«L’elemento letterario del comico ha per me grande importanza», scrive Calvino in un testo del 1967 (CALVINO 1980, p. 157). Fu appassionato lettore dei comics del “Corriere dei piccoli” nell’infanzia: «io che non sapevo leggere – ricorda nelle Lezioni americane – potevo fare benissimo a meno delle parole, perché mi bastavano le figure. Vivevo con questo giornalino che mia madre aveva cominciato a comprare e a collezionare già prima della mia nascita» (CALVINO 1988, p. 93). Disegnatore umoristico per diletto negli anni del liceo, assiduo lettore dei principali fogli satirici degli anni Trenta, il giovane Calvino sembra formare il proprio gusto per il comico in buona misura su materiali di matrice popolare. Ma fu anche lettore di autori come Sterne, Lewis Carroll, Palazzeschi, Cervantes, Ariosto. Da questa combinazione di letture colte e popolari deriva il suo gusto per il funzionamento del meccanismo comico, nel quale si fondono apprezzamento per l’abilità tecnica e senso ludico.
Quel che cerco nella trasfigurazione comica […] è la via d’uscire dalla limitatezza e univocità di ogni rappresentazione e ogni giudizio. Una cosa si può dirla almeno in due modi: un modo per cui chi la dice vuol dire quella cosa; e un modo per cui si vuol dire sì quella cosa, ma nello stesso tempo ricordare che il mondo è molto più complicato e vasto e contraddittorio. (CALVINO 1980, p. 157)
Insomma, il suo è un comico che mira a svelare e dissolvere le menzogne, le rigidezze e le unilateralità nel comportamento sociale e nella vita psicologica. Non sono soltanto il sorriso e il riso i gesti tipici del comico, a loro si affianca la smorfia. Non a caso Calvino medesimo parla delle Cosmicomiche come di racconti che sono una specie di delirio dell’impossibilità di pensare il mondo se non attraverso figure umane, o più particolarmente smorfie umane (cfr. CALVINO 1980, p. 188). L’ironia e il grottesco sono i modi che hanno più rilievo nella sua scrittura e appaiono più consone ad una sensibilità che per il comico carnoso della risata non ha mai mostrato particolari simpatie. Nel grottesco, in particolare, (che possiamo definire come il comico del brutto e della deformazione) «la carica demistificante della rappresentazione s’approfondisce, mostrando gli squilibri della condizione dell’uomo e le stesse disarmonie e lacerazioni della sua forma esteriore» (FALCETTO 1994, pp. 46-47).
Forse si può definire il comico di Calvino come un comico ridotto, perché prende avvio da una doppia elisione: da un lato quella della corporeità e della carnosità, dall’altro quella dell’aggressività polemica della satira, preferendo piuttosto la dissacrazione ironica o la parodia. Scrive ancora Calvino:
La satira ha una componente di moralismo e una componente di canzonatura. Entrambe le componenti vorrei mi fossero estranee, anche perché non le amo negli altri. Chi fa il moralista si crede migliore degli altri e chi canzona si crede più furbo […]. In ogni caso, la satira esclude un atteggiamento d’interrogazione, di ricerca.» (CALVINO 1980, p. 157)
Calvino insiste sulla vicinanza di serio e divertente, e in varie occasioni allude alla presenza di un dramma al fondo di molta comicità. Infatti, il suo comico si rivela come una sorta di porta nascosta verso il tragico e il patetico, perché quello che gl’interessa non è tanto far ridere o sorridere, quanto favorire una migliore padronanza della tensione emotiva e intellettuale, insegnare a trattare il pensiero in maniera più critica. Ecco perché nella sua narrativa il comico non ha un ruolo protagonistico e di rado costituisce il centro focale della raffigurazione, pur essendo presente in modo diffuso. Il sorriso, il riso e la smorfia divengono strumenti conoscitivi rivolti alla critica di alcuni comportamenti intellettuali.
Del resto, la riflessione di Calvino sulla letteratura ha spesso insistito sulle sue peculiari capacità di educare la sensibilità e la percezione dei lettori.
