heres e alla hereditas :

221) Heredis fletus sub persona risus est.
222) Heredem ferre utilius est quam quaerere.
323) Mage fidus heres nascitur quam scribitur.
333) Male secum agit aeger, medicum qui heredem facit.
498) Probo bona fama maxima est hereditas.
626) Thesaurum in sepulcro ponit, qui senem heredem facit.
(Publilii Syri Sententiae, ed. Ribbeck, Scaenicae Romanorum poesis fragmenta II, Leipzig 18733)

HEREDIS FLETUS SUB PERSONA RISUS EST

La sententia di Publilio Siro Heredis fletus sub persona risus est, che potremmo tradurre «il pianto dell’erede è riso sotto la maschera», sottolinea il comportamento riprovevole che spesso è tenuto dall’heres. Publilio Siro con un efficace ossimoro accosta due termini contradditori fletus / risus e inserisce tra di essi l’espressione sub persona. Il termine persona, molto probabilmente trasmigrato nella lingua latina dal greco prósopon attraverso l’etrusco phersu, sta ad indicare la maschera che utilizzavano gli attori teatrali, indossando la quale assumevano le sembianze del personaggio che interpretavano. Nel linguaggio quotidiano l’imbroglio e l’inganno spesso vengono associati alla metafora della maschera. Essa sottolinea che ciò che appare vero, in realtà è falso, mentre sub persona, sotto la maschera, si trova la verità, la realtà, l’essere autentico dell’individuo (MUSTACCHI).
Una interessante etimologia è quella secondo cui il termine persona deriverebbe dalla preposizione per e dall’infinito sonare (risuonare attraverso) in riferimento alla maschera teatrale in cui la bocca era fatta in modo da rafforzare il suono della voce (ut personaret). Sulla scorta di questa etimologia la maschera potrebbe essere uno strumento che permetterebbe all’uomo di avvicinarsi a realtà ultrasensibili, che altrimenti non potrebbero manifestarsi. «Suonare attraverso», dunque, indicherebbe che lo spirito del personaggio, del dio, dell’animale attraverso la maschera può rivelarsi. Il punto forte del termine è la particella per che sta a significare attraverso, al posto di, essere oltre.
L’heres della sententia di Publilio Siro, dunque, come attore di teatro, ha scelto di indossare la maschera dell’uomo addolorato, di colui che piange. Si tratta però di un pianto falso, non autentico, ingannatore.
Renzo Tosi sottolinea che paralleli alla formulazione di Publilio Siro sono gli attuali proverbi francese, spagnolo e tedesco «alle lacrime dell’erede è ben matto chi ci crede» (TOSI, p.104).

È possibile rintracciare una meditazione analoga a quella di Publilio Siro sull’aviditas heredis in alcuni versi di Orazio, di Persio, Marziale e Giovenale.
Se in Orazio è dominante il tono ironico e la tendenza a suscitare un sorriso garbato, nelle satire di Persio emerge la condanna severa dei costumi alla deriva. Persio disgustato si erge ad arcigno fustigatore delle debolezze umane, sforzandosi di correggere le pecche a forza di metterle alla berlina (PAGLIANO, pp. 3-8). Ecco che si assegna dunque una missione di chirurgia morale: voler estirpare il morbo per guarire l’organismo malato.
Marziale invece evita di lasciarsi andare a commenti moralistici e di ergersi a maestro di vita. Egli è soltanto un cugino scanzonato dei poeti satirici: gli manca di essi la coscienza morale e l’indignatio. «In epigrammi incisivi dove la parola è colore o disegno preciso con un suggello finale di beffa o di frizzo scoppiettante o di sdegno o di cattivo augurio» (CARBONETTO, pp. X-XI) Marziale non attacca i singoli individui della Roma del I sec. d.C. ma, in modo realistico ed efficace, ritrae tutti i tipi umani nei loro caratteristici atteggiamenti, nei pensieri, nei comportamenti, nei discorsi.
Il suo intento non è quello di suscitare nel lettore il disgusto per il vizio, ma di provocare il riso (BOIRIVANT, pp. XXVI-XXVII).

