Sull’attitudine all’umorismo di Ottaviano, pronipote ed erede di Giulio Cesare, divenuto Augusto nel 27 a.C. e – per i posteri – primo imperatore romano, vi sono notizie e giudizi discordanti già nel mondo antico, anche se prevalentemente positivi. Da una parte, in diversi episodi della vita, egli apparve gravis, severo e moralista, anche intransigente ed inclemente; dall’altra, varie fonti latine e greche di epoche diverse (tra cui soprattutto la Vita divi Augusti di Svetonio, gli Apophthegmata Caesaris Augusti di Plutarco ed i Saturnalia di Macrobio nel cap. 2,4) riferiscono della sua disposizione all’ironia e gli attribuiscono numerosi aneddoti e battute (oltre settanta) che rivelano spirito ed arguzia.
Riguardo alla seriosità augustea, viene riferito da Svetonio (Caes. 56,7) che Augusto inviò una lettera a Pompeo Macro, curatore della biblioteca pubblica sul Palatino, vietando che fosse esposta l’operetta giovanile di Cesare intitolata Dicta collectanea (o Apophthegmata, detti celebri), una raccolta di motti e facezie, tra cui molti di Cicerone, uomo notoriamente spiritoso; lo stesso oratore se ne compiaceva in una sua lettera (Cic. fam. 9,16,4 del 46 a.C.), lodando Cesare anche per la capacità di distinguere le proprie battute autentiche da quelle false. La motivazione del divieto di Augusto non è nota, ma forse egli riteneva tali scritti poco decorosi – per forma o contenuto – sia per la memoria del divus Caesar che per la propria immagine ditutore del mos maiorum, ruolo che richiedeva una gravitas tanto più opportuna in quel periodo: si tratta infatti verosimilmente degli anni 28-27 a.C., decisivi per il (tacito) passaggio dalla repubblica al principato, in cui avvenne l’inaugurazione sul Palatino del tempio di Apollo affiancato dalla citata biblioteca augustea, ed il conferimento ad Ottaviano dei titoli di princepssenatus “primo senatore e cittadino”,e di Augustus, “venerabile, protetto dagli dèi”. Non si può escludere anche la contrarietà di Ottaviano verso un’operetta che conteneva battute di Cicerone, politico a lui inviso (Plut. Cicero 49,5).
In questa occasione Augusto sembra volersi distanziare dal più gaudente predecessore Cesare, che era invece aperto allo scherzo anche grossolano, alla canzonatura fatta ad altri, ma anche subìta: Cesare, infatti, era oggetto, in occasione dei trionfi che concedevano la libertà di parola nei confronti dei comandanti (militaris licentia), dei lazzi beffardi dei suoi stessi soldati, pronti e diretti nelle parole come nei fatti, che ne motteggiavano la calvizie o la lussuria nei carmina triumphalia (Suet. Caes. 49 s. e 51 ). Non esitavano a dileggiarlo anche avversari politici (tra cui lo stesso pompeiano Cicerone) e conoscenti altolocati, come l’irriverente Catullo (nei carmi 29, 57 e 93), dimostrando di non temerne una reazione vendicativa: nel caso di Catullo, ad es., Cesare, avute le sue scuse, non gli serbò rancore (Suet. Caes. 73).
Da ciò risulta, oltre all’uso di collezionare e tramandare battute ed aneddoti (utilizzati in seguito da biografi e storici), un ambiente politico tardo-repubblicano abituato alla punzecchiatura, all’irrisione, al pettegolezzo più o meno faceto o maligno, ludico o diffamante, a seconda dei volubili rapporti di simpatia o avversione, di alleanza o antagonismo, in un clima di sostanziale libertà di parola ed in conformità con lo spirito satirico tipico dei Romani. Il gusto italico del motteggio, infatti, o Italum acetum (come lo chiama Orazio nella satira 1,7,32) caratterizza l’indole e la cultura romana fin dalle origini, come mostrano anche – in ambito (pre)letterario – i versi detti Fescennini, ovverouno scambio di battute salaci (in cui si cimentò lo stesso Augusto, come riferisce Macrobio in Sat. 2,4,21) o la fabula Atellana, forma scenica che precorre la commedia dell’arte, e poi soprattutto la satira, un genere letterario ‘inventato’ dai Romani (come afferma Quintiliano in inst. 10,1,93 satura quidem tota nostra est “la satira in effetti è tutta nostra”).
