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il sublime rovesciato: comico umorismo e affini

Copertina Numero 05

 settembre 2012

Saggi e rassegne

Emanuela Scicchitano

Le «mille burle e saggezze» di Andrea Zanzotto: note in margine alla lirica “Riletture di topinambùr”

«Mille burle e saggezze in cui / svanisce ogni furto e trucco» (ZANZOTTO 1999, p. 889): è così che potrebbe essere definita la poesia di Andrea Zanzotto: un tentativo di demistificazione, in cui l’ironia si propone come quell’irrinunciabile strumento d’indagine del reale che permette attraverso le burle di conquistare le saggezze ad esse correlate. E mi soffermerei subito sulla pluralità con cui Zanzotto declina la sua ricerca gnoseologica che punta alla conquista delle saggezze e non della saggezza, intesa come valore assoluto ed estendibile uniformemente a tutte le coscienze, a tutti gli uomini.

Tutte le verità degli uomini si consustanziano nella poesia di Zanzotto in elementi naturali infinitamente riproducibili: possono essere i papaveri che si fanno rossi e fanno rossi le distese mediterranee o possono essere i topinambùr di recente importazione per i campi veneti, che si stanno spogliando delle loro ataviche tradizioni rurali per adottarne di nuove, a dimostrazione che le verità non sono durevoli in eterno ma sono sensibili anch’esse, come le coltivazioni, alle variazioni del tempo e dei tempi. E così nella lirica Riletture di topinambùr, appartenente alla sua più recente produzione, appellandosi a queste piante dal nome esotico il poeta scrive:

spargete tutt’intorno
semi incerti a manciate,
fogliole o petali, cose vostre
trapassate subito riacciuffate

i topinambùr feriti
da una vampata solare
per oscillazioni del ciclo di Bethe (?¿)
hanno smarrito foltezza fortezza quiete

(ZANZOTTO 1999, vv. 5-12, p. 889)

In questi versi i topinambùr sembrano spogliarsi non solo delle foglie che li ammantano ma anche della solidità che essi superficialmente ispirano: i loro semi sono incerti, le loro corolle ferite dal sole e dallo smarrimento della foltezza, della fortezza e della quiete: tre attributi fisici che posti in tricolon e in asindeto sembrano rievocare i doni dello Spirito Santo che ogni credente dovrebbe possedere. Ma l’eco cristiana nella poesia zanzottiana sembra perdere ogni sacralità: è l’ironica constatazione che nemmeno fra le piante quei doni possono trovare ricetto. Crederlo è una burla del pensiero e infatti nella strofa successiva aggiunge:

quale mai senso ebbe il donativo
se nessuna eco l’accolse
e se solo il dubbio dovunque s’appose?

(ZANZOTTO 1999, vv. 13-15, p. 889)

Se ogni gesto di altruismo richiede una eco di risposta che ne sancisca l’accoglienza, è tuttavia possibile che fra il dare e il ricevere si insinui il dubbio, che impedisce ogni possibilità di giungere a una certezza di fede e di conoscenza che sia visibile e imperitura. E dopo il dubbio:

Esitare, abdicare di laringi, gole
mancano all’appuntamento
oggi i topinambùr, pur se il loro concento
rilancerà domani istorie e fole.

(ZANZOTTO 1999,vv. 16-19, p. 890)

L’esitazione dei topinambùr si traduce in parziale assenza: di idee assolute e della possibilità di spiegarle attraverso la parola come l’abdicazione delle gole indica. L’afonia parziale o totale, di cui i topinambùr sono vittime, fa sì che essi acquistino nel testo un ulteriore significato simbolico: essi sono come i poeti odierni, vacanti del loro ruolo di guide, di intellettuali integrati al sistema culturale e capaci di orientarlo con la forza delle loro visioni e delle loro utopie. Il poeta, da intellettuale depauperato della sua funzione sacrale, non può allora che affidarsi alle «istorie», e alle «fole» retaggio di un mondo letterario ormai desueto che richiama alla memoria i racconti meravigliosi e ironici di Ariosto, in cui magia e storia si intrecciano nel testo generando stupore e piacere sia nel lettore che nello scrittore.