Le cose che la letteratura può ricercare e insegnare sono poche ma insostituibili: il modo di guardare il prossimo e se stessi, di porre in relazione fatti personali e fatti generali, di attribuire valore a piccole cose o a grandi, di considerare i propri limiti e vizi, di trovare le proporzioni della vita, e il posto dell’amore in essa, e la sua forza e il suo ritmo; la letteratura può insegnare la durezza, la pietà, l’ironia, l’umorismo, e tante altre di queste cose necessarie e difficili. (CALVINO 1980, pp. 13-14)
Se è questo il senso profondo della letteratura, allora il testo ancor più che immagine o modello del mondo sarà innanzitutto un dispositivo per farcelo vedere, per aiutarci a comprenderlo meglio. Perciò la sua narrativa è stata definita una narrativa dell’orientamento etico-conoscitivo, realizzata non con i mezzi espliciti del realismo illustrativo, della narrazione didascalica o del romanzo-saggio, ma attraverso una via implicita e indiretta, come implicita e indiretta è la presenza del comico, già a partire dal romanzo d’esordio, Il sentiero dei nidi di ragno, un modo antieroico ed antiretorico, persino scanzonato, di parlare della guerra partigiana, vista con gli occhi irriverenti e baldanzosi di un ragazzino cresciuto nel mondo della malavita, che attraverso rituali fiabeschi e avventure della fantasia, tenta di entrare nel mondo degli adulti.
L’elemento comico, combinato con quello fiabesco e avventuroso, lo troviamo anche nella trilogia I nostri antenati, comprendenti tre romanzi: Il visconte dimezzato (1952), Il barone rampante (1957) e Il cavaliere inesistente (1959), dove al comico è assegnato un compito di abbassamento della materia narrata che anticipa di qualche anno le prescrizioni della Neoavanguardia. Un abbassamento che è spesso rovesciamento o deformazione della tradizione storica, «uno stile basso – come scrive Renato Barilli – che ovviamente non ha nulla di naturalistico […] ma risponde piuttosto all’intento di allargare il gesto linguistico, di forzarlo oltre le buone regole, di fargli toccare tutta la vasta gamma degli stati affettivi e degli eventi esistenziali, compresi quelli informi e mal definiti che sfuggono di solito a una traduzione in linguaggio verbale» (Cfr. BARILLI, BALESTRINI 1966, pp. 12-13).
Con Il visconte dimezzato siamo nel tardo ‘500, il visconte Medardo di Terralba va alla guerra contro i Turchi e una palla di cannone lo centra in pieno. Se ne salva solo una metà, che al ritorno a Terralba si rivela inaspettatamente malvagia: infatti incendia i fienili dei poveri contadini, promulga sentenze d’impiccagione contro innocenti, commissiona al falegname Mastro Pietrochiodo efferati marchingegni di tortura, spedisce la sua vecchia balia tra i lebbrosi, tartassa gli ugonotti rifugiati nei suoi territori. Nemmeno il narratore, che è un bambino, un nipote illegittimo di Medardo, la passa liscia: Medardo cerca di avvelenarlo e affogarlo.
Medardo ama ridurre ogni cosa a metà: i funghi nei prati, le pere che pendono dagli alberi, gli alberi stessi, persino un uccello che gli invia il padre, che ha una voliera piena di uccelli. Ad un certo punto, però, compare dal nulla un Medardo diverso, buono e servizievole, che passa il tempo a riparare i torti commessi dall’altro.
Anche l’altra metà del visconte s’era salvata, e dalla sua scissione avevano avuto origine due personaggi opposti e complementari, ciascuno rappresentante un aspetto parziale dell’umanità; solo quando riappare l’altra metà, si capisce che quella rimasta non era che la metà cattiva.
Per amore di una donna, Pamela, le due metà finiscono per battersi e concludono il combattimento riaprendo le ferite che era stato suturate, ne approfitta il dottor Trelawney (ex medico del leggendario capitano Cook, appassionato di cose strane ed esotiche, come le malattie dei grilli e i fuochi fatui (cfr. CALVINO 1960, p. 23), per ricucire insieme le due parti e riportarle all’unità.
Con questo romanzo Calvino vuole denunciare la condizione di alienazione, di estraneità a se stessi, e di conflitto, in cui vive l’uomo nella società capitalistica: sul posto di lavoro l’uomo è costretto a comportarsi come un automa, o ad indossare una maschera, come direbbe Pirandello, mentre nel tempo libero ritrova la propria personalità e la propria autenticità.