Un cittadino romano, specie se impegnato in politica, doveva quindi abituarsi a simili attacchi verbali ed imparare a difendersi con prontezza. Anche Ottaviano subì numerose maligne canzonature fin da giovane soprattutto da parte di Antonio (Suet. Aug. 2-4; Vell. 2,60,5), con insinuazioni sulle umili professioni dei suoi antenati e parenti paterni e materni, o con offese rivolte a lui stesso, accusato di effeminatezza (Suet. Aug. 68). Non risulta che egli abbia replicato sullo stesso piano e, in genere, gli si riconosce il merito di non ricorrere alla maldicenza, a differenza di altri avversari. Da parte sua, rivolse contro Antonio solo battute ironiche riguardanti il suo stile, dandogli del “pazzo” (Antonium ut insanum increpat) per la sua retorica confusa, mista di arcaismi degni di Catone il Censore e di enfasi asiana, incapace di seguire un unico modello (Suet. Aug. 86,2 s.).
Sullo stile oratorio dei contemporanei sono attestate anche altre facezie di Ottaviano: come riferisce Seneca il Retore (contr. 2,5,20; 4 praef. 7; 10 praef. 14), riguardo ad un certo Lucio Vinicio, che sembrava discutere improvvisando sul momento, diceva che aveva “l’ingegno in contante” (L. Vicinius ingenium in numerato habet); di un altro di nome Aterio, che parlava troppo in fretta, suggeriva che dovesse “essere trattenuto da un freno” (Haterius noster sufflaminandus est), e di un oratore abbastanza buono, ma enfatico, osservava ambiguamente “che non aveva mai sentito un padre di famiglia più eloquente” (numquam audivi patrem familiae disertiorem). Amava un’eloquenza chiara, elegante ma misurata, e motteggiava anche amici e parenti troppo leziosi (Suet. Aug. 86,1), come Mecenate, di cui parodiava i “riccioli profumati” (myrobrechis… concinnos), ossia lo stile fiorito ed arcaizzante, o il figlio adottivo Tiberio per il suo gusto delle parole desuete, che personalmente aborriva evitandone il “cattivo odore” (vitatis… reconditorum verborum… fetoribus). Di Tiberio, peraltro, non aveva un’alta opinione anche per la lentezza e durezza di carattere, al punto che, dopo un colloquio con lui negli ultimi giorni di vita, avrebbe detto che compiangeva Roma perché si sarebbe trovata “sotto mascelle tanto lente” (Suet. Tib. 21 ,2 Miserum populum Romanum, qui sub tam lentis mascillis erit!).
Da giovane, dovette sopportare anche lo scherno di chi, dopo la sua nomina testamentaria a figlio adottivo ed erede di Cesare a soli 19 anni, lo definiva sprezzantemente puer o adulescens, “ragazzo”, tra cui lo stesso Cicerone, che pure lo appoggiava per contrastare Antonio, ma pensando di poterlo influenzare o eliminare politicamente. A Cicerone, però, egli seppe tenere testa quando apprese una sua battuta sul proprio conto (Cic. Fam. 11,20,1; cfr. Vell. 2,62,6 e Suet. Aug. 12,1), in cui l’oratore aveva detto che “il ragazzo doveva essere lodato, onorato ed innalzato” con senso ambiguo nell’uso dell’ultimo verbo (tollo in latino) tra “levare al cielo” e “levare di mezzo”: Ottaviano rispose che “non avrebbe corso il rischio di poter essere sollevato” ([dixit] se non esse commissurum ut tolli posset), mostrando di intendere la maliziosa allusione.
