[ Michele Serra, Gli sdraiati, Feltrinelli, Milano 2013 ]
Questo libro di Michele Serra è una satira, rabbiosa e partecipe, della generazione degli “sdraiati” – così l’autore chiama i nuovi giovani, figli svogliati, incapaci di dare un senso alla propria vita, chiusi al mondo ed eternamente connessi al web, all’Ipod, e al televisore e vittime del consumismo – e, insieme, una satira dei padri – incapaci di dare e far rispettare le regole minime del vivere civile. Gli “sdraiati” sono i figli adolescenti, quelli che dormono sul divano, quelli che non hanno orari, quelli che dormirebbero fino a sera, hanno orari diversi, non dettati dal naturale susseguirsi del giorno e della notte, della luce e del buio. I padri sono i “dopopadri”, i padri della generazione che ha rifiutato l’autorità e non trova l’autorevolezza.
Non ci sono figure femminili – come nota Marco Belpoliti nella recensione che gli dedica su “Doppiozero” -; il tema è proprio ed esclusivamente quello del rapporto padre-figlio. È un testo autobiografico: il padre è l’autore stesso e il figlio è suo figlio, all’ultimo anno di liceo. Per questo la satira è mordace e arrabbiata, coglie con perfezione analitica l’atteggiamento invalicabile e inamovibile del figlio “sdraiato”, ma rappresenta con altrettanta efficacia descrittiva i tentativi inutili del padre che oscillano tra il richiamo preoccupato, ironico, sarcastico, e il ricatto, la minaccia, la preghiera.
Lo sguardo disincantato ci presenta una trattazione umoristica, un ritratto che spesso raggiunge momenti di comicità irresistibile, come nella narrazione dell’ora di udienza scolastica e nella descrizione della casa, interpretata dal figlio come accampamento:
L’unica certezza è che sei passato da questa casa. Le tracce della tua presenza sono inconfondibili. Il tappeto kilim davanti all’ingresso è una piccola cordigliera di pieghe e avvallamenti. La sua onesta forma rettangolare, quando entri o esci di casa, non ha scampo: è stravolta dal calco delle tue enormi scarpe, a ogni transito corrisponde un’alterazione della forma originaria. Secoli di manualità di decine di popoli, caucasici maghrebini persiani indostani, sono rivoltati da ogni tuo singolo passo.
Almeno tre dei quattro angoli sono rivoltati all’insù, e un paio di grosse pieghe ondulate, non parallele tra loro, alterano l’orizzontalità del tappeto fino a conferirgli il profilo naturalmente casuale della crosta terrestre. In inverno tracce di fanghiglia e foglie secche aggiungono avventurose varianti di Land Art alle austere decorazioni geometriche del kilim.
D’estate il disastro è più lindo, meno suggestivo rispetto al trionfo invernale. Ma la scarpa che imprime e svelle è sempre la stessa: tu e la tua tribù avete abolito sandali e mocassini in favore di quegli scafi di gomma imbottita che vi ingoiano i piedi per tutto l’anno, nella neve fradicia come nella sabbia arroventata. L’orbita della Terra attorno al Sole vi è estranea, vi vestite allo stesso modo quando soffia il blizzard e quando il sole cuoce il cranio, avete relegato il tempo atmosferico tra i dettagli che bussano vanamente sulla superficie del vostro bozzolo.
In cucina il lavello è pieno di piatti sporchi. Macchie di sugo ormai calcinate dal succedersi delle cotture chiazzano i fornelli. Questa è la norma, l’eccezione (che varia, in festosa sequenza) è una padella carbonizzata, o il colapasta monco di un manico, o una pirofila con maccheroni avanzati che produce le sue muffe proprio sul ripiano davanti al frigo: un passo ancora e avrebbe trovato salvezza, ma la tua maestria nell’assecondare l’entropia del mondo sta esattamente in questo minimo, quasi impercettibile scarto tra il “fatto” e il “non fatto”. Anche quando basterebbe un nonnulla per chiudere il cerchio, tu lo lasci aperto. Sei un perfezionista della negligenza.
Più di un posacenere, in giro per la casa, rigurgita di cicche. Spero non solo tue. Dalla piccola catasta è tracimata qualche unità ribelle, rotolata sul tavolo o caduta per terra. Scaglie di cenere ornano specialmente il divano, tuo habitat prediletto. Vivi sdraiato. Tranne che in cucina, dove domina il puzzo di rancido, la casa è impregnata del tanfo di sigaretta spenta, e perfino a me, che fumo, pare impossibile classificare quella cappa mortifera come il residuo di un piacere. Il tabagista più irrecuperabile dovrebbe venire qui un paio di volte alla settimana, respirare con quello che gli resta dei polmoni quest’aria combusta e melmosa. Si redimerebbe. […]
In bagno, asciugamani zuppi giacciono sul pavimento. Appendere un asciugamano all’appendiasciugamani è un’attività che deve risultarti incomprensibile, come tutte quelle azioni che comportano la chiusura del cerchio. Come richiudere un cassetto, o l’anta di un armadio, dopo averli aperti. Come raccogliere da terra, e piegare, i tuoi vestiti buttati ovunque, quelle felpe che paiono indossate da un corpo fatto di soli gomiti, bozzute anche nelle parti che non hanno ragione di esserlo, e per giunta farcite della maglietta che sfili in un solo colpo insieme a qualunque indumento sovrastante. La parte superiore del tuo vestiario è tutt’una, un multistrato che si compone vestendosi ma non si divide svestendosi.
Calzini sporchi ovunque, a migliaia. A milioni. Appallottolati, e in virtù del peso modesto e dell’ingombro limitato, non tutti per terra. Alcuni anche su ripiani e mensole, come palloncini che un gas misterioso ha fatto librare in ogni angolo di casa.