Di questo universo affabulatorio Zanzotto ha subito, sin da giovanissimo, l’incanto: nelle sue prose ha più volte rievocato la tradizione rurale di imparare i canti epici di Ariosto e Tasso per poi recitarli oralmente durante i filò, le veglie notturne trascorse dai contadini e dai pastori davanti a un fuoco scoppiettante. A questi racconti notturni Zanzotto ha anche dedicato un poema omonimo (1976) in dialetto veneto, che vuole essere allo stesso tempo un tentativo di mimesi e la constatazione della sua impossibilità. Ogni rievocazione contiene, dunque, in sé il pensiero che la origina e la burla che la porta a compimento, la certezza che la costruisce e il dubbio che la puntella. È un percorso caratterizzato da «incerti afflati», da «fallibili itinerari» che tuttavia il poeta vuole percorrere:

con voi partirò, topinambùr
per meditazioni invisibili, acri
su autunnali tranelli o avalli
su adýnata su mai

(ZANZOTTO 1999,vv. 40-44, p. 891)

E il viaggio verso l’adýnaton è per lo scrittore di Pieve di Soligo il viaggio della poesia che costruisce mondi impossibili attraverso la rappresentazione di mondi reali e che, al contrario, attraverso la raffigurazione dell’esistente indica ciò che ancora deve esistere in un dialogo perenne fra il vuoto e il pieno, fra il drammatico e il comico, fra il giallo dei topinambùr e i bui del cielo, fra:

mille burle e saggezze in cui
svanisce ogni furto o trucco
desofisticarsi di ogni giallo
di lunazioni, in altri bui.

(ZANZOTTO 1999,vv. 1-5, p. 889)

Sulla scia di queste apparentemente inconciliabili opposizioni si inoltra e si approfondisce di ulteriori sfumature intellettuali il gioco zanzottiano dell’ironia, che sin dalle origini della sua produzione si conferma come figura dell’antitesi, come accostamento ossimorico di elementi fra di loro opposti, come una raffinata sequenza di velamento e disvelamento della verità storica, a cui il poeta non rinuncia ad accostarsi né nella sua giovinezza né nella sua maturità poetica.

Una riprova di questa corrente ironica la offre la lirica Miracolo a Milano, inserita nella silloge IX Ecloghe (1962) e strutturata in chiave parodistica, come già si intuisce dal titolo che richiama alla memoria collettiva il celebre film (1951) di Vittorio De Sica, in cui i netturbini della città lombarda, riunitisi a Piazza Duomo, inforcano le loro scope per volare sopra il cielo della città come segno di liberazione dalla loro povertà e come utopistica conquista di un mondo migliore, in cui il progresso possa coinvolgere tutte le classi sociali e in cui il significato delle parole corrisponda alla loro “lettera”.

La favola neorealistica di De Sica diventa nel testo zanzottiano l’impossibile favola esistenziale del poeta che vede balenare di fronte a sé il sogno di una riconciliazione fra l’io e la storia, su modello di quella realizzata nell’Ottocento dal Romanticismo lombardo, sostenitore delle battaglie risorgimentali. Questo paradigma è richiamato nel testo dall’allusione metrica al primo coro del terzo atto dell’Adelchi, costruito secondo il ritmo incalzante dei doppi senari con cui si vuole riprodurre la rapidità della battaglia fra Longobardi e Franchi, a cui assiste anche il volgo. E partendo così «dagli atri muscosi – dai fori cadenti» manzoniani Zanzotto approda al doppio settenario di Miracolo a Milano in cui:

Dai campi dalle pietre – dalle stagioni labili
Eroso il volto e il corpo – in macchie miserabili,
semimuta natura -natura in masse spenta,
funzione che divampa – e scade sonnolenta;
io, infine: subumano? – io forse trascendente?
Io che abbandona al margine – la storiale corrente?
Piano: tre volte all’anno – milanese divengo,
dunque storico, umano – funzionale divengo.

