Esiste nell’Italia delle tradizioni popolari una sola maschera autentica, un solo personaggio, un solo vero protagonista: ed è quella figura di trickster semiserio, di araldo indecifrabile, di messaggero ieratico che da sempre assolve, da solo o in piccola schiera, al compito di aprire il corteo carnevalesco, cioè di annunciare e dare la stura al carnevale. Questa maschera si chiama «pulcinella» al sud, «arlecchino» al nord, e qualche volta «zanni» al centro, per esempio nell’Appennino marchigiano, a Pozza e Umito di Acquasanta Terme sulle pendici dei monti Sibillini in provincia di Ascoli Piceno. Al di là di quanto comunemente si crede, arlecchino e pulcinella sono quindi la stessa persona, poi evolutasi e trasformatasi all’interno di culture macroregionali diverse.
Figura icastica, liminale, senza tempo, questo personaggio si situa sul confine che separa, nella rappresentazione carnevalesca, la dimensione comica da quella cerimoniale: ed è proprio su quel confine eternamente conteso che, in quel che segue, andremo a cercarlo.
Raccogliamo pertanto le indicazioni che ci segnalano qua e là nell’Abruzzo citeriore, l’Abruzzo «napoletano», tutta una serie di personaggi della tradizione carnevalesca che, pur dissimili in quasi tutto dall’icona classica del Pulcinella partenopeo, nondimeno si chiamano a pieno buon diritto «pulcinella» (cfr. GANDOLFI 2011, pp. 263-278), per esempio i pulgenelle di Castiglione Messer Marino, in provincia di Chieti: biancovestiti, ornati di nappe di fili di lana e pompon colorati, e dotati di un alto cappello a cono (a Castiglione, alto in maniera smodata…), a sua volta arricchito da lunghe code di nastri colorati. Opportunamente armati di uno scudiscio, i pulgenelle precedono con una corsa a piccoli passi molto trattenuta e formale l’incedere del corteo delle maschere, che segue di lì a presso. È la stessa funzione, quella di un prologo senza parole, ieratico, cerimoniale, semimagico, tintinnante di campanellini, che a nord della linea gotica è svolta dai lachè o arlechini (è la stessa parola!), che ne adempiono l’ufficio, sempre a saltelli, a partire da un costume dotato dei medesimi connotati simbolici: il prevalente biancore del vestito, il cappello a cono, i nastri colorati, i campanelli, il batocio…
Si tratta, senza dubbio alcuno, degli ultimi eredi di una tradizione di religiosità confraternale pagana – i Fratelli Arvali, i Salii – che presiedono fin dai tempi della Roma arcaica alla periodica risantificazione dei campi, con gli ambarvalia, e popolano i riti calendariali di buon auspicio, legati al culto del Marte agrario. Degli Arvali, arlecchini e pulcinella hanno infatti la livrea candida, il cappello a cono e il bastone, e dei Salii, hanno l’andatura saltellante.
Le altre maschere del nostro carnevale, a ben guardare, sono infatti semplici caricature di mestiere, ossimori un po’ sbiaditi di un mondo alla rovescia, di una commedia umana a testa in giù: Balanzone, l’avvocato presuntuoso che non capisce niente; Pantalone, il ricco avaro e straccione; Fracassa, il veterano vanaglorioso e imbelle… Oppure, sono semplici parodie del giovanotto azzimato ma povero in canna, del villan rifatto, che risponde a seconda dei luoghi al nome di Rugantino, Stenterello, Meneghino, Gianduia e tanti altri, quale emblemi viventi di una irredimibile condizione plebea: maschere «sociali», personaggi da burla, oggetti e a loro volta interpreti di una satira popolaresca di grana piuttosto grossa. E così, in tutto il variopinto codazzo delle maschere, rimane il solo trickster biancovestito, sia esso Arlecchino o Pulcinella, a non essere caricatura di nulla, assomigliando solo a se stesso, quale personaggio a sé stante, originale, autonomo, senza tempo, senza contesto, unico autore e contemporaneamente interprete di se medesimo.