I miei libretti hanno imparato a seguire questa norma:
risparmiare il peccatore, denunciare i vizi.
(Marziale, Epigr. X 33)

Qui non troverai Centauri, non Gorgoni, non Arpie:
la mia pagina sa di uomo.
(Marziale, Epigr. X 4, 7-8)

Anche Giovenale, vissuto sotto i Flavi e gli Antonini, passa in rassegna i vizi della società. Per far ciò servono strumenti più decisivi: la denuncia e, se necessario, il bisturi camuffato da verso della satira. Egli scrive che si natura negat, facit indignatio versum/ qualemcumque potest (se anche non fosse del mio carattere, è l’indignazione che, come può, mi spinge a scrivere) (Serm. I, 79-80). «È l’indignatio a far da dýnamis poietiké» (MONTI, pp. 54-55), che lo porta a dipingere quadri allucinati della realtà, sui quali invita a ridere a denti stretti (censura rigidi cachinni).

Iniziamo con l’analisi dei passi oraziani che ci interessano.
Orazio (Carm. II 3, 17-20) si rivolge a Dellio, ufficiale di Antonio nella guerra contro i Parti del 36 e passato poi a Ottaviano, e gli ricorda la fugacità di ogni evento, anche felice, e l’ineluttabilità della morte:

Poi te ne andrai dai fondi che hai comprato, dalla casa,
dalla tua villa lungo il Tevere biondo,
lascerai all’erede il cumulo di ricchezze.

E in un’altra ode (Carm. IV 7, 19-20):

Tutto sfugge alle mani avide dell’erede,
tutto ciò che avrai dato ad un animo amico.

Il poeta in queste due odi sta riflettendo sulla impassibilità della morte. La morte non risparmia nessuno. Una volta sopraggiunta, il defunto nulla porta con sé. Ci viene facile immaginare con Publilio Siro il risus dell’heres dalle manus avidae di cui parla Orazio che è pronto ad impossessarsi di tutto, delle divitiae defuncti, dei suoi fondi, della sua casa e della sua villa.
Anche in un’altra ode Orazio (Carm. II 14, 21-22) rivolgendosi a Postumo gli ricorda che mors indomita est e che a causa di essa bisogna lasciare tellures et domus et placentem uxorem. Poi aggiunge:

E il cecubo, che hai chiuso con cento chiavi,
(absumet heres) consumerà l’erede: ne è piuttosto degno!
E il vino troppo raro verserà sui mosaici
in cene grandi e degne da pontefici.
(Hor. Carm. II 14, 25-28)

La morte qui è vissuta quasi come una colpa. Il verbo absumere, dal significato di prendere per usare fino in fondo, sottolinea il comportamento dell’erede che non farà un uso misurato del vino pregiato di Cecubo, piuttosto lo consumerà, lo dissiperà. Egli, paradossalmente, viene però qualificato dignus, meritevole del vino. Perché?! Perché vive. Non si festeggia la morte che rende ricchi, come gli eredi banali e spregevoli, ma la vita, che a chi la perde appare quasi come una giusta orgia (MANDRUZZATO, p. 495).
Ma l’aviditas dell’erede fino a che punto può giungere? In altri versi tratti dalle epistole di Orazio, il poeta insiste nel sottolineare che l’erede è a tal punto bramoso di denaro da lamentarsi qualora gli venga lasciato un patrimonio non superiore a quello che il suo predecessore aveva ricevuto.
Il poeta  si rivolge a Torquato, avvocato celebre, e lo invita a godere dei doni della fortuna nel giorno in cui si festeggiava il compleanno di Cesare Augusto:

Che rimane della fortuna, se non è lecito servirsene? Chi è parco e troppo austero, perché lo preoccupa l’erede, può far compagnia ad un pazzo. Sarò io il primo a bere e spargere fiori, e accetterò di sembrare magari una persona di poco equilibrio.
(Hor., Epistulae I 5, 12-15)

Voglio cogliere da un piccolo mucchio quanto la realtà chiede per i miei bisogni: e non temerò il giudizio del mio erede, perché non troverà di più di quanto a me è stato dato.
(Hor., Epistulae II 2, 190-192)

Chi vive parcus e nimium severus perché si preoccupa dell’heres e delle sue pretese, e non riesce a godere di ciò che la fortuna gli ha concesso, può fare compagnia ad un insanus.
Anche nella satira VI di Persio, dove è introdotta una riflessione sul tema dell’avarizia e sulla prodigalità, emerge quanto i versi di Orazio avevano rivelato:

Vivi spendendo quanto ti consentono le tue rendite,
e tutto il grano portalo a macinare, ti è permesso. Di cosa hai paura?
(Serm. VI, 25-26)