(ZANZOTTO 1999, p. 215)

Oggetto della derisione del poeta non è tuttavia il paradigma letterario ma la vita cittadina, che il poeta sente estranea a sé, e la presunzione di chi, al contrario, fa coincidere l’urbs con il centro dell’evoluzione storica. Il recarsi tre volte all’anno a Milano permetterà al poeta di immergersi nel flusso della storia e di rendere la propria esistenza funzionale allo svolgersi delle «magnifiche sorti e progressive dell’umanità», già bersaglio ne La ginestra dello scetticismo leopardiano. Essere milanese equivale all’essere storico, umano e funzionale; ma per giungere a esserlo gli occorrerà o un intervento trascendente o un carnevalesco capovolgimento del mondo, come quello che nella pellicola di De Sica fa volare i poveri che “disturbano” verso una realtà altra.

L’adýnaton espresso dal titolo sottolinea l’inappartenenza dell’io alla storia e allontana la prospettiva, teorizzata da Calvino e condivisa dalla Neoavanguardia, di una sua resa al mare dell’oggettività. Lo stato di accusa, sotto cui viene messo l’io letterario, rafforza, al contrario, la consapevolezza della sua autonomia rispetto al mondo esterno che cerca di prevaricarlo con quella carica di negatività incastonata al verso terzo dall’anadiplosi del termine «natura» che, schiacciata fra il silenzio e le «masse spente», lascia intravedere al lettore contemporaneo quello stesso margine di felicità che la natura matrigna lasciava a Leopardi.

Ma se in Leopardi la natura è ontologicamente malevola verso l’uomo, in Zanzotto lo è solo fenomenicamente e conseguenzialmente all’intervento umano contro di essa, come dimostra il frequente richiamo dell’autore all’episodio della «vigna di Renzo», inserito nel XXXIII capitolo de I promessi sposi, come simbolo del caos del reale e della reazione imprevedibile e incontrollabile della natura all’imperversare della Storia e alla noncuranza dell’uomo. La memorabile pagina manzoniana ha fermentato a lungo nella memoria letteraria dello scrittore veneto, lasciando numerose tracce di sé, fino a divenire chiara fonte di ispirazione di Meteo, la raccolta edita nel 1996 in cui la violenza della quotidianità è raccontata attraverso il disordinato proliferare nel paesaggio di piante parassitarie come le vitalbe, che distruggono il frutto del secolare lavoro dei contadini sull’ambiente. Eppure le «superflue / superfluenti vitalbe», osservate in Live il proemio di Meteo (ZANZOTTO 1999, p. 817), i papaveri e anche i topinambùr, di cui abbiamo letto nel testo iniziale, sono nell’immaginario poetico zanzottiano l’ultimo segno della disperata resistenza della natura agli attacchi dell’uomo, come la «marmaglia di piante» e di «erbacce» di cui l’orto di Renzo:

era popolato, coperto, come la vigna. [Renzo] Mise piede sulla soglia d’una delle due stanze che c’era a terreno: al rumore de’ suoi passi, al suo affacciarsi, uno scompiglìo, uno scappare incrocicchiato di topacci, un cacciarsi dentro il sudiciume che copriva tutto il pavimento: era ancora il letto de’ lanzichenecchi.

(MANZONI 1987, p. 685)

La scoperta del degrado che ha colpito il suo mondo, sia nello spazio esterno e lavorativo dell’orto che in quello interno e familiare della casa, sconvolge emotivamente Renzo ma gli permette anche di fare i conti con il passato di morte e desolazione a cui è sopravvissuto e di aprirsi a una nuova prospettiva di vita e fede assieme a Lucia. Zanzotto prende, dunque, coscienza che l’unico modo per stabilire un approccio vitale con il paesaggio e di comporre una poesia autentica, è quello di immergersi nel letamaio della realtà, in quel simbolico «sudiciume» che la Storia, simboleggiata dai lanzichenecchi, lascia dietro di sé.

I residui di verità, con cui il poeta costruisce la sua poesia, andranno cercati in un:

magnum Jovis excrementum in cui lo Juppiter iniziale tende a zero: mentre per una reversibilità tra macrocosmo e microcosmo avviene l’identificazione della scoria formatasi nel processo della esistenza universale con la figura di quella che si concreta nei luridi chimismi, nelle putride combustioni della vita animale-umana; in precedenza rimossi e tenuti a fondo nella mineralità. (ZANZOTTO 1966, p. 158)

In questo letamaio la civiltà occidentale ha dissolto le speranze di progresso, che Virgilio nella quarta ecloga esaltava: «Adgredere, o, magnos (aderit iam tempus) honores, / cara Deum suboles, magnum Jovis incrementum!» («sarà ormai tempo di raggiungere i sommi onori, / o cara prole degli Dei, o glorioso rampollo di Giove! »; Ecloga IV, vv. 48-49).