È stato il grande folklorista spagnolo Julio Caro Baroja (cfr. BAROJA 1989, pp. 27-29; 144) a definire bene la caratteristica principale del carnevale italiano: quella di aver saputo, a un certo punto della propria evoluzione, trasformare le sue maschere in «personaggi», cioè in individui parlanti, che interloquiscono con altri sulla scena, entrando di diritto, con la commedia dell’arte, nello svolgimento di un dramma. In Spagna, questo non è successo: là, le figure rituali – cioè la serie senza fine degli joaldunak, tafarrones, peliqueiros, cencerrones delle mascherate di capodanno, dell’entroido, del carnevale – che riappaiono anno per anno sempre uguali a se stesse, sono rimaste intrappolate, mute e ieratiche, nel proprio ruolo senza tempo. Da noi invece, da un certo punto in poi, in un mondo di cantimpanca e di poeti estemporanei, di maggi drammatici, di attori girovaghi, di libri che viaggiano di qua e di là – l’universo plebeo che fa da sfondo al trionfo rinascimentale dei carnevali cittadini – le antiche figure del rito d’un tratto iniziano a parlare e ad assumere un carattere proprio.
Paradigmatica, in questo, la vicenda di Arlecchino. Figura emblematica delle mascherate augurali di tutta l’Italia continentale, l’arlechino o lachè è la figura ieratica che, dalle Langhe all’Appennino modenese alle valli cadorine, introduce il carnevale. Ma è in qualche palazzo veneziano che l’arlechino compie la sua definitiva metamorfosi in Arlecchino: così, il famiglio furbastro, sceso con la sua antica livrea dalle montagne sull’onda di piena della migrazione di manodopera minuta verso la capitale dal bordo occidentale dello stato (facchini, scaricatori, servi di casa …), diviene il punto di riferimento obbligato della nascente commedia borghese: il confidente cui nulla si può tacere, il complice, il perno stesso di un’azione drammatica fatta soprattutto di scambi di persona e di improvvise agnizioni. E così è, per Pulcinella, la stessa storia: Pulcinella Cetrulo da Acerra, anche lui un inurbato, un proletario, è la metamorfosi di un antico arvale nella sua frusta livrea, divenuto il depositario naturale di una saggezza popolare senza tempo, factotum, trickster, genio burlone.
Ma questa trasformazione delle antiche maschere nei protagonisti propri di una nuova cultura drammaturgica avviene a Napoli, a Venezia, a Roma o anche a Parigi, cioè nei luoghi della commedia dell’arte. In periferia, in tanti paesini abbarbicati alla montagna, l’arlechino è rimasto l’antico arvale di sempre, l’officiante del rito annuale di buon augurio: e così anche il pulcinella, suo cugino primo, è ancora uguale a se stesso in tante piccole località remote degli Abruzzi dove ancor oggi, con un po’ di buona volontà, possiamo andare a cercarlo.
Eccoci dunque a Castiglione Messer Marino, così chiamato in onore del suo feudatario quattrocentesco, messer Marino Caracciolo. Il paese si trova in montagna, a 1000 metri, nel cuore dell’Abruzzo citeriore, e cioè al di qua (guardando da Napoli) del fiume Pescara, nell’odierna provincia di Chieti, ai confini con quella di Isernia: e qui saremmo veramente nel cuore dell’Italia, intonso nonché orbitante in una silenziosa galassia sua propria, equidistante dai due mari, dal nord e dal sud, dai paesaggi patinati del turismo e dalle devastazioni urbanistiche di ogni dove, non fosse per l’obbrobrio delle pale eoliche che, chissà con quale ragione, sono venute a portare fin quassù, con il loro ronzio, il respiro del secol nostro.
Ci portiamo dunque alle nove di mattina presso la frazione Padulo, a un chilometro o poco più dal paese, dove la mascra o «maschera», la mascherata che si tiene per carnevale, si è data convegno e ci accingiamo dunque a seguire il corteo per tutto l’arco di una giornata che si annuncia impegnativa. Anche qui, come altrove, si suppone infatti che le maschere procedano da un fuori verso un dentro, dalla campagna verso il paese e, laddove possibile, dall’alto verso il basso. A Padulo, un piccolo agglomerato di case poco al di sotto della strada che va in Molise, c’è infatti l’ammassamento delle maschere, e la prima distribuzione di cibo – frittelle, vino, affettati – offerto dai residenti con una certa liberalità. È questo il secondo anno della ripresa della mascherata dopo una lite intestina durata circa dieci anni, che nel 2003 ne aveva consigliato la sospensione dopo una lunga stagione continua di revival iniziata nel 1948, e quindi la voglia di far bene è oggi palese, e si percepisce ovunque.