Se durante le guerre civili Ottaviano fu incline alla vendetta, specie dopo le battaglie di Modena e Filippi (Suet. Aug. 12-15), seguendo e perfino superando l’esempio di Antonio e Lepido che almeno talvolta risparmiavano gli avversari in cambio di riscatto, una volta giunto al potere e diventato Augusto, si mostrò più clemente, acquistando fama di forza e moderazione specie agli occhi dei popoli stranieri. Anche di fronte alle diffamazioni interne, comunque, replicò in genere con pacatezza, sia esponendo le proprie argomentazioni, sia emanando un decreto contro le delazioni (Suet. Aug. 55 s.), ed in alcuni casi limitandosi a commentare con una battuta ed acquistando popolarità per il suo spirito.
La sicurezza politica e militare lo rese più tollerante verso i nemici (specie se morti) ed a sostenerlo in questa buona disposizione d’animo contribuì certo l’influsso benefico di amici intelligenti ed arguti come Mecenate, suo colto collaboratore, ed il poeta satirico Orazio. Alcune battute augustee ricordano in effetti lo spirito oraziano, efficace nel colpire debolezze e vizi umani, pur benevolmente: a proposito di un architetto troppo lento nella costruzione del Foro di Augusto, disse che avrebbe preferito che il giudice Severo Cassio, famoso per la rapidità delle sentenze, chiamasse in giudizio il suo foro (Macr. Sat. 2,4,9 vellem Cassius et meum forum accuset), e ad un nomenclatore smemorato, che avrebbe dovuto ricordargli i nomi di chi incontrava, consigliò di portare con sé nel foro una lettera di raccomandazione, dato che non riconosceva nessuno (Macr. Sat. 2,4,15 accipe, inquit, commendaticias quia illic [in foro]neminem nosti); o ancora, ad un conoscente avaro che gli aveva offerto un pranzo modesto, disse ironicamente che non credeva di essere in rapporti tanto stretti con lui (Macr. Sat. 2,4,13 non putabam me tibi tam familiarem). Come Orazio, inoltre, fu tormentato da un seccatore, un greco che gli offriva di continuo epigrammi in suo onore, cui reagì infine ricambiandolo con un proprio breve componimento (pure in greco) ma, sorpreso dalla reazione del pover’uomo, che lo ringraziò dandogli qualche moneta e promettendone di più se ne avesse avute, lo ricompensò alla fine largamente (Macr. Sat. 2,4,31). Tuttavia, dopo la morte degli amici Mecenate e Orazio nell’8 a.C. e di Agrippa già nel 12 a.C. – rimpianti spesso da Augusto (Sen. ben. 6,32,1 s.) -, avvenne un irrigidimento del suo carattere che lo indusse tra l’altro a comminare severe pene ai colpevoli di immoralità o di complotto, tra cui la stessa figlia Giulia ed il poeta Ovidio, famoso per l’arguzia e spregiudicatezza, condannati entrambi all’esilio (8 d.C.).
In altri casi, invece, proprio l’umorismo gli permise di superare e risolvere situazioni difficili: il filosofo Seneca (ben. 3,27,1-3) lo presenta anzi come esempio di dominio dell’ira e di garanzia di libertà di parola (diversamente dal successore Tiberio), per cui sotto il suo principato per i cittadini “le proprie parole non erano ancora pericolose, anche se già fonte di preoccupazione”. È il caso (narrato in Sen. ira 3,23,3-8) dello storico greco Timagene, ospite di Asinio Pollione e molto stimato a Roma, che aveva ironizzato apertamente su Augusto e sua moglie Livia con una arguzia sfrontata (temeraria urbanitas); Augusto accusò Pollione “di nutrire un selvaggio” (usando non a caso un grecismo) e lo invitò a “godersi” l’ospite (fruere, inquit, mi Pollio, fruere!), ma quando Pollione si offrì di allontanarlo dalla propria casa, declinò l’offerta, vantandosi anzi maliziosamente di averli fatti diventare amici. Anche contro Rufo, che aveva augurato in pubblico che Augusto non ritornasse da un viaggio all’estero, ma che poi, temendo una vendetta, gli aveva chiesto perdono, non infierì, ma pretese una cospicua somma di denaro, dicendo ironicamente che nessuno avrebbe creduto alla loro riappacificazione se non gli avesse donato qualcosa (nemo… credet te mecum in gratiam redisse, nisi aliquid mihi donaveris).