La profezia virgiliana di un accrescimento della stirpe di Giove è ribaltata comicamente nella constatazione di un aumento indiscriminato dei rifiuti, sintomo di un falso progresso che si consuma da sé e in cui tuttavia il poeta sceglie di tuffarsi, lasciando che i segnali perturbanti della realtà psichica e di quella esterna penetrino nel tessuto poetico, contaminandolo. In Meteo sono le contraddizioni del mondo esterno e della Storia ad assediare, come delle piante parassitarie, il poeta e indurlo a uno strenuo atteggiamento di difesa e resistenza, ancora una volta richiamato dai topinambùr. Zanzotto sembra qui imboccare la strada montaliana per una estrema poesia civile che, spogliatasi dei toni alti attribuiti dalla tradizione, opta per uno stile e per una lingua aderenti alla realtà rifiutata. Il lettore è perciò chiamato, come un alunno di fronte al maestro, al coinvolgimento totale con ogni singolo testo, pronto a lasciarsi ustionare dai caldi segni del mondo, che la poesia veicola optando per la strada dell’iperconnotazione letteraria.

Gli stralci del reale sono, infatti, avidamente mescolati con gli stralci della letteratura alta e aulica che il poeta ha frequentato. Lo scopo non è quello di abbassare il grado di ricezione della letteratura o di attivare un meccanismo denigratorio verso di essa, bensì quello di denunciare l’incoerenza del mondo attraverso la sovraesposizione della parola poetica, che si riconferma come strumento civile di denuncia. Guidato dalla stella polare della tradizione, il poeta attraversa la sua contemporaneità, sfidandola e cercando di recuperare alla poesia gli spazi fisici e simbolici che la Storia le sta sottraendo.

La rivisitazione di celebri topoi letterari quali l’invocazione della luna, ispirata dagli idilli leopardiani e rivisitata in IX Ecloghe, o l’attraversamento del bosco, momento archetipico delle fiabe occidentali e riproposto ne Il galateo in bosco (1978), è compiuta con l’ausilio degli auctores da cui trae nutrimento ed è finalizzata alla salvaguardia poetica dei luoghi invasi dalla presenza dell’uomo: come la luna che, da affascinante interlocutrice dell’uomo, diviene negli anni Sessanta satellite da esplorare; come il bosco che, da sfondo delle avventure di smarrimento e formazione dell’uomo, diviene area di scarico rifiuti.

L’irreversibile compromissione di quel patrimonio naturale di bellezza e armonia, che per secoli aveva ispirato l’arte, trova ne Il galateo in bosco una sua concreta incarnazione nella distruzione della selva del Montello, in cui Giovanni Della Casa visse e scrisse il suo Galateo. Il disboscamento del Montello ha ridotto quel lembo di terra veneta a una pattumiera, in cui giacciono le spoglie dei soldati morti durante la Prima guerra mondiale, i resti dei picnic consumati da turisti irrispettosi, le colate di cemento servite alla costruzione di case di villeggiatura:

Per me, […] si è verificata una piena presa di coscienza riguardante il Montello, anch’esso vero eden in altri tempi, quando i felici otia umanistici nel rinascimento vi avevano trovato sede, eden che è poi diventato luogo di macello spaventoso durante quella stessa guerra.

(ZANZOTTO 1994, p.181)