Lo stesso Calvino, scrivendo la quarta di copertina della prima edizione, presenta Il barone rampante (secondo volume della trilogia) con le seguenti parole:
È questa la storia del barone di Rondò che, ragazzo, s’arrampica sugli alberi e decide di non scendere più a terra, e d’albero in albero caccia, combatte, studia, amoreggia e viene infine rapito da una mongolfiera. L’azione fantastica ha per sfondo un tardo Settecento pieno di fermenti storici e culturali, e culmina con la Rivoluzione francese, le guerre napoleoniche e la Restaurazione.
Il romanzo, ambientato nel ‘700, narra le avventure di Cosimo Piovasco di Rondò, che, all’età di dodici anni, mentre è a pranzo con i genitori e alcune persone importanti, respinge con disprezzo un piatto di lumache che gli era stato servito. Il padre s’infuria, Cosimo per protesta scappa e si arrampica su un elce, dove resterà per tutta la vita. Egli, però, riesce a vivere in rapporto con la realtà storica, pur rimanendo in un ambito separato; infatti, sono narrati diversi avvenimenti storici che osserva spostandosi da un albero all’altro, così, ad esempio, segue le guerre tra francesi e austriaci. Con questo gesto Cosimo rifiuta le convenzioni della vita quotidiana, le regole e i costumi sociali, ma partecipa al desiderio di conoscenza che caratterizza l’epoca in cui vive, il ‘700, il secolo dell’Illuminismo, della nascita del diritto e delle prime scoperte scientifiche.
Di fronte ad una civiltà di cui non condivide molte cose, Cosimo decide di stare fuori della mischia ed osservare la realtà dall’alto e con distacco. Come se volesse dirci che solo sugli alberi, al di fuori della società, prendendone ironicamente le distanze, si può vivere in modo autentico.
Chiude la trilogia Il cavaliere inesistente, un ritratto parodistico e dissacratorio dell’epica dei paladini e dello stesso Carlo Magno, la cui struttura si fonda su precise fonti letterarie e culturali, che il contenuto però frantuma; lo stesso imperatore non ha nulla di regale, anzi, viene abbassato al rango di un vecchio smemorato:
Ogni tanto qualcuno chiama a testimone Carlomagno. Ma l’imperatore ha fatto tante guerre che confonde sempre l’una con l’altra e non ricorda bene neanche quella che sta combattendo ora […]. Perciò, quando lo interpellano, si stringe nelle spalle e se la cava con un: «Ma! Chissà! Tempo di guerra, più balle che terra!» e tira via. (CALVINO 1960, p. 310)
Il romanzo si svolge nel secolo IX e ne è protagonista un cavaliere, di nome Agilulfo, di cui esiste soltanto l’armatura, mentre il suo scudiero, Gurdulù, esiste senza saperlo. Ad un certo punto Carlomagno se ne lagna:
«O bella! Questo suddito qui che c’è ma non sa di esserci e quel mio paladino là che sa di esserci e invece non c’è. Fanno un bel paio, ve lo dico io!» Di stare in sella, Carlomagno era ormai stanco. Appoggiandosi ai suoi staffieri, ansando nella barba, bofonchiando: – Povera Francia! – (CALVINO 1960, p. 281)
La parodia tende a dimostrare che dietro le forme esteriori di un principio non c’è nulla: imitando le caratteristiche esteriori di un fenomeno, ne mette a nudo l’inconsistenza interiore, distrugge l’errore approvandolo, dunque se ne fa temporaneamente complice, per poi volgerlo al ridicolo. Come sostiene la Olbrechts-Tyteca, la parodia «tende spesso a dar l’impressione che una materia nuova sia colata in uno stampo antico» (OLBRECHTS-TYTECA 1977, p. 129). Agilulfo è il simbolo dell’uomo contemporaneo, che vive come un robot, che compie i gesti che gli vengono ordinati, senza che lui possa decidere nulla: non esiste più l’uomo, con la sua storia e la sua identità, col suo nome, ma esso viene riconosciuto soltanto attraverso la funzione, cioè per il lavoro che svolge. Ci sarebbe molto da dire anche sulla contrapposizione tra Agilulfo, uomo inesistente ma cosciente, e Gurdulù, che esiste senza averne consapevolezza; ovvero la contrapposizione tra animalità e spiritualità.