Il suo apprezzamento per doni di valore emerge anche nell’aneddoto (in Quint. inst. 6,3,79) in cui seppe replicare alla sfacciata battuta di Cornelio Dolabella che, quando i Galli offrirono ad Augusto una corona d’oro di cento libbre, gli chiese di donarla a lui, ma il princeps rispose candidamente che preferiva dargli la corona civica (malo, inquit, te civica donare), che era fatta di foglie di quercia. È un esempio, come sottolinea Quintiliano, di come “eluditur et ridiculum ridiculo”, ovvero una canzonatura possa essere evitata e beffata dicendone un’altra, un’abile tecnica di umorismo. Un caso opposto, in cui Augusto seppe invece sopportare le facezie altrui senza avere l’ultima parola, – una qualità per cui è ammirato nei Saturnalia di Macrobio (Sat. 2,4,19), – si ebbe quando (come riferito in Quint. inst. 6,3,63) un cavaliere, che egli aveva rimproverato perché beveva a teatro – cosa proibita – dicendogli ironicamente “io, se voglio pranzare, vado a casa” (ego, si prandere volo, domum eo), gli replicò che lui (Augusto) poteva farlo perché non temeva di perdere il posto a teatro (tu enim, inquit, non times ne locum perdas).
Con i soldati Augusto non ebbe forse il rapporto confidenziale di Cesare, ma sono tramandate alcune battute rivolte a membri dell’esercito, per attenuare ammonimenti o negare blandamente richieste di donativi, come quando ad un soldato che gli porgeva una supplica con troppa esitazione disse di non dargliela “come se desse una monetina ad un elefante” (Quint. inst. 6,3,59 noli, inquit, tamquam assem elephanto des; cfr. anche Suet. Aug. 53) o quando all’ufficiale congedato con infamia che non sapeva come informarne il padre, suggerì di dirgli che “Augusto non gli era piaciuto” (Quint. inst. 6,3,64 dic me tibi displicuisse); inoltre, con una sola battuta sfuggì contemporaneamente alle richieste di due soldati (Quint. inst. 6,3,94), dicendo al primo che non avrebbe soddisfatto la sua richiesta più di quella del secondo (non magis, inquit, faciam, commilito, quod petis, quam quod Marcianus a me petiturus est).
D’altra parte dava consigli sia ai suoi generali che ai familiari, traendo spunto dalle sue numerose letture latine e greche, per incitarli ad una buona condotta (Suet. Aug. 89,2), come quando (Suet. Aug. 25,4)ammoniva a non rischiare più del dovuto (come “chi pesca con un amo d’oro”, aureo hamo piscantibus) o diceva “si fa abbastanza in fretta tutto ciò che si fa abbastanza bene” (iactabat… sat celeriter fieri quidquid fiat satis bene), o ancora (in greco) “affrettati lentamente”, una frase destinata a grande fortuna, così come un’altra sua espressione abituale, “pagheranno alle calende greche” (ad Kalendas Graecas soluturos), per indicare chi non pagava mai (Suet. Aug. 87,1).
Quanto al rapporto con i provinciali, a lui molto devoti e che gli tributavano onori divini già in vita, è nota una battuta arguta (Quint. inst. 6,3,77) che disse quando i Tarragonesi, adulandolo, gli annunciarono che era spuntata una palma sul suo altare, segno di fausto presagio, ma lui replicò che era chiaro quanto spesso accendessero il fuoco (apparet, inquit, quam saepe accendatis), alludendo alla trascuratezza dell’altare e dei sacrifici.
In politica variò, come altri, le alleanze (ora con gli ottimati, ora con Antonio) per raggiungere il potere, ma non amava chi si vantava di questo trasformismo: così zittì il re di Tracia Remetalce (Plut. apoph. Aug. 2) che sparlava di Antonio, di cui era stato alleato prima di passare dalla sua parte, dichiarando “io amo il tradimento, ma non lodo i traditori”. Viceversa, apprezzò la fedeltà verso gli amici caduti in sventura nel caso dei Galli Cisalpini, che a Milano conservavano una statua di Marco Giunio Bruto, cugino del cesaricida, e, dopo l’iniziale disappunto, convenne che quel ‘nemico’ ormai poteva rimanere al suo posto (Plut. comparatio Dionis et Bruti 5,2-4). Il superamento dell’odio verso gli avversari del padre adottivo Cesare è provato inoltre dal soprannome che assegnò amichevolmente allo storico Tito Livio, detto da lui Pompeianus per l’ampio spazio dedicato a Pompeo nella sua opera storica(Tac. ann. 4,34,3).