È legittimo spendere quanto consentono le proprie rendite. È giusto usufruire dei prodotti dell’annata, aspettando quelli dell’annata successiva. Ma è anche opportuno usare le proprie ricchezze per i bisognosi (LA PENNA, p. 38). Persio invita ad essere generosi, ad esempio, nei confronti di un amico ridotto in miseria da un naufragio. I naufraghi solevano far dipingere la scena del naufragio sulle tavolette per impietosire la gente. Così Persio scrive:

Questo è il momento di sottrarre qualcosa al tuo gruzzolo, di venire incontro al povero amico onde non sia costretto ad andare in giro mostrandosi dipinto in una tavoletta azzurra.
(Serm. VI, 31-33)

Poi si sofferma sulle obiezioni mosse da un avaro:

Ma l’erede infuriato non si curerà del banchetto funebre se tu decurterai il tuo capitale, calerà nell’urna le tue ossa senza averle prima cosparse di profumi […] Pretenderesti di intaccare i tuoi beni senza subirne conseguenze.
(Serm. VI, 33-35 e 37)

Ma perché preoccuparsi di ciò che farà l’erede dopo la morte? Perché avere cura dello iudicium heredis di cui parlava Orazio? Persio, rivolgendosi direttamente all’erede che dichiara di non voler accettare un patrimonio impoverito, ribatte:

E del resto, se non m’avanza più alcuna zia paterna, nessuna cugina, nessuna pronipote di zio paterno, e la zia materna è morta senza figli, se da parte di mia nonna nessuno è più al mondo, me ne vado a Boville e al poggio di Virbio: là non mi sarà difficile trovare a portata di mano un qualche Manio cui lasciare il mio. Un figlio di nessuno.

Tu che mi sei subito davanti, che diritto hai di chiedermi la fiaccola, mentre ancora sto correndo la mia corsa?
(Serm. VI, 52-57 e 61)

Dopo questo breve excursus in cui vengono nominate le diverse categorie di heredes in ordine di successione, stabilito che al mondo nessuno è sopravvissuto a parte l’heres dalle manus avidae, il poeta comunica la sua volontà di recarsi a Boville, una borgata a pochi chilometri da Roma. Sul colle Virbio soleva sostare una moltitudine di mendicanti, tra i quali sembra che fosse particolarmente diffuso il nome di Manio, che attendeva i signori cui chiedere l’elemosina (LA PENNA, pp. 38-39). Tra di essi egli cercherà un altro erede, uno qualsiasi. Egli spera che il nuovo erede, unito a lui da un vero e sincero affetto, non nasconda sub persona un’indole avida come l’heres di Publilio Siro e che possa sinceramente piangere nel momento in cui sopraggiungerà la sua morte. Per quanto poco resti, per l’erede è tutto guadagnato: è inammissibile che egli chieda conto di ciò che gli è donato gratuitamente.
Questa l’esortazione: non risparmiare per poi vivere nella miseria, perché in seguito l’erede dilapiderà i tuoi beni vivendo nel lusso.
La riflessione scaturita dall’analisi della sententia di Publilio Siro è valida anche per il seguente epigramma di Marziale:

Tuo padre aveva stabilito per te, Filomuso, duemila sesterzi al mese e te li passava giorno per giorno, perché la penuria dell’indomani incalzava sempre la tua prodigalità e bisognava passare ai tuoi vizi un tanto al giorno. Ma tuo padre morendo ti ha fatto erede universale: Filomuso, ti ha diseredato.
(Epigr. III, 10)

Viene qui descritto il comportamento di un padre che ogni mese è costretto a mettere da parte duemila sesterzi per permettere al figlio Filomuso di potere soddisfare i suoi capricci: «ai tuoi vizi bisogna dare un tanto al giorno». Egli era al corrente del fatto che sopravvenuta la morte non avrebbe più potuto porre un limite alla sfrenatezza del figlio, alla sua luxuria. Il padre per evitare che il figlio potesse scialacquare in poco tempo tutte le sostanze e per salvaguardare in primo luogo la sua condotta spregiudicata lo disereda: lo esclude dalla possibilità di acquisire l’hereditas tanto bramata.

