Leggere Amélie Nothomb è come immergersi in un fluido, come galleggiare in quell’acqua che tanta importanza ha avuto nella sua vita. La testa scompare sotto la superficie, un mondo estremamente limpido e dai contorni netti ci appare insieme ai suoi abitanti eccessivi e alle sue storie improbabili. Le regole del quotidiano sono sovvertite, come anche quelle del politicamente corretto. È una dimensione totalizzante, un sistema perfetto che ci convince subito della sua bontà. Aderiamo senza riserve.
Metafisica dei tubi è forse uno dei romanzi che meglio riesce a farci scendere nelle profondità della scrittura di Nothomb. Il merito è nel punto di vista, quello della prima infanzia della scrittrice, che subito ci proietta nei suoi ricordi chiarissimi e nel suo sistema logico ineccepibile. Non è l’unico romanzo in cui viene adottato, ma in questo caso è particolarmente convincente: ci sembra impossibile che l’autrice possa davvero ricordarsi di un’epoca tanto remota della sua esistenza, eppure l’illusione riesce perfettamente. Il libro narra i primi tre anni di vita della piccola Amélie, di cui due trascorsi come un tubo, senza muoversi e senza emettere suono, con la sola attività vegetativa costituita da deglutizione, digestione ed escrezione. Quella che i genitori definivano come la Pianta era dal punto di vista del tubo la divinità: la neonata era Dio, consapevole di esserlo, incarnazione della forza di inerzia e della serenità assoluta del cilindro. Ma un giorno, improvvisamente e inesplicabilmente, la Pianta si sveglia, qualcosa è scattato nel suo cervello e per porvi rimedio comincia a urlare, nello sbigottimento generale, riversando la sua collera su tutto ciò che la circonda. L’autrice commenta: «Sic transit gloria tubi» (NOTHOMB 2009, p. 22). Sarà l’intervento della nonna e di un piccolo pezzo di cioccolato bianco belga a calmare l’ormai ex-tubo e a fargli prendere consapevolezza di sé: «È stato allora che sono nata, nel febbraio del 1970, all’età di due anni e mezzo, sulle montagne del Kansai, nel villaggio di Shokugawa, sotto gli occhi di mia nonna paterna, per grazia del cioccolato bianco» (ibidem, p. 27). Responsabile di questo risveglio è il piacere che placa la rabbia di una bambina che aveva scoperto «che la vita è una valle di lacrime dove si mangiavano carote bollite e prosciutto» e doveva aver avuto l’impressione di essersi «fatta fregare» (ibidem, p. 29).
Da questo momento Amélie comincia una vita di bambina che possiamo definire normale anche se nella particolare condizione di figlia di diplomatici belgi di stanza in Giappone. Pagina dopo pagina ci vengono narrate le scoperte di una bambina di due anni, come parlare e correre («verbo dei rapinatori e degli eroi», ibidem, p. 32), ma con la consapevolezza di un’adulta geniale. Scrivendo, Nothomb riveste la pelle di bambina lasciata in Giappone e rimette i suoi occhi in quelli dell’infanzia restituendo ogni fenomeno della quotidiana scoperta del mondo attraverso il filtro dell’ironia e del cinismo. Ironia e cinismo indispensabili per costruire anche il sistema ontologico e teologico della sua infanzia che aveva al centro se stessa e il proprio culto, dotato di fedeli e di regno (il giardino).
L’idolatria del bambino è, secondo l’autrice, caratteristica tipicamente giapponese, ma solo fino ai tre anni. Nel suo caso specifico la principale devota del culto era la tata Nishio-san, uno dei pochi personaggi giapponesi positivi descritti nei suoi libri. Metafisica dei tubi non è, infatti, l’unico romanzo biografico di ambientazione giapponese di Nothomb: completano la trilogia Stupore e tremori, sulla devastante esperienza di lavoro in un’azienda nipponica, e Né di Eva né di Adamo, racconto dell’amore vissuto con il giovane Rinri a vent’anni. Il saggio La nostalgia felice, uscito da poco anche in traduzione italiana, affianca i tre romanzi, ripercorrendo con un viaggio nel paese del Sol Levante le esperienze giapponesi dell’autrice e dando un senso di realtà a quanto è stato raccontato.
