Kasia von Szadurska, Ritratto di Fritz Mauthner (1916)
Wenn Blaubeeren grün sind, sind sie rot.
Nel 1910, anno di pubblicazione del Wörterbuch der Philosophie, Fritz Mauthner era già piuttosto famoso: i tre volumi del Dizionario infatti recano come sottotitolo: Neue Beiträge zu einer Kritik der Sprache (nuovi saggi di critica del linguaggio) e ‘nuovi’ vuole ricordare gli altri tre grossi volumi di critica, usciti tra il 1901 e il 1902 presso l’editore Cotta di Berlino, quando egli aveva sorpreso il pubblico, lettore delle sue parodie, dei suoi racconti e dei suoi scritti giornalistici, con quest’opera monumentale, scritta di notte, quasi in segreto, stimolato dal confronto con un giovane scrittore anarchico, Gustav Landauer. Lo scambio di idee avveniva per lettera. Mauthner non era affatto un anarchico: lui era un ammiratore di Bismarck, un fautore dell’assimilazione ebraica, con una vena di nazionalismo germanico e la mediazione della scrittura riusciva a evitare il confronto verbale diretto (DEFT 1994, p. XIV).
Mauthner in effetti era un ebreo perfettamente assimilato nella Berlino dell’inizio secolo: questo signore altissimo e magro, con naso adunco e una lunga barba, che lo faceva somigliare a un antico profeta, era al centro della vita culturale della città e conosceva gli intellettuali più in vista: tra le sue relazioni personali possiamo citare, tra gli altri, Lou Andreas-Salomé, Else Lasker-Schüler, Theodor Fontane, Maximilian Harden, Theodor Mommsen, Walter Rathenau e Franz Oppenheimer. Anche sul piano personale questo primo periodo berlinese appare sereno, segnato dal matrimonio con Jenny Ehrenberg e dalla nascita della sua unica figlia.
Per comprendere però la collocazione politica e le scelte filosofiche di Mauthner dobbiamo risalire più indietro, al periodo della sua formazione culturale, come ci suggerisce egli stesso nelle Erinnerungen (MAUTHNER 1918, un’autobiografia intellettuale iniziata nel 1913, ma pubblicata dopo la guerra, nel 1918, cfr. KÜHN 1975). Mauthner era nato il 22 novembre del 1849 a Horschitz (Hořice), una piccola cittadina della Boemia orientale, in una famiglia borghese completamente assimilata che pochi anni dopo, nel 1855, si era trasferita a Praga per dare ai figli un’istruzione adeguata.
Nel 1866, dopo la battaglia di Sadowa e l’occupazione di Praga da parte dei prussiani, il giovane Mauthner era passato da un generico nazionalismo austriaco, fondato sull’odio anticeco, all’ammirazione verso la grande Germania di Bismarck, e l’acutizzarsi del conflitto etnico, la diminuzione della componente tedesca nella Praga della seconda metà dell’Ottocento, la rovina finanziaria del padre e l’insuccesso letterario in ambito poetico rendono comprensibile la scelta, nel 1876, del trasferimento a Berlino. L’eredità di Praga è la mescolanza linguistica: l’ebraico della Bibbia, il Mauscheldeutsch – lo yiddish dei rigattieri e dei commercianti ebrei –, il tedesco cartaceo, imposto dal padre, e il Kleinseitner Deutsch – il tedesco del quartiere di Malá Strana –, il Kuchelbömisch – il ceco, definito con spregio, la lingua della servitù. Di qui anche il rancore che Mauthner nutrirà per tutta la vita per la mancanza di una lingua madre e di un dialetto, di qui il rancore che lo spingerà ad avventarsi contro il linguaggio, contro la superstizione della parola.
A Berlino, la città più veloce del mondo – come l’aveva definita Karl Kraus –, centro della politica e dell’economia, capitale della cultura, del giornalismo, delle riviste, della produzione libraria e del teatro, Mauthner si afferma come critico teatrale e scrittore satirico nel settimanale “Deutsches Montags-Blatt” e pubblica anche alcuni romanzi di successo. Tra orgoglio, presunzione e abbattimento nasce però il grande progetto di critica del linguaggio che combina la tradizione della filosofia del linguaggio di Locke, Vico, Herder e Hamann, con suggestioni provenienti da Schopenhauer e Nietzsche, ma soprattutto dall’analisi delle sensazioni di Ernst Mach e dalle teorie dei neogrammatici (cfr. ARENS 1984 e 1995). Ne emerge uno scritto composito che teorizza un radicale scetticismo linguistico, l’impossibilità di definire l’essenza del linguaggio, il quale immediatamente si declina nelle diverse lingue, nei dialetti, nelle lingue particolari, nelle lingue individuali: il linguaggio svanisce nel suono pronunciato. La decostruzione del concetto si riflette nello stile della scrittura, scandita da scarti, slittamenti improvvisi verso il basso, lunghe divagazioni interrotte da pagine argute e brillantissime. La conclusione è scettica e pragmatica: il linguaggio non è altro che l’uso del linguaggio e la parola è metafora, motto di spirito, Witz (sulla funzione della metafora nella teoria del conoscere di Mauthner cfr. BREDECK 1992).