THESAURUM IN SEPULCRO PONIT, QUI SENEM HEREDEM FACIT

Per Publilio Siro un ereditando non agirebbe correttamente nel caso in cui istituisse
erede un senex, piuttosto che uno iuvenis, così da permettergli di acquisire l’hereditas. Egli infatti scrive Thesaurum in sepulcro ponit, qui senem heredem facit, cioè «pone un tesoro nella tomba colui che istituisce erede un vecchio». È chiaro che un uomo in età avanzata, rispetto ad un giovane, ha una vita più breve dinanzi a sé e non avrebbe modo di trarre pieno giovamento dal possesso del patrimonio ereditato, che non subirebbe perdita di sorta, a causa della vecchiaia, con tutto ciò che essa comporta, compreso l’indebolimento della persona umana.

MALE SECUM AGIT AEGER, MEDICUM QUI HEREDEM FACIT

Publilio Siro scrive in un’altra sententia: Male secum agit aeger, medicum qui heredem facit, cioè «agisce male con se stesso il malato che nomina erede un medico».
Il medico senza scrupoli, accecato dalla sete di denaro, pregustando con il pensiero il momento in cui egli avrebbe acquistato l’hereditas, non avrebbe fatto trascorrere giorno, ora, istante sperando nella morte del paziente, ma sarebbe stato anche capace di agire a danno della vita, contravvenendo al giuramento di Ippocrate.

Anche Persio, nella satira II, ritiene che buona parte degli uomini, bramosa di arricchirsi, giunge anche a rivolgere in segreto a Giove preghiere malvagie, disoneste, che non oserebbe mai pronunciare apertamente. Vengono introdotti esempi di tali preghiere, tra le quali anche quella rivolta ad Ercole e pronunciata da un uomo stolto ed avido che desidererebbe entrare in possesso dell’hereditas:

Se Ercole benigno mi facesse tintinnare sotto il rastrello una brocca di quattrini! Se potessi cancellare il pupillo, cui vengo subito dietro nella lista degli eredi!!
(Serm. II, 10-13)

HEREDEM FERRE UTILIUS EST QUAM QUAERERE

Individuare la persona giusta da istituire erede per testamento in una società corrotta è particolarmente difficile. È per questo motivo che Publilio Siro in un’altra sententia sostiene: heredem ferre utilius est quam quaerere cioè «è più vantaggioso sopportare un erede piuttosto che cercarlo». Il rischio di incorrere, per esempio, in viziosi di ogni genere, cacciatori di eredità, avidi, avari, falsi moralisti, parassiti, sfaccendati, maldicenti, invidiosi, donne impudiche e insaziabili, che perseguono i loro scopi senza farsi alcuno scrupolo è alto.

MAGE FIDUS HERES NASCITUR QUAM SCRIBITUR

Per il possessore dell’eredità è senza dubbio più vantaggioso accettare colui che è heres per nascita. Ma perché è più vantaggioso? Publilio Siro scrive: mage fidus heres nascitur quam scribitur. All’aggettivo fidus può essere conferito il significato di sicuro. La frase vuol sottolineare una differenza tra heres nascitur ed heres scribitur non soltanto sul piano giuridico, ma anche sul piano morale.
Dal punto di vista giuridico l’heres natus è colui che in qualità di filius, o in assenza di questo, in qualità di parente prossimo, è sicuramente erede per nascita, ex lege, anche nel caso in cui l’ereditando muoia senza lasciar testamento.
L’heres scriptus è colui che viene istituito erede per testamento, l’atto più personale che l’ordinamento giuridico conosca, che dà la possibilità al testatore, in base alla sua voluntas, di designare erede chi heres non nascitur. Colui che è già erede per nascita, ad es. un filius, il più delle volte è più fidus, più fedele, di colui che è chiamato all’eredità per testamento.
L’heres scriptus può anche essere un uomo che finge e maschera di essere fidus et amicus, che servendosi di ogni mezzo a sua disposizione riesce a circuire, ad ingannare colui che, il più delle volte anziano, senza figli e vedovo, è in possesso dell’ingente eredità e a guadagnarsi insieme alla sua fiducia anche i beni.