Qualche apparecchio elettronico lasciato acceso, sempre. Sulle pareti della casa buia, bagliori soffusi di spie, led, video ronzanti, come le braci morenti del camino nelle case di campagna. Spesso la televisione di camera tua replica anche in tua assenza uno di quei cartoon satirici americani (Griffin o Simpson) che dileggiano il consumismo. Oppure è il computer che sta scaricando musica, e sobbolle abbandonato sul letto (ho cercato di farti credere, inutilmente, che è pericolosissimo, che può bruciare la casa. Di questi miserabili espedienti è fatta la mia autorità).
Tutto rimane acceso, niente spento. Tutto aperto, niente chiuso. Tutto iniziato, niente concluso.
La rabbia si gonfia fino sperare di coinvolgere il figlio in qualcosa che finalmente lo debba smuovere: “ci vorrebbe una guerra” e il luogo comune diventa in Serra l’immaginazione di una vera e propria partenza, di un saluto al figlio che diventerà così finalmente un eroe e la fantasia si dipana nell’immaginare la scrittura di un romanzo apocalittico sulla Grande Guerra Finale tra giovani e vecchi, prevista per il 2054.
Dietro il rancore si delinea un’immagine complessa del rapporto tra figli adolescenti e genitori e il tono ironico e satirico esprime il dispiacere di una distanza che sembra senza soluzione. «La pazienza, la forza d’animo, l’autorevolezza, la severità, la generosità, l’esemplarità» sono troppe virtù per «chi nel frattempo cerca di continuare a vivere», espressione «onesta» che Serra utilizza per definire i genitori della sua generazione.
Il tono satirico si intreccia con il sincero amore di un padre che non capisce un figlio, che a sua volta non lo capisce. Un’incomprensione tra due generazioni, tra due persone, tra un padre e un figlio. 108 pagine di critica – sociale e individuale -, di amore, di quello vero, rabbioso, sinceramente malinconico con una punta di ironia e una voce polemica che lo dichiara. Michele Serra non cade però mai nel patetico e non risulta mai sdolcinato o sentimentalista, anzi. Riesce a mantenere vera e sincera la parte emozionale, che si esprime con delicata dolcezza nelle pagine che rimangono vive anche dopo la lettura. Serra individua una diversità tra le due generazioni, una sua diversità, ma non la giudica mai definitivamente, sembra sempre sospendere il giudizio per lasciare il posto alla semplice presa di conoscenza, consapevole che ogni sua ragione è riconducibile alla sua cultura, età, mentalità e generazione. Si tratta di un conflitto profondo, di una lacerazione interna al pensiero, alla modalità di pensiero. In alcune pagine si intravede il viso anziano e barbuto, azzarderei dire quasi canuto, di un Serra ormai diverso, che forse, ma forse, in realtà non fa altro che mantenere un tono ironico:
Guardo i miei vasi di portulache, affacciati sul mare e schiaffeggiati dal vento e dalle gocce ormai fitte. Il più futile dei pensieri – chi curerà questa terrazza quando non ci sarò più? – è anche il più lacerante. Mia nonna, poi mio padre curarono questi vasi. La cura del mondo è un’abitudine che si eredita. A dieci anni riempivo l’annaffiatoio per mio padre, e la facilità con la quale lui maneggiava con una sola mano quei dieci litri d’acqua che io gli porgevo con fatica e impaccio mi pareva il traguardo della mia infanzia. Ora che maneggio con la stessa destrezza quei dieci litri, e sono dunque adulto, mi rendo conto che nessuno mi porge l’annaffiatoio. Una catena è spezzata – ne sono l’ultimo anello. Non c’è dubbio. Sono l’ultimo anello.
Ma forse: sono giovani, spensierati, hanno un’altra prospettiva, diversa, spesso taciuta, spesso raccontata da altri:
«Comunque», dice a un tratto, e si sente che quel “comunque” fa da cesura tra la piega amena che ha preso la chiacchierata e una conclusione più impegnativa,
“comunque suo figlio, sui tatuaggi, dice la cosa giusta. E scommetto che lei non la sa.”
“No che non la so,” rispondo. “Me lo dica lei, che cosa dice mio figlio sui tatuaggi.”
“Dice che non sarà un problema invecchiare e vedere il tatuaggio che smolla. Perché tutti i tatuati invecchieranno insieme, e tutti i vecchi, tra un poco di anni, saranno tatuati. E tutti i tatuaggi smolleranno in contemporanea, in tutto il mondo.”
“Non ci avevo mai pensato,” gli rispondo. Ed è proprio vero, che non ci avevo mai pensato.
l tono canzonatorio accompagna quasi tutte le pagine del libro e l’ossessivo e insistente invito in montagna rimane l’emblema di una diversità apparentemente priva di punti di contatto, ma il racconto finale – quando il figlio accetta la “passeggiata del padre” al Colle della Nasca – suggerisce una (riscoperta?) fiducia, nella nuova generazione, nei figli, capaci di fare le stesse cose dei genitori, ma diversamente.
Molto più in alto di me.
Sei salito in pochi passi fino a colle. Quando la tua sagoma è arrivata a stagliarsi contro il cielo, al colmo, ti sei voltato, hai levato il berretto da rapper e l’hai sventolato verso di me. Eri troppo lontano perché potessi vederti in faccia, ma so che sorridevi. Poi mi hai dato le spalle, ti sei calcato di nuovo il berretto in testa e in pochi passi sei scomparso dietro il ciglio grigio della montagna.
Ti ho chiamato – Aspettami! – ma non hai risposto. Non mi sentivi più.
Finalmente potevo diventare vecchio.