Il Giappone è un luogo speciale per la scrittrice, il paese dell’infanzia felice, quello da cui è stata strappata a cinque anni per il trasferimento del padre in Cina, quello in cui ritornerà a vent’anni per ricominciare a vivere e a cui si sente legata molto più che al Belgio, un paese da cui vuole essere soggiogata e in cui avere fede (NOTHOMB 2014, p. 26). Il Giappone è il paese da cui Amélie Nothomb non cessa mai di tentare di essere accolta, anche se con fortune alterne. I primi anni d’infanzia sono l’idillio, gli anni dell’idolatria e di Nishio-san. Amélie si sente giapponese, parla giapponese, si immerge nei racconti tradizionali e truculenti della tata in cui «i corpi, alla fine, finivano sempre in mille pezzi» (NOTHOMB 2009, p. 44). Ma il Giappone è anche un modo completamente altro di intendere la persona, la sua crescita e la sua vita. Ne sono esempi la vita d’azienda con i suoi ritmi alienanti e le sue gerarchie schiaccianti o il processo di selezione dei bambini per le scuole migliori, che fa constatare a Nothomb mentre guarda Tokyo che «ogni anno, la maggior parte dei bambini di cinque anni venivano a sapere di aver fallito nella vita. Mi sembrò di sentir risuonare un concerto di lacrime soffocate» (NOTHOMB 2007, p. 374).
Pregio di Amélie Nothomb è quello di far scivolare la tragicità o la durezza di quello che scrive sotto un manto di osservazioni sottilmente ironiche. Anche il Giappone e i giapponesi non sfuggono. Il contrasto tra la logica occidentale e il pensiero giapponese, espresso con estrema linearità, riesce nella sua scrittura ad avere un effetto comico. Il tema del sudore, ad esempio, diventa una questione etica: «Tra il suicidio e la traspirazione non esitare. Versare il proprio sangue è ammirevole quanto è immondo versare il proprio sudore. Se ti dai la morte, non suderai mai più e la tua angoscia sarà finita per sempre» (NOTHOMB 2001, p. 66). In Metafisica dei tubi, invece, Amélie si trova a riflettere sul non intervento dei bagnanti nipponici di fronte al suo rischio di annegamento, accostandoli per comportamento alla folla che osservava la crocifissione di Gesù senza fare nulla: «Senza dubbio gli abitanti del paese del crocifisso avevano gli stessi principi dei giapponesi: salvare la vita di qualcuno significava ridurlo in schiavitù per un debito di riconoscenza troppo grande. Era meglio lasciarlo morire anziché privarlo della sua libertà» (NOTHOMB 2009, p. 60).
Tra gli elementi che hanno influenzato il suo stile scrittorio, Amélie Nothomb cita l’importanza avuta dal teatro nô nella sua infanzia. Il padre, infatti, lo praticò per cinque anni, suo malgrado, a causa di un terribile equivoco: in occasione della visita ad una scuola di teatro nô del Kansai aveva assistito ad una rappresentazione e lo spettacolo gli aveva provocato «quel genere di euforico disagio che suscitano le ricostruzioni di scene preistoriche nei musei» (ibidem, p. 72), ma l’interprete giapponese si era affrettata a trasmettere al direttore della scuola la propria raffinata opinione invece di quella di circostanza del diplomatico. Il maestro direttore della scuola, estasiato, l’aveva subito scritturato come allievo senza possibilità di replica.
Come nel teatro nô una scena tragica è interrotta da buffoni per renderla sopportabile, così la scrittura di Nothomb è costellata da intermezzi comici. Né di Eva, né di Adamo ne è particolarmente denso. L’evolversi della relazione con Rinri permette di esplorare tutta una serie di caratteristiche dell’essere giapponese, come la necessità di parlare delle condizioni del tempo poiché «incontrare qualcuno e non parlargli del meteo equivale a ignorare il galateo» (NOTHOMB 2007, p. 342) o la totale assenza di freni inibitori degli anziani dato che in un paese «in cui le persone devono comportarsi bene tutta la vita, capita spesso che sclerino alla soglia della vecchiaia» (ibidem, p. 354). Non meno interessanti sono la passione tutta giapponese per i cosiddetti equipaggiamenti dedicati a ogni azione della vita, come il mare, la montagna , il golf o la fonduta svizzera («A casa di Rinri, c’era un apposita stanza ben sistemata dove le valigie già pronte aspettavano queste diverse operazioni», ibidem, p. 365), o il rispetto per l’acqua pulita dell’«onorevole vasca da bagno» («Come mettere i piatti puliti nella lavastoviglie», ibidem, p. 382).