Girellando tra i figuranti possiamo familiarizzarci con quelli che saranno i protagonisti della giornata. Motivo principale di attrazione da queste parti per il carnevologo ormai inveterato, è l’avvistamento, in occasione della mascra dei pulgenelle, con la loro classica livrea bianca ornata di pompon colorati, stretta da un cinturone e una tracolla di cuoio carichi di campanelli in bronzo di varie dimensioni. Prodotti in Molise, e dunque non lontano, dalla Pontificia fonderia di Agnone che ha importanti commesse nella Svizzera, questi campanelli spesso recano un po’ paradossalmente lo stesso stemma crociato elvetico che abbiamo visto alla cintola delle maschere a Schignano sul lago di Como e a Valfloriana nel Trentino. In virtù del portamento e dell’aura semimarziale che li contraddistingue, i pulgenelle sono dei semplici araldi della mascherata, una guardia civica fantasiosa ma di per sé tutt’altro che buffonesca, così come visto altrove, in tantissime occasioni, da Saint-Oyen in Valle d’Aosta, a Dosoledo nel Comelico, a Benedello sull’Appennino modenese, nel ruolo loro proprio di maschere guida un po’ banditori e un po’ guardie regie o vigili in alta, forsennata uniforme. E, in considerazione di questa responsabilità, si direbbe che questi personaggi si siano industriati a rendere il più imponente possibile il proprio cimiero conico di canna e carta colorata, che qui si eleva con le sue varie decorazioni più di un metro sopra la testa del figurante. Si tratta, in effetti, di un copricapo monumentale, un tempo costruito su un’intelaiatura di canna spaccata, oggi ampiamente rinforzata con staffe e filo di ferro per sostenere le importanti elaborazioni che si dipartono dal cimale del cono: una grande corona, un gallo, un’aquila in volo, un pavone, addirittura un pulgenella in miniatura, che ricorda lo stesso procedimento di mise-en-abîme visto sui copricapo a torta degli Schöne di Urnäsch del cantone svizzero di Appenzell. Ma c’è di più, in considerazione del suo peso elevato, il cappello non è più sostenuto dal sottogola, come sarebbe lecito attendersi, ma viene sorretto da un’apposita imbastitura che, facendo perno su una staffa metallica collocata dietro la nuca, occultata dal lungo pennacchio e dal camicione bianco, poggia direttamente sulle spalle e sulla schiena del figurante. A completare la figura del pulgenella è lo scrujazze, il lungo frustino da bovaro, ornato in cima da tre pompon di lana colorata, come quelli del costume, e armato con una corda ritorta, che entra da protagonista nelle elaborate coreografie cui i pulgenelle danno vita durante il percorso.
Accanto ai pulgenelle adulti, con il loro decano settantenne e gli altri più giovani a scalare fino ai venticinque anni, ci sono anche qui dei pulgenelle bambini, piuttosto impacciati sotto il cappellone, segno specifico di una tradizione che è uscita dalle catacombe dell’«altra cultura» per diventare tutt’uno con l’ufficialità della pedagogia paesana dell’oratorio e della scuola.
Lasciamo per un momento i pulgenelle, e girelliamo un po’ a caso tra le altre figure mascherate di questo assembramento mattutino fuori le mura: una congrega felliniana molto fervorosa, in cui si aggirano come se niente fosse due travestiti tutti rosa; due carcerati con il loro vestito a strisce; una coppia di pastori avvolti in antichi tabarri scuri di famiglia indossati su pantaloni e camicie tirolesi; una squadra di meccanici in maglia gialla e tuta blu con la faccia pure dipinta di giallo; una giovane inserita in un pacco dono avvolto in carta rossa dal quale spuntano testa braccia e gambe, che si accompagna a una ragazzaccia tutta in nero con un paio di occhialoni giganti color fucsia; Topolino e Minnie; una Biancaneve in drag con i suoi Sette nani; un clown; un finto prete con la procace perpetua; alcuni arabi; delle ballerine in drag con la gonna rossa; un tamburino vestito di rosso che suona di continuo; un frate da cerca con il cappuccio del saio calato sugli occhi; un «Capitan Barbò» in divisa da ufficiale sovietico. C’è un tale con giacchetta da meccanico, un casco rosso a cui sono assicurati due flaconi trasparenti pieni di vino, da cui al bisogno si può attingere con un’apposita cannuccia, e il cartello «SE IL VINO VI FA MALE L’UVA MANGIATEVELA A CHICCHI»: un marziano. Poi c’è «Rocco», cioè Rocco Siffredi, che qui però del longilineo pornoattore reca soltanto il nome, evocato a gran voce di continuo da uno speaker già in piena azione. Si tratta infatti di una specie di clown imparruccato e cicciottello – «VIOLINISTA STRAWINSKI – U GARGANETT’IN FESTA», gli si legge sul dietro della giacca – che ha in mano una lunga zucca spudoratamente fallica, trasformata in una specie di olifante monocorde da suonare all’occasione. Rocco-Strawinski porta a tracolla una cassetta con scritto «NON FIORI MA OPERE DI PENE (sic)», con la quale raccoglie un po’ pigramente qualche offerta, non si capisce bene per chi o per cosa. In mezzo al gruppo si aggira Carnevale stesso, un giovanotto dall’esagerata eleganza militaresca con un frac nero, spalline e alamari d’argento, feluca in testa, papillon, stivali e bastone da passeggio. Al suo fianco, a completare la coppia eletta sotto un ombrellino nero, è Clorinda, «incinta», come tiene a precisare lui fin da subito, toccandole soddisfatto il pancione (si tratta naturalmente di un maschio: nella mascra di Castiglione, salvo l’eccezione delle due ragazzacce e dei nani al seguito di Biancaneve, praticamente non compaiono femmine).