I tre romanzi hanno in comune il fatto di essere inverosimili, di svolgersi in epoche lontane e in paesi immaginari; i protagonisti sono tre personaggi alienati, emarginati dal resto della società a causa della loro particolare posizione e situazione esistenziale. Inoltre, il dissidio tra bene e male, tra negatività e positività, tra presenza e assenza, tra partecipazione e non-integrazione, fa sì che l’impegno letterario divenga impegno morale ed educativo, e dunque l’elemento comico, presente in forma implicita ed indiretta, funge da filtro e da lente deformante. Del resto, come scrive lo stesso Calvino a proposito di Gadda, «conoscere è inserire alcunché nel reale; è, quindi, deformare il reale» (CALVINO 1988, p. 105).
I tre romanzi non sono romanzi storici veri e propri, con precisi limiti cronologici e un chiaro ambito spaziale e temporale, nonostante ne abbiano talune caratteristiche, in quanto uomini e avvenimenti sembrano muoversi in un contesto più irreale e fantastico che in una realtà nettamente circoscrivibile. Lo schema narrativo e le sue sequenze obbediscono, piuttosto, ad un disegno chiaramente fiabesco, secondo lo schema di Propp: il superamento da parte dell’eroe dell’ostacolo, la battaglia contro di esso, la sua vittoria finale: il ricongiungimento delle due metà del Visconte dimezzato, la definitiva fuga e sparizione di Cosimo nel Barone rampante, l’estrema dissoluzione e la conclusiva scomparsa di Agilulfo nel Cavaliere inesistente.
Marcovaldo, ovvero Le stagioni in città comprende diciotto racconti scritti tra il ’52 e il ’56, pubblicati sui giornali e poi raccolti in volume nel 1963. I racconti hanno per protagonista il manovale Marcovaldo e la sua famiglia. Essi vivono in una città industriale del Nord (probabilmente Torino, dove in quegli anni viveva lo stesso Calvino), ma sono arrivati dalla campagna, e nella città, in mezzo al cemento e all’asfalto, cercano la natura e tutto ciò che è naturale. Ma esiste ancora la natura? Esiste ancora una civiltà a misura dell’uomo, o è stata spazzata via dal progresso industriale e dall’inquinamento? I protagonisti tentano di difendersi di fronte agli inganni della vita cittadina e ad una organizzazione sociale disumana che schiaccia i più deboli. Allora si aggrappano ad ogni più piccolo segno di spontanea vita naturale, tentando fughe ridicole e impossibili, nello sforzo di non restare schiacciati di fronte ai ritmi del lavoro in fabbrica e nel cuore di una città che pensa soltanto a correre e a fare soldi.
Loro vengono dalla campagna, perciò trovano naturale, ad esempio, andare a fare la legna per l’inverno, e dove vanno? Vanno lungo l’autostrada e segano l’unica legna che trovano, cioè i cartelloni della pubblicità. Oppure, ecco Marcovaldo stupirsi davanti ad ogni aspetto della moderna città industriale, osservata con l’occhio ingenuo dell’uomo di campagna: dietro questo stupore c’è la lente di ingrandimento sotto cui cadono le insensatezze della quotidianità. Come scrive Franco Zangrilli, «l’immaginazione umoristica di Marcovaldo viene mossa dallo spettacolo della città, dalla sua capacità di osservare, di analizzare la realtà che egli si configura pirandellianamente su due piani diversi, quello dell’essere e quello delle apparenze. Davanti al reale egli vede quello che vedono gli altri e quello che […] gli altri non vedono» (ZANGRILLI 1984, p. 123).
Come in Pirandello, anche in Calvino il personaggio si arrovella nel monologo interiore, analizzando la propria e l’altrui coscienza, e Marcovaldo fa di ogni cosa oggetto di ragionamento, descritto attraverso il procedimento dello straniamento, che consiste nel raffigurare un aspetto consueto della realtà come se venisse visto per la prima volta: solo così il lettore ha una percezione diversa di qualcosa che altrimenti guarderebbe con automatismo.