HEREDIPETAE

Ecco che emerge un gruppo di esseri umani che tanto hanno a che fare con gli heredes e con l’hereditas: gli heredipetae.
Marziale scrive nei suoi epigrammi circa i cacciatori di eredità:

Perché mandi sontuosi doni ai vecchi e alle vedove, Gargiliano, vorresti che ti dicessi generoso (munificus)? Nessuno è più gretto, nessuno è più abietto di te, che hai la faccia di chiamare doni le tue insidie: allo stesso modo l’amo ingannatore (fallax hamus) alletta gli avidi pesci, e l’astuta esca (callida esca) inganna gli stolti animali.
(Epigr. IV 56, 1-6)

Sai che cercano la tua benevolenza, o Mariano, sai che chi la cerca è un avido e sai che cosa vuole chi la cerca. E tu, sciocco, lo indichi come erede universale nelle tue ultime volontà e vuoi, pazzo, che quello ti succeda. “Ma mi ha mandato doni”. Già, li ha mandati attaccati all’amo: possibile che un pesce ami il pescatore? Colui piangerà di sincero dolore alla tua morte? Se vuoi che pianga davvero, Mariano, non fargli ereditare nulla.
(Epigr. VI 63)

Anche l’heredipeta indossa quindi una maschera come l’avidus heres di Publilio Siro. Egli sub persona è sordidus, spurcus, avarus, spilorcio e infame, ma vuole apparire munificus, generoso. Indossa la maschera dell’esperto pescatore, invia munera ingentia, munera magna che, come un fallax hamus e una callida esca, nascondono insidiae ai poveri anziani e vedove, equiparati ad avidi pesci e a stolti animali. Mariano viene messo in guardia: chi è avido, cerca la sua benevolenza, non certo con disinteresse. Mira al patrimonio, in realtà, all’hereditas. Marziale con un esempio che calza perfettamente si chiede: è possibile che un pesce ami a tal punto il proprio pescatore?!
Ancora Marziale scrive:

Salano ha perduto l’unico figlio: Oppiano, tardi a inviargli doni? Ohimè, crudele destino e malvagie Parche! Quale avvoltoio si butterà su questo cadavere?
(Epigr. VI 63)

Un vecchio padre ha perso l’unico suo figlio. Marziale rivolgendosi al captator Oppiano chiede: tardi ad inviare doni a Salano? Paragonato ad un uccello rapace, quale il vultur, l’avvoltoio, Oppiano per diventare erede di Salano, ricco e senza più alcun figlio, nascondendo sub persona la sua vera indole avida e mostrandosi munificus, avrebbe iniziato ad adularlo, servirlo, circuirlo e allettarlo con i suoi dona / insidiae.

Giovenale dichiara di voler tralasciare gli argomenti del mito, perché dinanzi alle storture e alla corruzione della società è impossibile non scrivere satire. Ecco che passa in rassegna avvocati disonesti e delatori, ruffiani, tutori ladri, cacciatori di eredità e mariti che ereditano dagli amanti della moglie. Come sopportare una città così perversa? Scrive:

Quando ti si para davanti gente che si guadagna i testamenti di notte, e altri che han trovato che la miglior strada per arrivare al cielo è la vescica di una vecchia beata! Proculeio si piglia un dodicesimo dell’eredità, Gillone il resto: così ciascuno è erede secondo la forza dei lombi.
(Serm. I, 37-41)

Proculeio e Gillone sono sfruttatori di donne, alla caccia del testamento della vecchia dissoluta e ricca. Giovenale si fa portavoce del risentimento provato dall’uomo onesto che vive nell’indigenza quando si vede costretto a farsi da parte per lasciare il passo ad individui abietti, che devono il loro prestigio sociale a ricchezze ottenute in cambio della prostituzione del loro corpo: il verbo mereri o merere allude apertamente ad un guadagno di tal genere (MONTI, p.78).
Ma ancor più raccapricciante è ciò che Giovenale aggiunge dopo:

quando un marito ruffiano si piglia i beni dell’amante di sua moglie, se lei non può ereditarli direttamente.
(Serm. I, 55-56)

Secondo la legislazione romana, una donna senza figli non poteva ereditare. Giovenale qui immagina il caso di un marito, definito leno che, al corrente di una relazione extraconiugale della moglie con un uomo facoltoso, lascia fare, sperando che l’amante della moglie, morendo, intesti a lui medesimo quell’eredità che eventualmente non abbia potuto lasciare alla donna.
Secondo Salvatore Monti ha ragione lo scoliasta nello scrivere vendens coniugis castitatem: «tale connivenza indigna Giovenale che si scaglia contro l’elemento più lurido della lurida combriccola: il marito» (MONTI, pp. 64-66). Così continua Giovenale:

E del resto, non illudiamoci, che dovere e che merito è mai quello di un povero, se in piena notte si butta addosso la toga e corre, quando ci sono pretori che spediscono il littore a precipizio, a spiare il primo sbadiglio di qualche ricca vedova, perché non sia primo il collega a dare il buongiorno ad Albina o Modia.
(Serm. III, 126-130)

Gli heredipetae fanno a gara a chi arriva prima «a spiare il primo sbadiglio di qualche ricca vedova», a farle giungere i propri saluti, per potere strappare un qualche cenno nel testamento prima degli altri.
L’heredipeta compie una scelta: quella di semper mentiri.
È nella satira V di Orazio e nel Satyricon di Petronio che compare la figura dell’heredipeta: dopo tante peripezie in mare Odisseo giunge ad Itaca, così come Encolpio dopo un naufragio insieme ai suoi compagni arriva a Crotone. Come l’Itaca descritta da Orazio, anche la Crotone petroniana diventerà il regno degli heredipetae, per la conquista del quale i protagonisti eserciteranno il loro acume (TALIERCIO, pp. 55-77).
La vita a Crotone si limita ad una caccia alle eredità. Il vilicus esorta così Encolpio e i suoi amici:

Potete entrare in questa città come in un campo di pestilenza, dove non ci sono altro che cadaveri spolpati e corvi che spolpano.
(Satyr. 116,9)

L’immagine petroniana secondo cui i corvi stanno ad indicare gli heredipetae trova il suo antecedente nella satira II (5, 84-87) in cui Orazio scrive:

Qualche scrivan matricolato e furbo
torrà sovente all’anelante corbo
l’attesa preda, come un dì Corano
si farà gioco di Nasica ingordo.

Tiresia vuol mettere in guardia il cacciatore di eredità, riportando come esempio un episodio che doveva essere molto familiare ai lettori. Si tratta di Corano ex quinquevir (ufficiale di polizia di basso rango) divenuto scriba (ufficio più alto) che inganna l’heredipeta Nasica. Quest’ultimo viene paragonato ad un corvo che resta con la bocca avida spalancata, come del resto era accaduto nella favola di Esopo della volpe e del corvo. Nella satira oraziana Ulisse fa riferimento al dissesto economico della città in cui si deve recare e si rivolge così al vates:

O Tiresia oltre a ciò che dicesti, rispondi a me che t’interrogo:
con che arti e che modi le perdute sostanze io possa riavere?
(Serm. II 5, 1-3)

Il vate insegnerà ad Ulisse tutte le bassezze tipiche dell’heredipeta a cui dovrà sottoporsi. Secondo Annamaria Taliercio «è sconcertante il contrasto fra l’auctoritas del personaggio e la meschinità dei consigli, degni magari di un vilicus ma non di certo di un vates, e di un vates come Tiresia» (TALIERCIO, p. 60).
L’eroe si vanta di aver combattuto nel corso della sua vita contro i più valorosi. Per potersi nuovamente arricchire egli non dovrà rifiutarsi di divenire heredipeta con tutto ciò che questa scelta comporta: dovrà ingannare se stesso e chi lo circonda, fare da accompagnatore anche ad individui spergiuri, senza prosapia, insanguinati dal sangue fraterno, schiavi fuggitivi; dovrà combattere contro i migliori, cioè contro i cittadini onesti, ingannarli se necessario, schierandosi in tribunale anche a favore di individui falsi, malvagi, furfanti, purché ricchi e senza figli (TALIERCIO, pp. 65-66).
Sorprende che Ulisse presenti la degradazione che lo attende come l’ennesima peripezia da affrontare con un animo forte e impavido.

Comanderò al coraggioso mio cuore di sopportare questa prova.
(Serm. II 5, 20)

Il discorso sui captatores viene avviato nel Satyricon dallo stesso Encolpio, che rivolgendosi al vilicus si mostra interessato a conoscere quali uomini abitassero Crotone e a quali commerci si dedicassero dopo che le guerre avevano distrutto la prosperità di quel luogo. Il vilicus risponde:

Se invece siete gente raffinata e sapere mentire con arte e coscienza, fate conto di correr dritti verso la ricchezza. Perché in questa città non sono in onore le belle lettere; non si stima l’eloquenza; la frugalità e la santità dei costumi non riportano la minima lode; e mettetevi bene in mente che tutti coloro che incontrerete laggiù si dividono in due grandi classi: gli imbroglioni e gli imbrogliati.
(Satyr. 116,6)

Nessun valore è conferito alla veritas, alla virtus, al genus, all’amicitia, alla fama, alla familia. Tutti i valori fondamentali ed autentici non hanno alcuna importanza. Quel che conta è il denaro, la ricchezza, il patrimonio, l’eredità. Viene meno il carattere sacro del giuramento: Encolpio e i suoi compagni proclamano un giuramento solenne per poter portare a compimento un mendacium (TALIERCIO, p.67).
Nel Satyricon l’amore per il denaro impedisce ogni altro tipo di amore, anche quello che lega i genitori e i figli.