Un ruolo fondamentale nei libri di Amélie Nothomb è giocato dal linguaggio e dall’uso della lingua. Il motivo lo dichiara l’autrice stessa: la lingua francese e la letteratura sono state le sole cose stabili nella sua vita, una vita nella quale perdeva tutto continuamente a causa dei frequenti spostamenti della famiglia. In Metafisica dei tubi la piccola Amélie è già consapevole del potere del linguaggio. Conscia di poter già parlare si sente bloccata dall’indecisione:
Quale parola scegliere per prima? Mi sarebbe piaciuto assegnare il primo posto a un vocabolo necessario come “marron glacé” o “pipì”, oppure bello come “pneumatico” o “skotch”, ma sentivo che questo avrebbe urtato alcune sensibilità. I genitori sono una specie suscettibile: bisogna accontentarli con quei grandi classici che li riconfermano nel loro ruolo. Io non volevo farmi notare. Così assunsi un’aria beata e solenne e, per la prima volta, pronunciai i suoni che avevo in mente:
– Mamma!
Estasi della madre.
E, siccome non bisognava offendere nessuno, mi affrettai ad aggiungere:
– Papà!
Intenerimento del padre. I genitori si gettarono su di me e mi ricoprirono di baci. Pensai che non erano difficili. (NOTHOMB 2009, pp. 32-33)
Lo studio delle lingue in Giappone è oggetto di estrema ilarità, Nothomb non esita a definirlo un «assoluto disastro» (NOTHOMB 2007, p. 338). Ad un corso di giapponese per stranieri il fenomeno diventa chiaro. Di fronte all’ennesima mano alzata di Amélie per chiedere chiarimenti su un argomento che aveva suscitato la sua curiosità:
Uno dei professori, scorgendo il mio gesto abituale, cominciò ad urlarmi addosso con una violenza incredibile:
– Basta!
Rimasi pietrificata, mentre tutti gli studenti mi fissavano.
Dopo la lezione andai a scusarmi con l’insegnante, soprattutto per capire quale fosse stato il mio crimine.
– Non si fanno domande al Sensei – mi sgridò il professore.
– Ma, se non capisco?
– Bisogna capire!
Compresi allora perché l’insegnamento delle lingue zoppicasse in Giappone. (ibidem, p. 360)
Proprio l’insegnamento del francese, permette però ad Amélie di conoscere Rinri e di cominciare la sua prima relazione da adulta. I passaggi sull’uso della lingua da parte del giovane giapponese sono comici e teneri al tempo stesso, come l’episodio della pronuncia della parola uovo, œuf in francese («quali alimenti mangiava? Perentorio rispose: “Uoffffhhhh.” Credevo di conoscere la cucina giapponese, ma questa cosa non l’avevo mai sentita», ibidem, p. 340), o i complimenti dopo una notte d’amore:
Dopo una notte d’amore non c’erano più regole. Sul cuscino, scoprivo qualcuno. Mi guardava a lungo e poi diceva:
– Che bello tu sei.
Era inglese mal tradotto in francese. Per niente al mondo l’avrei corretto. Nessuno mi aveva mai trovato bello. (ibidem, p. 372)
Le lingue di elezione di Nothomb sono il francese e il giapponese, che da bambina mescolava con naturalezza creando il franponese: «Quelle parole dalle sillabe ben separate le une dalle altre, dalle nette sonorità, erano pezzi di sushi, bocconcini pralinati, tavolette di cioccolata in cui ogni quadratino verbale si staccava facilmente, erano dolci per la cerimonia del tè, con incarti individuali che consentivano la felicità di denudarli e di distinguerne i sapori» (NOTHOMB 2004, p. 506). Molto diverso è il giudizio su altre lingue, ad esempio la povera lingua inglese: «quella lingua stracotta, purè di squittii, chewing-gum masticato che ci si passava di bocca in bocca. L’anglo-americano ignorava il crudo, la rosolatura, il fritto, la cottura a vapore: non conosceva altro che la bollitura […] Era una brodaglia non civilizzata» (ibidem, p. 507).
Il tema dell’uso della lingua non potrebbe, d’altronde, mancare nei libri di una scrittrice per cui l’operazione stessa di scrivere è un rito di purificazione da svolgere religiosamente tutte le mattine, dalle 4 alle 8, un metodo per rigenerarsi e ricominciare ogni giorno, «la grande spinta, la paura congiunta al piacere, il desiderio che scaturisce incessantemente, la necessità voluttuosa» (ibidem, p. 622). Nel documentario Amélie Nothomb, une vie entre deux eaux girato nel 2012, la scrittrice dichiara che la scrittura è molto più di quello che sembra, per contenerla bisogna contenere se stessi, fare economia della propria violenza e tenerla da parte per il momento della scrittura, in cui sarà la benvenuta, ma solo a condizione di saperla dominare o, per lo meno, di saperla ritmare. Nothomb si definisce profondamente eccessiva e definisce la scrittura come il più efficace dei suoi corsetti.