Se l’elemento fondamentale dell’umorismo è il contrasto, l’umorismo di Marcovaldo nasce in un mondo in cui le presenze alienanti della città e della civiltà industriale si scontrano con un individuo che, invece, come accade nel romanzo di Pirandello Uno, nessuno e centomila, anela segretamente ad una perfetta integrazione nella natura. Così, nel racconto Villeggiatura in panchina il contrasto vive nell’avventura notturna di Marcovaldo che abbandona la casa per trovare pace nella natura di un giardino pubblico, e invece non trova requie. L’arte umoristica, c’insegna Pirandello, ci porta al cuore del tragico, illumina il dramma che ha reso il soggetto ridicolo, trasformandolo in oggetto di riso. Le azioni di Marcovaldo sono pregne di un umorismo in cui si fondono il comico e il tragico, e il tragico deriva dal fallimento di ogni tentativo di modificare la realtà, come nel racconto Marcovaldo al supermarket, dove il protagonista, la moglie e i figli si trovano dentro un grande supermercato, mentre una folla di clienti prendono prodotti dagli scaffali e riempiono i carrelli; a vedere questa scena, non resistono ed allora ognuno di loro prende un carrello e lo riempie di prodotti, come fossero ipnotizzati dalla voglia di consumare. Quando l’altoparlante annuncia che il supermercato sta per chiudere, l’effetto è quello di svegliarli da un sogno: devono rimettere al loro posto i prodotti, perché non hanno i soldi per pagare tutto quello che c’è dentro i loro carrelli.
Marcovaldo, in fondo, altro non fa che vagare, mosso dalla continua ricerca degli oggetti del suo desiderio, tuttavia senza mai raggiungerli, perché tali oggetti si rivelano sempre costruzioni illusorie. Proprio come accade ai cavalieri dell’Orlando Furioso di Ariosto, una delle opere più amate da Calvino, sia per la presenza dell’elemento magico-avventuroso che per quello comico. La città industriale del Nord, nell’Italia del boom economico, si presenta come il palazzo incantato di Atlante e suscita inganni.
Le cosmicomiche (1965) sono dodici racconti in cui Calvino dimostra tutta la sua cultura scientifica, l’interesse per l’astronomia e la cibernetica. Sono racconti di fantascienza che però non narrano di mondi futuri, ma al contrario cercano di rappresentare un passato lontanissimo, fino ad arrivare all’origine dell’universo, interrogandosi sull’evoluzione e il destino dell’universo.
Nel 1967 ne pubblica altri che raccoglie in un volume dal titolo Ti con zero, che richiama una formula matematica. E infine, nel 1984 tutti questi racconti cosmicomici, più degli inediti comparsi su quotidiani, vengono raccolti in un unico volume intitolato Cosmicomiche vecchie e nuove.
Il comico di questi racconti nasce dal fatto che esseri e luoghi immaginari sono descritti con il linguaggio e con gli esempi presi dalla nostra realtà. Ed ecco che in un paesaggio cosmico compaiono oggetti moderni e riferimenti alla nostra civiltà, mentre questi esseri immaginari hanno strani rapporti con parenti o vicini di casa, come fossimo in una città di oggi. «Se la fantascienza tende ad avvicinare ciò che è lontano, tende cioè a dargli una dimensione realistica […], le cosmicomiche invece allontanano ciò che ci è più vicino» (CAZZATO 1999, p. 139), de-realizzando le cose più quotidiane della nostra esistenza.
Il protagonista, che ha un nome impronunciabile, Qfwfq, è una sigla palindroma; egli vaga nello spazio e nel tempo, è il primo uomo che ha visto il formarsi della Terra, ha visto nascere la Luna, si ricorda della scomparsa dei dinosauri. Ma nel mezzo di questi spazi sconfinati e in questi tempi lontanissimi, compaiono oggetti inutili della nostra epoca, rottami e immondizie, in una immagine apocalittica della nostra società.
Ogni racconto parte da un enunciato scientifico, riguardante la cosmogonia, la biologia, la fisica, enunciato vero, oppure in contraddizione con un altro, o forse completamente inventato, che Qfwfq dichiara di aver visto verificarsi realmente, al punto da poterne dare testimonianza; Qfwfq ne ha viste tante, e dall’alto della sua sapienza cosmica non ha paura di spararle grosse. Il comico deriva dalla sovrapposizione di teorie contrastanti fra di loro, sempre confermate da Qfwfq, il quale è subito pronto a precisare, approfondire, rendere testimonianza. Ma anche attraverso l’ibridazione di linguaggio scientifico e linguaggio quotidiano, mescolando stile alto e stile basso, per cui la galassia diventa una frittata che si volta nella sua padella infuocata.