Esaurita la festosità del momento inaugurale, debitamente amplificata da uno speaker con un cappello a cilindro come un personaggio di Lewis Carroll, che ci seguirà tutto il giorno, ecco formarsi il corteo.
Davanti a tutti, guidati dal pulgenella senior, trotterellano i pulgenelle piccoli, che fanno tenerezza, formando una sorta di codazzo di piccoli apprendisti. Quindi sfilano i pulgenelle adulti, che impostano e talora controllano l’andamento del corteo, e, a seguire, portato da alcuni ragazzi, un grande lenzuolo con una scritta come quelli del tifo calcistico che recita «AHI MAMMÀ, C’TÈ PAPÀ?», slogan piuttosto sibillino che troveremo ripetuto sui carri, sul manifesto ufficiale, e un po’ ovunque. Ma che cosa vuol dire? «Mammà, che tiene papà?» cioè «che cos’ha, papà?». Su questo punto, l’opinione degli stessi abruzzesi non è univoca, ma un po’ alla volta la verità viene fuori. Infatti, a quanto pare, nell’historiola di riferimento, è una figlia che parla, sorpresa e disperata del ritrovarsi ancora una volta la propria madre incinta. L’allusione di «C’TE» («cosa tiene, che cos’ha») è quindi direttamente rivolta all’attributo maschile e al suo potere generativo, metaforizzato nella sua forma più cruda, così come lo vediamo oscenamente esibito da «Rocco» in testa alla parata. Sotto tale egida – AHI MAMMÀ, C’TÈ PAPÀ? – il senso ultimo della parata, al di là di ogni apparenza, può dunque sintetizzarsi sotto le specie di una gigantesca, sfacciata falloforia, una celebrazione spudorata del simbolo stesso di una virilità rampante, indisciplinata e comica che, almeno per un giorno, qui la fa da padrona.
Dietro al lenzuolo con lo slogan così criptico, sono tutte le maschere più o meno sbandate, i due pastori intabarrati, Topolino e Minnie, i trans vestiti di rosa, Carnevale e Clorinda, la ragazza nel pacco dono, il finto prete con la sua avvenente perpetua in drag, uno che porta il cartello «È RNUTA L’ORA D’I A ZZAPÀ LA TERRA», che in questo contesto, chissà poi cosa vuol dire. C’è il marziano con i due flaconi di vino sull’elmetto, l’immancabile «Rocco» con la sua zucca lunga, dritta e peggio che oscena, gli operai giallo-blu, e tutta la festosa brigata. Anche qui, in qualche modo, vediamo che l’originario scansionamento strutturale della mascherata, lo stesso che si riscontra infinite volte dai Balcani alla penisola iberica, è perfettamente rispettato: in apertura c’è una mascherata «bella», con i suoi personaggi rituali di riferimento, che sono «maschere guida», cioè i pulgenelle, al centro c’è una la coppia eletta, che qui sono Carnevale e Clorinda, e a seguire, in coda, una «mascherata brutta», il caravanserraglio dei personaggi coloriti, burleschi, fantasiosi, osceni, esagerati, che cambiano anno per anno. Precisamente la stessa struttura osservata a Ituren e Zubieta in Navarra, a Dosoledo nel Comelico superiore, a Nassereith nel Tirolo austriaco, a Chelnik nella Tracia bulgara e in tantissimi altri luoghi.