Anche in questa raccolta, come in Meteo, lo scontro con l’umiliazione del paesaggio avviene in modo diretto e radicale e lascia al poeta esigui margini per operare una ricostruzione poetica dei luoghi avviliti da uno sviluppo economico disordinato e incontrollato nei suoi effetti. La difficoltà di reperire alla poesia spazi ancora sani conferma al poeta la necessità della protesta contro i liquami, che avvelenano la natura, e i soprusi, che macchiano quella convivenza civile che invece la letteratura ha contribuito a fondare. Da qui deriva il richiamo alle humanae litterae, al codice petrarchesco e al Galateo di Giovanni dalla Casa, da cui Zanzotto attinge attraverso la forma della parodia, che qui coinvolge un ampio spettro letterario. Lo dimostra l’inserzione di citazioni tratte da due dimenticati poeti veneti, Nicolò Zotti, che scrisse sotto lo pseudonimo di Cecco Ceccogiato «un’Oda Rusticale, di meraviglioso sapore e freschezza -che- ha tutto della selva com’era nel 1683, quando i versi furono scritti» (ZANZOTTO 1999, p. 644), e Carlo Moretti (1882- 1960), dalla cui produzione, di ispirazione dannunziana, Zanzotto sceglie alcuni versi tratti dalla Canzone montelliana, presente nell’opera Lauri e Rose del Piave (1926). Alcuni titoli, poi, o frasi presenti nella raccolta, sono estrapolati dal Bollettino della Vittoria, pubblicato all’indomani della fine della Prima Guerra Mondiale e assunto dal poeta a emblema della falsità della retorica politica ufficiale. Con queste testimonianze egli ricostruisce la storia del luogo e apre uno squarcio su quel vasto strato sotterraneo della letteratura che ha sempre vissuto all’ombra di quello ufficiale, traendone, attraverso l’imitazione, il suo principale nutrimento. Ecco perché, appropriandoci della terminologia applicata da Agosti per Dietro il paesaggio e La Beltà, possiamo affermare che Il Galateo in Bosco segna il punto più profondo raggiunto dal manierismo zanzottiano, laddove le IX Ecloghe segnano, invece, quello più alto.

Nella rinnovata Arcadia delle Ecloghe il poeta si aggira come un moderno pastore che rinnova, con il canto, la sua fiducia nella poesia, sentita come estremo atto di difesa contro la Storia, e nella tradizione e che punta a ricostruire, con l’aiuto della memoria poetica condivisa anche dal lettore, il paesaggio lacerato dalla Storia. Nel bosco montelliano del Galateo, già dilaniato dalla Storia, il poeta si muove invece come un invisibile «virus a navetta» (ZANZOTTO 1999, p. 584) che, infiltrandosi tra le altre compagnie di virus, dà vita ad imprevedibili e paradossali associazioni genetiche e mira a dare nuovo spessore a quella stessa memoria poetica, risucchiata dal vortice della contemporaneità.

Il lettore, che nella raccolta del 1962 era chiamato a collaborare attivamente alla costituzione del testo poetico riconoscendo i dotti segnali, di cui il poeta lo aveva cosparso, diventa in quella del 1978 destinatario dell’operazione pedagogica, che il poeta si prefigge: far riaffiorare dal sottosuolo della sua identità culturale residui sparsi e dimenticati del suo passato. La consapevolezza, che il lettore non riuscirebbe a individuarli se li inserisse nel corpo del testo, induce il poeta a contrassegnarli in modo forte. L’ode di Cecco Ceccogiato è riprodotta nei suoi caratteri tipografici originali e posta in apertura e chiusura della raccolta, come una sfragís, segno di riconoscimento che Zanzotto vuole lasciare al lettore. Anche la ripresa del sonetto, genere letterario nobile ma desueto, non è sporadica, come in IX Ecloghe, ma “eccessiva” e relegata nella sezione Ipersonetto in uno spazio isolato e riconoscibile. Nel Galateo, dunque, Zanzotto scardina i meccanismi dell’arte allusiva, che aveva messo a punto nella sua precedente silloge, perché mostra con l’iperconnotazione delle fonti, a cui attinge, di non avere più fiducia nella capacità di agnizione del lettore, su cui aveva in precedenza contato.

Nelle Ecloghe il poeta veneto ricorre a un tipo di «allusione integrativa» (CONTE 1974, p. 43), in cui la sua voce e quella del modello evocato si compenetrano per proporre una comune base di valori, che spetterà al lettore riconoscere come propria. Poeta, auctor e lettore si incontrano dentro i rassicuranti confini della loro “matria” culturale per difendersi dall’invasività della Storia e porre le basi di una letteratura che non sia di consumo, come quella avanguardistica, ma di riuso.