Nel racconto La molle Luna viene denunciata la cementificazione e plastificazione della Terra, oramai stravolta dal progresso industriale e dall’inquinamento, attraverso un meccanismo ironico, cioè capovolgendo il rapporto cultura/natura: la Terra, infatti, ricoperta delle nostre buone cose di plastica, di nylon, di acciaio cromato, è un prodotto completamente artificiale; la Luna, invece, è la natura che precipita come una molle valanga sulla Terra, ricoprendola di cose vive e facendole perdere il suo volto originario:
Dopo centinaia di migliaia di secoli cerchiamo di ridare alla Terra il suo aspetto naturale d’una volta, ricostruiamo la primitiva crosta terrestre di plastica e cemento e lamiera e vetro e smalto e pegamoide. Ma quanto siamo lontani. (CALVINO 1984, p. 89)
E a ironia si aggiunge ironia, capovolgendo il volo sulla Luna immaginato da Ariosto, per andare a recuperare il senno perduto; qui, invece, si vuole andare sulla Luna per recuperare i materiali artificiali perduti.
In un altro racconto, La distanza della Luna, si immagina che un tempo la distanza tra la Terra e la Luna era tale per cui ci si poteva arrivare con una scala e raccogliere il latte, un latte molto denso, simile a ricotta.
Infine, nel racconto intitolato Tutto in un punto si racconta di quando ancora non esisteva lo spazio e tutto stava nel medesimo punto; e come nasce lo spazio? grazie al desiderio della signora Ph(i)Nko di fare le tagliatelle: «Ragazzi, avessi un po’ di spazio, come mi piacerebbe farvi le tagliatelle!» (CALVINO 1984, p. 160).
Per affrontare le cose troppo grandi ed eccelse, sembra voler dire Calvino, abbiamo bisogno di un filtro, ed è questa la funzione del comico.
Palomar (1983) contiene diciotto racconti, divisi in tre gruppi: La vacanza di Palomar, Palomar in città, I silenzi di Palomar. Il signor Palomar, protagonista di questi racconti, non fa altro che osservare e descrivere, interrogando gli oggetti e le situazioni che capitano davanti al suo sguardo, nel tentativo di capire la realtà e darne una spiegazione. Non a caso Palomar è il nome di un celebre osservatorio astronomico in California.
Di fronte alla complessità del mondo, egli non si accontenta delle risposte della ragione, né delle apparenze degli oggetti e delle persone, vuole penetrare dentro gli oggetti, per vedere come sono fatti, e dentro i comportamenti delle persone, per cercare di capirli. Ed eccolo interrogarsi su come è fatta veramente un’onda, nel tentativo di isolarla dalle altre e di studiarla prima che si rompa; oppure eccolo cercare il comportamento giusto da tenere, mentre sulla spiaggia una donna prende il sole a seno nudo. Il tutto con un linguaggio che cerca di descrivere e definire attraverso parole di una precisione assoluta.
Il rischio, naturalmente, è la paralisi, cioè che tale comportamento blocchi il personaggio davanti ad ogni cosa di cui vuole scoprire la natura vera, e, paradossalmente, il punto di arrivo di questa conoscenza è il distacco da se stesso, l’imparare ad essere morto; ed infatti il libro si conclude con Palomar che, cercando di pensare alla propria morte, in quel momento muore.
Il signor Palomar può essere considerato una sorta di fratello maggiore di Marcovaldo e si riconosce dai suoi gesti un po’ legnosi, da marionetta, dal modo in cui la sua persona tutta spigolosa urta continuamente negli spigoli del mondo. Egli cerca continuamente, senza riuscirvi, di ricavare dall’osservazione delle cose un principio, una legge di qualche validità generale, e questi fallimenti conferiscono alle sue avventure un effetto comico. Vorrebbe trovare la chiave per capire la realtà, rintracciare un ordine che gli permetta di padroneggiare la complessità del mondo, senza fare ricorso a schemi precostituiti di tipo ideologico o scientifico; qualsiasi osservazione, d’altra parte, è condizionata dagli strumenti di percezione e dal sistema culturale di cui ogni individuo dispone.