Diverse sue battute rivelano anche la disposizione ad una scherzosa autoironia, come quando, per attirare l’attenzione di giovani di alto rango in protesta, disse loro, con un gioco di parole: “Ascoltate, giovani, un vecchio che i vecchi da giovane ascoltavano!” (Plut. apoph.Aug. 12), e sulla sua età ormai avanzata Augusto ironizza anche altrove, ad es. a proposito del gioco dei dati, a lui molto gradito, quando racconta in una lettera (Suet. Aug. 71,2) di aver giocato con altri convitati “come bravi vecchietti” (in greco nel testo). Emerge qui un particolare lato umano legato ai suoi passatempi, in cui egli appare talvolta bonariamente generoso, come quando condonò varie mani ai giocatori confidando che la sua bontà lo avrebbe elevato alle stelle (Suet. Aug. 71,3) – forse alludendo ad Orazio che si vantava in modo simile per la gloria poetica (in carm. 1,1,36) -, talvolta un po’ infantile, come quando durante i Saturnali organizzava lotterie senza mostrare i premi (preziosi o modestissimi), divertendosi a deludere o realizzare le speranze dei compratori (Suet. Aug. 75). Comico fu anche il suo acquisto di un materasso appartenuto ad un cavaliere molto indebitato, che giustificò dicendo che doveva essere un buon letto se quell’uomo vi aveva dormito bene pur con tante preoccupazioni (Macr. Sat. 2,4,17 habenda est ad somnum culcita in qua ille, cum tantum deberet, dormire potuit). L’aneddoto più spiritoso è però il suo incontro con un corvo parlante: dopo Azio aveva comprato un corvo, un pappagallo ed una gazza capaci di salutarlo dicendo “Salve, Cesare, generale vincitore!” (Ave, Caesar, victor imperator), ma quando gli fu offerto ancora un altro corvo, Augusto dapprima lo rifiutò dicendo che aveva abbastanza salutatori a casa, ma poi, quando l’uccello aggiunse un’altra frase che aveva sentito sempre dire al suo padrone sconsolato, ovvero “Fatica e spesa sprecate!” (opera et impensa periit), rise e lo comprò al massimo prezzo (Macr. Sat. 2,4,29 s.).
L’umorismo di Augusto risulta anche dai suoi (vani) tentativi letterari: si cimentò infatti nel tempo libero, come molti altri uomini politici, nella scrittura di testi originali anche divertenti, come i fescennini già citati. Aneddoti comici si tramandano anche riguardo a suoi scritti di contenuto serio, come quando improvvisò versi epicheggianti su un certo Masgaba (Suet. Aug. 98,4), fingendo che fosse una citazione e chiedendo al suo seguito di scoprirne l’autore, o a proposito di una tragedia che aveva iniziato con entusiasmo, “Aiace”, ma che poi interruppe dicendo agli amici, che gli chiedevano dell’opera, che “il suo Aiace si era gettato sulla spugna”, con allusione autoironica alla sua decisione di cancellare quanto aveva scritto sull’infelice eroe (Suet. Aug. 85,2 respondit Aiacem suum in spongiam incubuisse; cfr. anche Macr. Sat. 2,4,1 s.).
Alcune sue scelte lessicali e modi di dire scherzosi rivelano una natura semplice e rustica, come quelli annotati da Svetonio, che dichiara (in Aug. 87) di aver esaminato le sue lettere autografe (probabilmente conservate nella biblioteca imperiale di cui era archivista): così “baccello” (baceolum) per “sciocco”, “imbietolire” (betizare) per “languire” o la similitudine “fare più in fretta di quanto cuociano gli asparagi” (celerius quam asparagi cocuntur). D’altra parte, per un umorismo più raffinato usava volentieri il greco (come risulta anche in alcuni aneddoti già citati), segno della sua formazione bilingue e del suo interesse per la storia, la letteratura e la cultura greca. Amava la commedia greca antica e spesso la fece rappresentare in spettacoli pubblici (Suet. Aug. 89), ed il suo massimo modello (come già per altri condottieri romani) fu Alessandro Magno, di cui ammirava l’audacia e di cui volle vedere la tomba; quando però gli proposero di vedere anche quella di Tolomeo, disse con una battuta sarcastica che “voleva vedere un re, non dei morti” (Suet. Aug. 18,1 regem se voluisse ait videre, non mortuos).