Un’onestissima matrona, la venerabile Filomena, che un tempo, con l’aiuto della sua bellezza, era riuscita a scroccare parecchie eredità, s’era ridotta adesso, vecchia e sfiorita, ad offrire compiacentemente un figlio e la figlia ai vecchi e senza famiglia, e continuava così ad esercitare l’arte per mezzo di questa trasmissione di poteri.
(Satyr. 140, 1)

L’episodio vede protagonista una matrona inter primas honesta, Filomena che, ormai vecchia, per accaparrarsi l’eredità continua ad esercitare l’ars captatoria, giungendo senza alcun ritegno a prostituire i suoi due figli in tenera età e a vendere la loro innocenza orbis senibus.

Nella satira V (vv. 136-143) Giovenale si rivolge a Trebio, un cliente che, anziché attendere la sportula mattutina dietro la porta del ricco patrono Virrone, è seduto alla sua tavola.

O quattrini, tutto questo onore è per voi, siete voi i suoi fratelli!
E se poi ci tieni proprio a diventare un grand’uomo e padrone di un grand’uomo come lui, allora fai in modo di non mettere al mondo nessun piccolo Enea, che venga a riempire di strilli la tua casa e nessuna bimbetta ancor più dolce e cara di lui. Deve essere sterile tua moglie, se vuoi che l’amico ti sia amabile e ti colga con il sorriso. Ma se a partorire è la tua Micale, allora può anche regalarti tre figli in una sola volta.

Se Trebio, avendo sposato una donna sterile, non avesse avuto figli, avrebbe ottenuto dai suoi amici una benevolenza di certo non disinteressata, perché avrebbe infuso in essi la speranza di essere ricordati un giorno come eredi nel testamento. Sarebbero stati ben accetti solamente i figli di Migale, nome di schiava concubina, i quali non potendo avanzare pretese sull’eredità, avrebbero preoccupato gli amici del signore (BARELLI, pp.320, 397-398).

Orazio racconta:

A Tebe una vecchia birbona fu portata a seppellire, secondo il suo testamento, in questo modo: il cadavere unto di olio abbondante lo portò sulle spalle l’erede, per vedere, è chiaro, se potesse scivolargli via almeno da morta: perché, io credo, troppo le era stato addosso mentre ella era in vita.
(Serm. II 5, 85-88)

Quello degli heredes e degli heredipetae è un mondo aberrante: un individuo accetta, pur di farsi riconoscere heres legalmente, di sollevare il cadavere unto di olio di una vecchia, perché così ella ha disposto che si facesse nel suo testamento, con ironia macabra. Si tratta di un mondo assurdo dove ogni logica è stravolta, la vita è «rifiutata» con il fletus e la morte «accolta» con il risus.
Le donne del tempo di Giovenale non desiderano più avere figli e, se ne hanno, come le donne del mito, possono arrivare a ucciderli. Nel mito però delitti di tal genere sono compiuti per gelosia e non propter nummos (BARELLI, p. 400).
Con queste parole Giovenale mette in guardia i figli di queste donne scellerate:

Attenti, pupilli, eredi di qualche patrimonio sostanzioso! Vegliate sulla vostra vita, diffidate di ogni piatto che vi portano davanti: queste torte sono livide di veleno materno! Prima di voi, morda qualcun altro ciò che vi fa servire colei che v’ha messo al mondo; gusti prima di voi la bevanda l’aio tremebondo.
(Serm. VI, 629-631)

Emblematico è l’episodio finale del Satyricon, il testamento di Eumolpo: gli eredi sarebbero entrati in possesso dell’hereditas solo se avessero mangiato il cadavere di Eumolpo, che rappresentava l’hereditas stessa, dal momento che egli nulla possedeva, se non il suo corpo (TALIERCIO, pp. 73-74).
Ma nessuno si ribella a questa realtà? In questa società ritratta in tutte le sue deformazioni da Publilio Siro, Persio, Giovanale, Marziale, Petronio, Orazio nessuno sub persona è davvero munificus?
Giovenale nella satira VI afferma che molti vorrebbero ottemperare alle leggi, prima fra tutte la lex Iulia che esige il matrimonio.