Ma una sottile vena di umorismo attraversa tutta la raccolta, soprattutto negli approcci quotidiani alla realtà che spiazzano il personaggio, come accade, ad esempio, nel racconto Il seno nudo, dove il tentativo di trovare il giusto punto di vista per osservare una bagnante che prende il sole a seno nudo, un punto di vista che non sembri moralistico ma neanche offensivo, capace di apprezzare la bellezza del corpo femminile senza risultare molesto, che «garantisca del suo civile rispetto per la frontiera invisibile che circonda le persone» (CALVINO 1983, p. 11), si conclude con l’inevitabile fallimento. Infatti, Palomar prova a fare in modo che il seno venga assorbito completamente dal paesaggio, ma subito teme che in questo modo trasformi il corpo femminile in oggetto, comportandosi da vero maschilista. In questo continuo andirivieni sulla spiaggia, anche la sua riflessione fa avanti e indietro da un proposito all’altro, da una possibilità all’altra, finché la ricerca di uno sguardo che sia distaccato ma al tempo stesso amorevole, finisce per irritare la bagnante, che, scocciata, si alza di scatto, si ricopre e va via.
Il libro può essere letto come un apologo allegorico sulla resistenza della ragione all’insignificanza, sui modi di fronteggiare la complessità e la relatività del presente; anche se l’impegno a superare visioni del mondo preconfezionate e rassicuranti, «finisce per dare alle sfide interpretative di Palomar un vago sapore epico-cavalleresco, plasmando in lui, tenacemente alla ricerca di avventure e prove conoscitive da superare, la triste figura di un Don Chisciotte del pensiero, coraggiosamente pronto a rialzarsi e a ricominciare dopo ogni rovescio» (LAGORIO 1984, p. 77).
(1947) Il sentiero dei nidi di ragno, Einaudi (Garzanti, 1987; Mondadori, 1995).
(1960) I nostri antenati: Il visconte dimezzato. Il barone rampante. Il cavaliere inesistente, Einaudi (Il visconte dimezzato, Einaudi, 1952; Garzanti, 1985; Mondadori, 1995; Il barone rampante, Einaudi, 1957; Garzanti 1983; Mondadori, 1995; Il cavaliere inesistente, Einaudi, 1959; Garzanti, 1985; Mondadori, 2000)
(1963) Marcovaldo, Einaudi (Einaudi, 1973; Mondadori 1995)
(1965) Le cosmicomiche, Einaudi (Mondadori, 2000)
(1967) Ti con zero, Einaudi (Mondadori, 1995)
(1980) Una pietra sopra. Discorsi di letteratura e società, Einaudi (Mondadori 1995)
(1983) Palomar, Einaudi (Mondadori, 1994)
(1984) Cosmicomiche vecchie e nuove, Garzanti (Mondadori, 2000)
(1988) Lezioni americane. Sei proposte per il prossimo millennio, Garzanti (Mondadori, 2000)
ALMANSI G. (1986), Il fattore Gnac, in La ragion comica, Feltrinelli
BARILLI R., BALESTRINI N. (a cura di) (1966), Gruppo 63. Il romanzo sperimentale, Feltrinelli
CAZZATO L. (1999), Italo Calvino: la via cosmicomica alla letteratura, in “Allegoria”, n. 31, anno XI, gennaio-aprile
FALCETTO B. (1994), Sorriso, riso e smorfia. Il comico nello stile di Calvino, in (a cura di) L. Clerici e B. Falcetto, Calvino & il comico, Marcos y Marcos
LAGORIO P. (1984), I silenzi narrativi di Palomar, in “Autografo”, n. 2, giugno
MILANINI C. (1990), L’umorismo cosmicomico, in L’utopia discontinua. Saggio su Italo Calvino, Garzanti
OLBRECHTS-TYTECA L. (1977), Il comico del discorso. Un contributo alla teoria generale del riso, trad. it. di A. Serra, Feltrinelli
ZANGRILLI F. (1984), Aspetti umoristici del Marcovaldo di Calvino, in “Quaderni d’italianistica”, vol. V, n. 1