Ecco infatti una parata di carri, vecchi autocarri o trabiccoli addobbati a tema, ciascuno con una sua ciurma di benandanti, un suo titolo o uno slogan di riferimento. Per prima, c’è una macchina coperta di masserizia, come quella di un miserabile trasloco contadino: sul tetto della macchina, legati alla meglio, sono un divano bianco, grandi corna bovine, antenne paraboliche, un televisore, e la scritta «CARICA CORNA E BAGAGLI E SI PARTE». A rimorchio della macchina, in spregio a qualsiasi codice della strada, sono due vagoncini sgangherati, uno dietro l’altro, che aprono ciascuno sul lato sinistro una specie di piccolo palcoscenico: il primo denominato «DJ TEAM», con due organetti e una fisarmonica, e il secondo con un orchestrina più blasé detta «L’SOR CUGIN DI CAMBAGNA». Segue una finta camionetta dell’esercito, con militari in mimetica armati di certi bazooka in grado di sparare bombe di coriandoli (sono dei segmenti di tubo idraulico verde collegati a un compressorino); Biancaneve e i Sette nani; il «Moulin Rouge» su un trattorino tutto rosso; «2015 Expo Castiglione» con il suo Padiglione 96, completo di orecchie di porco e frattaglie varie appese; e per finire Allah a Lù Bhar («Andare al Bar» in luogo di «Allah Akhbar»…), con tanto di kebab che gira sullo spiedo verticale e altre amenità, una specie di parodia sempliciotta e piuttosto gratuita della minaccia islamica.
In questa formazione, il corteo giunge nel grande slargo ai piedi del paese, una piazza nuova di impronta novecentesca, di quelle con il monumento ai caduti, così come ne sono state costruite alle porte di quasi tutti i paesi d’Italia. Qui, da parte dei pulgenelle c’è una vera e propria presa di posizione: richiamati dal suono di un trombetto, si dispongono in un ampio cerchio, come sentinelle. All’interno del cerchio, sfilano per primi i figuranti in coppia: Carnevale e la Clorinda incinta, i due pastori con il tabarro, Topolino e Minnie, due donnacce con un finto prete, Rocco, certe damine veneziane molto leziose, i trans in rosa, il Capitan Barbò con il suo colbacco, un «vero» Pulcinella napoletano con la sua maschera nera e lustra, il marziano con il vino sul casco, i carcerati, Biancaneve e i Sette nani, i militari con i bazooka, le ballerine in drag del Moulin Rouge, e a coppie gli altri. Poi entrano sulla piazza i mezzi motorizzati, che si dispongono all’intorno, come in un accampamento indiano.
Quando tutti sono a posto, e si è assiepato un po’ di pubblico – saranno forse le 11 di mattina – ha inizio, introdotta dal ballo dei soli piccoli, una sequenza importante di balli in tondo dei pulgenelle che fanno toccare le punte delle scrujazze. In questo momento, il ballo dei pulgenelle ha certamente la funzione di inaugurare il contesto magico dell’azione scenica a seguire, e cioè, per il tramite di una danza che, passo dopo passo, descrive ed evoca la circolarità di un cosmo, opera la trasformazione del mondo reale nel mondo incantato e fantasioso, dove tutto è possibile, che sarà la scena propria della mascherata.
Finita l’esibizione dei pulgenelle sulla piazza si è fatto il vuoto, ma dura poco. Un colpo forse di cannone annuncia l’arrivo degli jihadisti di Allah a Lù Bhar, con il viso coperto dalla kefiah e gli occhiali scuri, che invadono la piazza con dei fumogeni rosa e sparando all’impazzata con le mitragliette giocattolo, mentre gli altoparlanti diffondono musica araba. Sulla schiena, leggiamo ancora i loro nomi di battaglia: Amir stu Salam («Ammira sto salame»), Pass sta Khan («Passa sta canna»), Nabbir al Bhar («Una birra al bar»), e via dicendo. Nel frangente, lo speaker racconta al pubblico un sacco di frottole: che la mascherata deve essere dentro l’attualità anche se dolorosa, e che questo è un modo di celebrare la pace nel mondo e l’amicizia tra i popoli. In realtà, la fantasia arabizzante, ispirata al dileggio più pretto, è da sempre un punto fermo della mascherata un po’ ovunque – ne abbiamo avuto saggi convincenti a Sampeyre in Piemonte come a Thaur in Austria e a Vevčani in Macedonia – e il vestirsi da arabi è comunque una delle più facili gaglioffate con la quale in qualsiasi parte del mondo si riesce ad assolvere senza tanti patemi al dilemma del cosa mettersi per carnevale. Ma al di là delle buone intenzioni dello speaker, l’intento denigratorio di queste fantasie islamofobe è ben chiaro a tutti tanto che, a pochi giorni dalla strage parigina di Charlie Hebdo, l’idea che qualcuno possa risentirsi e venire a mettere una bomba vera anche quassù bene o male serpeggia, e mette un po’ a disagio, nonostante gli applausi un po’ sforzati che chiudono l’esibizione.