Quando scrive, Amélie Nothomb ha la sensazione di sprofondare dentro se stessa per ritrovarsi, ma per ritrovare anche tutti i personaggi di cui vuole scrivere. Questa immersione e la capacità di tradurla in parole è un’operazione che si osserva particolarmente in Metafisica dei tubi, ma che vale anche per gli altri romanzi dell’autrice belga: scrivere è ricostruire la condizione dell’infanzia e cioè la libertà, il gioco, la creatività di ogni istante e, soprattutto, il rapporto diretto con la lingua che dà a ogni parola un potere creatore.
Di fatto, l’autrice ha la capacità di recuperare le sensazioni e le esperienze dei primi anni di vita riempiendo i vuoti con l’immaginazione. Si tratta di un’operazione obbligata per la necessità stessa di raccontare quello che si ama e per farlo è indispensabile riempire le lacune: «Non c’è stato un momento in cui ho deciso di inventare. Succede e basta. Non si è trattato di insinuare il falso nel vero, né di attribuire alla verità un parvenza di falsità. Quanto si è vissuto lascia una musica nel cuore: è quella musica che ci si sforza di ascoltare tramite il racconto» (NOTHOMB 2014, p. 7). La capacità di fondere il ricordo con la fantasia è caratteristica propria dello scrittore e non ci meraviglia. Quello che suscita la nostra ammirazione è il coraggio. Amélie Nothomb ha avuto il coraggio di esplorare fino in fondo le sensazioni, le convinzioni e le credenze del bambino, di farle proprie nella sua qualità di adulta e di trasmetterle al pubblico in modo talmente limpido da lasciare spiazzati. Ogni bambino si sente Dio e manipola la realtà che lo circonda in funzione di se stesso, crea una narrazione di cui è protagonista e istruisce un intero sistema che ha per lui un significato totalizzante. Da adulti spesso si dimentica tutto questo. Rileggendo Metafisica dei tubi qualcosa nella memoria si riaccende: la piccola Amélie siamo noi.
NOTHOMB, A. (2014), La nostalgia felice, Voland, Roma
NOTHOMB, A. (2012), Maxi: 5 romanzi, Voland, Roma
NOTHOMB, A. (2009), Metafisica dei tubi, Guanda, Parma
NOTHOMB, A. (2007), Né di Eva né di Adamo, in Maxi: 5 romanzi, cit., pp. 334-477
NOTHOMB, A. (2004), Biografia della fame, in Maxi: 5 romanzi, cit., pp. 478-627
NOTHOMB, A. (2001), Stupore e tremori, Voland, Roma
NOTHOMB, A. (1998), Sabotaggio d’amore, in Maxi: 5 romanzi, cit., pp.114-230
Amélie Nothomb: une vie entre deux eaux [documentaire], réalisation Luca Chiari, auteurs Laureline Amanieux et Luca Chiari, production Cinétévé, avec la participation de France Télévisions, Paris, 2012, (52 min.) [Il documentario, che ripercorre la vita e l’attività letteraria di Amélie Nothomb attraverso un viaggio in Giappone, è quello a cui la scrittrice fa riferimento in La nostalgia felice ed è reperibile al link: http://www.france5.fr/et-vous/France-5-et-vous/Les-programmes/LE-MAG-N-38-2013/articles/p-18931-Amelie-Nothomb-une-vie-entre-deux-eaux.htm, consultato il 13 marzo 2014].
Igiene dell’assassino (1997), Voland, Roma; (2002), Guanda, Parma
Le Catilinarie (1998), Voland, Roma; (2002), Guanda, Parma
Sabotaggio d’amore (1998), Voland, Roma; (2001), Guanda, Parma
Attentato (1999), Voland, Roma
Ritorno a Pompei (1999), Voland, Roma
Libri da ardere (1999), Robin Edizioni, Roma
Mercurio (2000), Voland, Roma
Stupore e tremori (2001), Voland, Roma; (2006), Guanda, Parma
Metafisica dei tubi (2002), Voland, Roma; (2004), Guanda, Parma
Cosmetica del nemico (2003), Voland, Roma
Dizionario dei nomi propri (2004), Voland, Roma
Antichrista (2004), Voland, Roma
Biografia della fame (2005), Voland, Roma
Acido solforico (2006), Voland, Roma; (2008), Guanda, Parma
Diario di Rondine (2006), Voland, Roma
Né di Eva né di Adamo (2008), Voland, Roma
L’entrata di Cristo a Bruxelles (2008), Voland, Roma
Causa di forza maggiore (2009), Voland, Roma
Il viaggio d’inverno (2011), Voland, Roma
Una forma di vita (2011), Voland, Roma
Uccidere il padre (2012), Voland, Roma
Maxi (2012), Voland, Roma
Barbablù (2013), Voland, Roma
La nostalgia felice (2014), Voland, Roma