Ma a Ursidio piace la legge Giulia; spera già di poter sollevare tra le braccia il suo dolce erede, disposto a fare a meno della grassa tortora, della triglia barbata e di tutte le tentazioni del mercato.
(Serm. VI, 38-40)

Un tale Ursidio è tra quelli che desiderano contrarre matrimonio e che sperano di poter sollevare al più presto tra le braccia il neonato, così da riconoscerlo. Egli è pronto a rinunciare ai copiosi regali che gli heredipetae, indossando la maschera dei munifici, gli facevano in abbondanza, finché era scapolo e senza figli.

Sempre Giovenale nella satira XII si sta recando a compiere un sacrificio e spiega a un certo Corvino che è pronto a far festa per il ritorno dell’amico Catullo. In un viaggio per mare, assalito dalla tempesta e da un fulmine, Catullo ha perduto tutte le sue sostanze, ma si è salvato la vita. Giovenale, dopo aver compiuto il sacrificio, tornerà a casa e offrirà incensi al Lari domestici.
Egli rivolgendosi a Corvino dice:

Qui placherò il mio Giove domestico, offrirò incensi ai miei Lari paterni e spargerò intorno tutti i colori delle viole. Tutto splende di luce; alti sulla porta, si distendono lunghi rami e brillano le festose lucerne mattutine. Ma non sospettare di me, o Corvino, per tutto questo; Catullo, per il cui ritorno innalzo tanti altari, ha tre piccoli eredi. Vorrei proprio conoscere chi sacrificherebbe per un amico, da cui c’è poco da sperare, una gallina ammalata sul punto di morire.
(Serm. XII, 89-97)

Per la prima volta ci troviamo dinanzi a un esempio di generosità disinteressata. Il poeta non vive sperando di ereditare un giorno qualcosa da Catullo, ma tutto è compiuto in nome di un sentimento alto e nobile, quale quello dell’amicizia. Giovenale sottolinea che nessuno riesce più a nutrire un sentimento così autentico: per un amico nessuno sarebbe in grado di sacrificare neppure una gallina ammalata. Soltanto se a star male sono i ricchi tutti fan voti per loro. Giovenale dice che in questi casi ci sarà sempre qualcuno pronto a sacrificare un elefante; ma ci sarà anche un certo Pacuvio pronto a sacrificare la figlia, nuova Ifigenia. Solo così quest’ultimo potrà superare tutti i suoi rivali e riuscirà ad ereditare soltanto lui (Serm. XII, 128 e 130).

PROBO BONA FAMA MAXIMA EST HEREDITAS / BONA OPINIO HOMINUM TUTIOR PECUNIA EST

Dopo avere riflettuto su una societas romana dominata dalla disonestà e dalla malvagità, che annientano ogni sano valore, incoraggiante è la seguente sententia di Publilio Siro: Probo bona fama maxima est hereditas, cioè «per un uomo onesto vale come una grandissima eredità la buona reputazione» e anche: Bona opinio hominum tutior pecunia est, cioè «la buona fama degli uomini è più sicura degli averi».
Queste due ultime sententiae instaurano il confronto fra una cattiva ricchezza e una povertà onorata nella societas romana. Emergono opposti tra di loro da una parte gli improbi homines e dall’altra i probi, gli uomini che sono in grado di comprendere che il denaro è un bene materiale e che si abbandona nel momento stesso in cui si muore. In nome dell’hereditas non è ammissibile rinnegare il diritto alla vita, la veritas, l’amicitia, e tutti i valori etici fondamentali. I probi, agendo rettamente, sono in grado nel corso della loro vita di procurarsi una stima pubblica, una bona fama, una bona opinio, una reputazione positiva che in realtà vale più di qualsiasi eredità. L’hereditas al momento della morte viene acquisita dall’erede. Tutto si perde e nulla l’uomo porta con sé. La bona fama, invece, è in grado di superare ogni limite spaziale, di attraversare le città, le regioni, gli oceani e di mantenersi viva anche con il passare del tempo.

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