Ne Il Galateo in Bosco, al contrario, è prevalente una forma di «allusione riflessiva» (CONTE 1974, p. 43), in cui le due voci si scontrano e mantengono una posizione di indipendenza non solo l’uno dall’altro, ma anche dal lettore, confuso per la sovrapposizione di esperienze letterarie diverse e l’esibizione della natura artificiale dell’operazione poetica. Ai fruitori della sua poesia Zanzotto va incontro corredando la raccolta di note esplicative, che possano indirizzarli nella difficile interpretazione dei suoi testi. Il poeta veste, così, i panni del poeta- filologo, che in IX Ecloghe si era rifiutato di indossare per non essere omologato ai Novissimi. Decide di rispolverarli in tempi non sospetti, quando ha ormai acquisito un ruolo di primo piano nella cultura italiana e non corre il rischio di pericolose assimilazioni. Spalanca, quindi, senza timore, al lettore le porte di un universo di erudizione, di cui solo lui possiede le chiavi. L’alessandrinismo, che caratterizza Il Galateo in Bosco, raggiungerà, poi, in Fosfeni (1983) un punto di non ritorno, da cui Zanzotto sarà costretto a ripartire per riallacciare con il pubblico i fili di una nuova e più chiara comunicazione.

Al di là della diversità degli esiti raggiunti, sia IX Ecloghe che Il Galateo in Bosco scaturiscono da un’identica concezione della letteratura come «corrente di citazioni e ricitazioni» (ZANZOTTO 1999, p. 1219), che Zanzotto matura ed elabora parallelamente agli studi sulla intertestualità, compiuti dal gruppo intorno alla rivista «Tel Quel» negli anni Sessanta. Zanzotto spoglia tale nozione delle sue implicazioni ideologiche per inserirla in un vasto e complesso progetto poetico, che punti alla salvaguardia della memoria poetica, che sta alla base di ogni prodotto letterario e del rapporto con il lettore.

L’iperletterarietà non è tuttavia in Zanzotto autoreferenziale bensì rivolta verso la comprensione e il racconto del paesaggio, della res extensa che con i suoi mutamenti ci narra come uomini. Il poeta, come ci ricorda ne Il Galateo in bosco, non dà mai le «dimissioni da fogliami e orizzonti» (ZANZOTTO 1999, p. 619) e sa adoperare la letteratura come strumento sia di descrizione e di comprensione del paesaggio che di dissacrazione ironica delle evoluzioni / involuzioni che l’uomo ad esso impone. Muovendosi fra burle e saggezze, la parola zanzottiana esercita così una funzione liberante perché come il barone di Münchhausen sa immergersi nel fango del mondo e sa indicare come uscirne: tirandosi su dai capelli, facendo affidamento sul raziocinio e sull’ironia, che ci schermano dagli abusi della Storia. E la poesia agisce come Münchhausen dando vita fiducia a operazioni senza garanzia e ci ricorda di essere Münchhausen perché noi uomini:

si è nel labirinto, si è qui per tentare di sapere da che parte si entra e si esce o si vola fuori. Per creare una prospettiva. Ciò avviene appunto nella tensione al linguaggio, nella poesia, nell’espressine. È il sublime e ridicolo destino (pendolarmente e reversibilmente) di Münchhauesen che si toglie dalla palude tirandosi per i capelli. Noi siamo Münchhauesen, lo è la realtà; lo siamo forse in quel processo che Freud ha chiamato sublimazione e che ha un oscuro rapporto con la dialettica. La quale può operare, anche se non è mai completamente di questo mondo. (ZANZOTTO 1999, p. 1132)

BIBLIOGRAFIA

CONTE G. B. (1974), Memoria dei poeti e sistema letterario, Einaudi, Torino

MANZONI A. (1987), I promessi sposi, a cura di T. Di Salvo, Zanichelli, Bologna

ZANZOTTO A. (1966), Sviluppo di una situazione montaliana (Escatologia – Scatologia), in RAMAT S. (1966) (a cura di), Omaggio a Montale, Milano, pp. 157-164

ZANZOTTO A. (1994), Mario Rigoni Stern: “Storia di Tönle”, in A. Zanzotto, Aure e disincanti, Mondadori, Milano

ZANZOTTO A. (1999), Le poesie e prose scelte, a cura di S. Dal Bianco e G. M. Villalta, Mondadori, Milano