Manca ormai poco a mezzogiorno, e il corteo si rimette in moto, su per la rampa che porta fino alla sommità del paese vecchio. Qui gli autocarri vengono parcheggiati, i figuranti scendono, e si prosegue a piedi, perché mai più le stradine del centro sarebbero percorribili in macchina, laddove è previsto che ciascun carro, con il suo equipaggio di entusiasti, avrà nel corso della giornata il suo momento di gloria in uno degli slarghi del centro storico. Si giunge infatti a un primo slargo, una specie di grande terrazza affacciata sulla valle dove è in distribuzione una montagna di panini imbottiti, con la ventricina e con la mortadella. Così, assistiamo all’esibizione del DJ TEAM, quello dei due organetti e la fisa, che si sono sistemati sul pianale di un carro fatto arrivare chissà come, e un’esilarante sequela di barzellette. Poi è la volta delle finte ragazze del Moulin Rouge, con l’immancabile can can. Compaiono due personaggi in tuta arancione, uno ha sulla faccia la fotografia di Berlusconi e l’altro quella di Renzi, che si intrattengono con le ragazze, parlando in falsetto e allungando le mani, davanti e dietro: lepidezze e oscenità.
Si prosegue alla volta di una piazza lunga e stretta, la principale della parte alta del centro storico. Anche qui, è stato predisposto un autocarro messo di traverso, con il lungo pianale senza sponde, che farà da palcoscenico, proprio come avveniva per carnevale un po’ ovunque fino a non molti anni fa. Sul pianale, si susseguono uno sketch di parodia ginnica «SE IO NON FOSSI», cui partecipano le tre ragazzacce con altri tre personaggi assortiti, un intermezzo di barzellette piuttosto spinte del nostro ineffabile Strawinski con il vino sull’elmetto, e per finire «Biancaneve e i Sette nani», una lunga parodia in drag dell’arcinota fiaba disneyana, che è purtroppo doppiamente incomprensibile, perché parlata nella lingua locale, e perché i microfoni non funzionano, sfrigolano e scoppiettano, e non si sente niente.
Ma almeno una delle barzellette merita di essere riportata. Ci sono due sposini che vanno a un «cinema sexy». Nel buio, sentono ansimare e guaire qualcuno alle loro spalle, e naturalmente pensano al peggio. Dopo svariate ingiunzioni di tacere, lo sposino decide di andare a chiamare la maschera, che apostrofa l’importuno gemente, chiedendogli di esibire il biglietto. «Per prima cosa – gli dice, in mancanza di altri argomenti – questo è un biglietto di galleria, e lei doveva stare in galleria». E l’altro: «Ma infatti è lì che stavo! È che sono cascato giù!».
Appena dissipata l’ilarità delle barzellette, ecco che Allah a Lù Bhar ripete per la seconda volta il suo attacco a suon di fumogeni rosa. Per concludere, al suono delle casse amplificate, un gran ballo in piazza, di tutti con tutti.
È l’ora del pranzo, e a tutti è offerta una buona pasta fumante con lo stesso sugo delle sagne che si mangeranno a tarda sera: salsiccia, guanciale e paprica rossa dolce, praticamente lo stesso impasto della ventricina, un cibo che ha in sé, per la gente del luogo, qualcosa di ineffabilmente carnevalesco.
C’è un attimo di sosta, con un bicchiere di vino freddo e nero tra le mani, e si riparte subito, al seguito dei pulgenelle scampananti e festanti, giù per le viuzze del paese strettissimo. C’è poi una terza sosta in una piazzetta, e una quarta, dove vediamo esibirsi uno alla volta i gruppi dei carri.