Anche Roma e i Romani non sfuggirono alla sua arguzia. Augusto era consapevole di aver trasformato profondamente l’impero e la capitale – sua città natale -, elevandola al livello artistico e culturale di quelle greche tanto ammirate, e si vantava argutamente di aver lasciato una “Roma di marmo” dopo averla trovata “di mattoni” (Suet. Aug. 28 Urbem… excoluit adeo ut iure sit gloriatus marmoream se relinquere quam latericiam accepisset). Non era però forse riuscito a ‘fare i Romani’, come risulta dall’episodio in cui, vedendo cittadini malvestiti nel Foro nonostante i suoi sforzi di ripristinare l’antico e dignitoso modo di vestire, esclamò sconsolato “O Romani, padroni del mondo e gente vestita di toga!” (Suet. Aug. 40), parodiando un nobile verso virgiliano (Aen. 1,282 Romanos, rerum dominos gentemque togatam). Gli diede invece soddisfazione il console Pisone (Plut. apoph.Aug. 15), che costruiva alacremente la sua nuova casa: Augusto gli disse infatti “Tu mi rendi lieto costruendo così, come se Roma fosse destinata all’eternità” (con un’altra probabile allusione semiseria, ma positiva, al passo dell’Eneide in cui si augura ai Romani un potere senza fine al v. 1,279 imperium sine fine dedi), compiaciuto del fatto di aver posto le premesse concrete perché questo destino si avverasse davvero.
Il gusto per la battuta di spirito lo accompagnò fino all’ultimo: raccontano (Suet. Aug. 99,1 s.) che in punto di morte, dopo essersi fatto acconciare, chiamò gli amici chiedendo loro se avesse “recitato bene la commedia della vita” (amicos percontatus ecquid iis videretur mimum vitae commode transegisse), aggiungendo in greco la chiusura tipica delle commedie: “se dunque va bene, fate un applauso alla commedia e accompagnateci tutti con gioia!”
Le facezie e gli aneddoti augustei mostrano dunque le varie sfaccettature della complessa personalità di Ottavianoin una compresenza di gravitas ed umorismo, di severità ed indulgenza, che ne offre un ritratto per certi aspetti contraddittorio o “paradossale” (per usare una definizione coniata per descrivere personaggi storici divisi tra vizi e virtù) nel contrasto di sentimenti e comportamenti legati alla mutevole situazione politica e personale, al ruolo di erede di Cesare prima, e di Augusto poi. Quando prevalse il suo lato arguto e si manifestò il suo Italum acetum, egli fu consapevole che l’umorismo fosse anche un possibile instrumentum regni, utile per governare in pace e con popolarità, ma sempre – come sottolineavano già gli antichi (Macr. Sat. 2,4,1 s.) – con senso della misura, nella volontà di conservare il rispetto della propria dignità e del decoro, evitando il ridicolo ed offrendo un apprezzabile esempio anche in questo campo. Questo suo lato umano, ironico e sorridente, ha effettivamente contribuito, assieme ai molti successi politici e meriti culturali, a conservarne un ricordo positivo, di stima e simpatia, presso i posteri fino ai giorni nostri.
La prima raccolta dei motti di spirito e detti famosi di Augusto, tratti dalle citazioni di autori latini e greci, è opera di E. Malcovati in Imperatoris Caesaris Augusti operum fragmenta, Torino 1969. L’edizione italiana più recente è in L. De Biasi – A.M. Ferrero, Gli atti incompiuti e i frammenti delle opere di Cesare Augusto Imperatore, Torino 2003, pp. 575-653 (Caesaris Augusti dicta et apophthegmata). La biografia di Svetonio (Vita divi Augusti) contiene alcuni ulteriori aneddoti.