Finalmente, arriviamo a una piccola piazza della parte bassa del paese, anche questa affacciata come un balcone sulla valle immensa sottostante. Vi si accede anche da un grande scaleo che può fungere da anfiteatro per il pubblico. Sul fondo della piazza è stato sistemato il solito autocarro dove si terrà, sempre a cura del gruppo DJ TEAM e del suo indefettibile barzellettiere, la rappresentazione in vernacolo più impegnativa della giornata: L’oca è mia. La trama è semplice, ma del tutto esilarante. In una famiglia poverissima, un ragazzo viene mandato dalla mamma a vendere l’oca di casa. Il ragazzo si reca allora a casa di una vicina, proponendole l’acquisto. Mentre la contrattazione è in corso, bussa alla porta l’amante della donna, niun’altri che il parroco. In tutta fretta, il ragazzo con la sua oca viene fatto accomodare nel seno di un capiente armadio buio ma, mentre il parroco ha già iniziato i suoi armeggi con il pettorale della signora, ecco arrivare il marito della donna: giocoforza, anche il parroco viene fatto accomodare nell’armadio, dove si ritrova al buio, in compagnia del ragazzo e dell’oca. Quando il marito se ne va, sgattaiolano fuori dall’armadio prima il parroco e poi il ragazzo che, a quel punto, riuscirà a vendere senza troppe difficoltà l’oca alla signora, che compra così il suo silenzio. Ma sulla via di casa il ragazzo ha un ripensamento: non può sopportare che la sua oca venga messa in pentola, e torna dalla signora per farsela restituire. Piange e strepita tanto che l’oca gli viene riconsegnata. La mamma tuttavia, vedendolo così ritornare a casa tutto contento, con i soldi e l’oca, ritiene che il ragazzo abbia truffato o derubato qualcuno, e gli ordina di andare immediatamente a confessarsi. E qui c’è il colpo di scena: nel confessionale il prete riconosce ragazzo e oca come quelli dell’armadio e, vistosi scoperto, tra le risate generali, li caccia via con un urlo.
Segue, sulla piazzetta, al suono degli organetti del DJ TEAM l’esecuzione della zumbarella, una variante del saltarello (zompo = salto) recuperata con una certa attenzione filologica: non sufficiente, tuttavia, a trattenere le ire degli autorevoli etnocoreuti appositamente convenuti a Castiglione da Pescara e Firenze, che si aspettavano ben altro e giudicano l’esibizione annacquata, oratoriale, insipida. Contestano, fra l’altro, che un ballo di pertinenza rituale propria dei pulgenelle possa essere stato eseguito da figuranti qualsiasi, Sette nani e ballerine in drag.
Si scende ancora, con il gruppone sempre appiedato, i pulgenelle saltellanti per primi, e poi tutto il corteo, che dà ormai qualche segno di stanchezza. In uno slargo presso il limite più basso del paese, a cura dei residenti del luogo, viene offerta ancora una merenda di frittelle. A un certo punto, c’è un improvviso assieparsi di gente, e si sentono delle urla: è Clorinda sdraiata per terra, sta partorendo! Nasce così un piccolo bambolotto, Carnevaletto, per la gioia di papà Carnevale, che si mette subito in posa, con la Clorinda e il piccolo, un bel gruppo di famiglia.
Questa nascita, come è giusto che sia, chiude il ciclo: e così, la falloforia trionfante, la vicenda iniziata al mattino con lo stupore scandalizzato della figlia davanti alla mamma incinta, AHI MAMMÀ, C’TÈ PAPÀ?, arriva alla sua più logica e più fausta conclusione, che è anche quella della giornata. Ancora pochi passi e il gruppone ormai mezzo sbandato riguadagna il vialone alla base del paese, contiguo alla piazza grande di questa mattina: sembra trascorso un secolo. È ormai quasi l’imbrunire, perché siamo ancora in pieno inverno, e fa anche freddo. Contro il cielo ancora chiaro, partono i fuochi d’artificio, che suggellano la giornata. La mascra è finita, andate in pace.
Salutiamo lo speaker, e uno dei pulgenelle, che ormai sono vecchi amici.
Appuntamento per tutti, dopo la doccia, tra due o tre ore in una sala comunale al coperto, per la mangiata finale di sagne a lu cuttéure, pescate direttamente con le mani da un grande caldaio di rame, una specie di grande comunione intensa, saporita e burlesca.
Da sempre, gli studiosi del carnevale, carnevologi o carnevalisti che dir si voglia, si possono dividere in due partiti: quelli a cui piace la burla, il «mondo alla rovescia», la gazzarra dei coriandoli, i falli di plastica che spuntano da tutte le parti, la maschera di Berlusconi messa alla gogna, il fiume di comicità più o meno grossolana che nel carnevale sembra sgorgare da ogni dove, e quelli che rincorrono le figure rituali d’esordio, gli scampanatori e i danzerini sempre uguali, solenni, misteriosi e compassati, dietro a cui intravedono chissà quali profondità etnologiche. Caposquadra del primo gruppo è il controverso campione del formalismo sovietico Michail Bachtin, e del secondo è invece il più antiquato baronetto scozzese sir James Frazer. Sta di fatto, tuttavia, che qualsiasi mascherata carnevalesca mescola le due componenti – quella estemporanea della burla e quella cerimoniale del rituale arcaico, quella comica e quella sacrale – in proporzioni assai diverse, laddove oggi pare di assistere un po’ ovunque, nel carnevale, al graduale recedere della componente rituale in favore dell’avanzata inesorabile di un umorismo preconfezionato di ispirazione telecinematografica, con qualche sguaiataggine di tette finte e di lustrini a contorno. In questa situazione avversa, davvero intenerisce il rigore talebano con cui, in tante situazioni locali, piccoli manipoli di etnografi si lanciano al salvataggio di personaggi rituali ormai istradati sul viale del tramonto, incalzati dalle casse che sparano a palla, dall’immaginario disneyano, e dall’umorismo più pecoreccio.
Anche a Castiglione Messer Marino, non si potrà fare a meno di constatare che i preziosi, ancestrali pulgenelle hanno ben poco da fare tranne il trotterellare davanti alla mascherata dandosi un po’ di arie, improvvisando di quando in quando, ma senza grandissima lena, almeno qualche passo di un piccolo numero di danze rituali in tondo, sul genere della discussa zumbarella, mentre la loro funzione più o meno ipotetica di «polizia» della mascherata appare quasi del tutto onorifica, fatto salvo l’impegno occasionale dell’aprirsi un varco nella folla usando i lunghi scudisci a mo’ di transenne. Così, chi debba capitare a Castiglione per assistere alle arcane evoluzioni coreografiche dei pulgenelle, si troverà invece catapultato nel contesto esagerato e caciarone di una sagra mascherata la cui finalità specifica è semplicemente quella di traghettare nel paese le scenette preconizzate dai carri a tema, laddove è proprio nella sovversione dello spazio urbano ai fini specifici di queste rappresentazioni, con la loro conseguente ventata di anarchia e di ilarità, che il carnevale si rivela in tutta la sua potenza.
In realtà la mascra si fonda su un equilibrio perfetto tra componente rituale e componente burlesca, secondo i modi di una teatralità ruspante caduta in disuso quasi ovunque, e che qui mantiene invece intatto il suo elementare richiamo. Quindi, a Castiglione Messer Marino la partita tra Bachtiniani e Frazeriani, iniziata con questi ultimi in netto vantaggio, farà invece segnare un punto ai Bachtiniani, e dovrà concludersi, io credo, in parità: stante la soddisfazione, per il Frazeriano impenitente, di avere individuato con certezza nella figura del pulgenella quel fossile vivente, quell’anello mancante che ci permette di risalire la corrente, oltre la metamorfosi rinascimentale delle antiche maschere in personaggi da commedia, e permette così di guardare oltre il Pulcinella storico, e di cominciare a ricostruirne il percorso sulla scia degli antichi arvali, nella genesi del rito mascherato, fino alle profondità vertiginose della protostoria.
CARO BAROJA J. (1989), El carnaval, Madrid, Taurus, 1965; trad. it. Il carnevale, Genova, Il melangolo, 1989
GANDOLFI A. (2011), «Zanni e Pulcinella nelle carnevalate dell’Appennino centro-meridionale», in G. KEZICH, A. MOTT (a cura di), Carnival King of Europe / Carnevale re d’Europa (2007-2009). Potere, ritualità e i popoli senza storia. Giornate di studio in onore di Eric R. Wolf (1923-1999), nel decennale della scomparsa, San Michele all’Adige, MUCGT
Polegenelle in marcia, davanti al carnevale. Castiglione Messer Marino, provincia di Chieti, domenica 15 febbraio 2015. Foto di Antonella Mott / Archivio Carnival King of Europe – Museo degli Usi e Costumi della Gente Trentina
1 Proponiamo qui le note di ricerca ancora inedite raccolte a Castiglione Messer Marino in occasione della mascherata di carnevale di domenica 15 febbraio 2015. Metodo di lavoro e rendering narrativo sono gli stessi impiegati nel mio G. KEZICH, Carnevale re d’Europa. Viaggio antropologico nelle mascherate d’inverno. Diavolerî, giri di questua, riti augurali, pagliacciate, Scarmagno, Priuli & Verlucca, 2015, 543 p., ill., al quale rimandiamo senz’altro per approfondimenti.