Prima di entrare nel merito di questa teoria dobbiamo ancora seguire le vicende biografiche del nostro che, in preda alla depressione in seguito alla morte della moglie e al successo limitato della sua opera filosofica, si trasferisce a Freiburg, lontano dalla grande città, immerso nella solitudine e in lunghe passeggiate con il cane. Riprende però lentamente gli studi, conosce il neokantiano Hans Vaihinger, incontra Martin Buber, ma soprattutto frequenta Hedwig Straub, scrittrice ebrea tedesca, che aveva studiato filosofia a Zurigo con Avenarius (l’empiriocriticista criticato da Lenin) e medicina a Parigi. Hedwig – che scrive con lo pseudonimo Harriet Straub – aveva lavorato per dieci anni come medico tra i beduini del Sahara e, già ammiratrice degli scritti del nostro autore, si era portata qualche volume della Critica del linguaggio sul dorso dei cammelli. Con l’aiuto della Straub, che diverrà la sua seconda moglie, Mauthner si dedica ora al Dizionario.
Centrale anche in quest’opera è la definizione della parola come metafora, una tesi che in quel momento storico era stata ripresa da vari autori, ma soprattutto da Gustav Gerber e da Nietzsche, lettore di Gerber, in Über Wahrheit und Lüge im aussermoralischen Sinn (cfr. MEIJERS-STINGELIN 1988, un articolo che riporta tutti i passi di Gerber ripresi alla lettera da Nietzsche). Mauthner non cita Gerber e nemmeno il saggio di Nietzsche (apparso nel 1896), ma qui importa il collegamento tra metafora e Witz che egli poteva trovare in Jean Paul Richter, scrittore umoristico e teorico dell’umorismo, un autore che sente come affine e nel quale trova un fondo di idee e immagini, uno stile di pensiero asistematico, una scrittura che procede senza un preciso ordine di inventario, con giochi di prestigio, ritorni rapsodici e riferimenti biografici a volte oscuri, fitta di dettagli minimi e di giochi linguistici. Nonostante qualche osservazione critica e ironica sulla maggior capacità di Jean Paul di creare personaggi umoristici piuttosto che elaborare una teoria dell’umorismo, Mauthner lo apprezza come critico per la sua distinzione tra umorismo e ironia romantica e utilizza a più riprese i paragrafi sul Witz della Vorschule der Aesthetik (1804). In queste pagine Jean Paul aveva distinto tra il motto di spirito non figurato (unbildlich) e il motto di spirito figurato (bildlich). Esempio del primo è l’affermazione: le donne e gli elefanti hanno paura dei topi. Qui non compare l’immagine, mentre le metafore immaginifiche che caratterizzano il Witz figurato permettono a Jean Paul di procedere di metafora in metafora, di cogliere nella trama del sensibile gli infiniti possibili accostamenti, di stabilirne la magica centralità nella scrittura umoristica (sul Witz in Richter, cfr. CAMBI 1993).
Seguiva la definizione dell’umorismo come sublime alla rovescia, intuizione geniale che avvia nella teoria estetica la riflessione sui modi disarmonici del bello, incapace ormai di trascendersi nel sublime, poiché il sublime stesso non ne rappresenta che un momento che immediatamente si rovescia nel suo contrario: l’umorismo dissolve allora nella derisione cosmica la stoltezza e la follia del mondo e viene descritto con l’immagine di Merope, l’uccello che sale in cielo dalla parte della coda, e del saltimbanco che danza sulla testa e beve il nettare dal basso verso l’alto.
Mauthner riprende la definizione di Richter secondo la quale «ciascuna lingua è un vocabolario di metafore sbiadite» (RICHTER 1963, p. 184, nella traduzione italiana: p. 183) e sottolinea il passaggio che collega metafora e Witz – passaggio che in genere è stato giudicato uno scarto argomentativo, una spiegazione non del tutto persuasiva – per riproporre l’enigma del linguaggio sospeso tra truffa e magia. La metafora è sempre arguta (witzig), sostiene Mauthner, la lingua è la raccolta di milioni di Witze, di cui è andata perduta la storia, i mutamenti semantici consistono nell’estendere il concetto, mediante metafore o motti di spirito, alle somiglianze più lontane. Certo, nemmeno per lui si tratta di una legge assoluta, poiché il linguaggio prende spesso vie secondarie o scorciatoie che ci fanno spesso oscillare tra presenza e oblio del significato metaforico.
Più perplesso si mostra Mauthner a proposito della definizione teorica dell’umorismo, che egli ritiene impossibile. Nella voce Humor del Wörterbuch Mauthner si chiede: che cos’è l’umorismo in senso proprio, quello grande e libero? Non deriva dagli antichi humores, né ha a che fare con la humeur francese e tanto meno può essere accostato al comico perché contiene in sé gli opposti del riso e del pianto, né assomiglia all’ironia romantica; non lo si può però definire in positivo; non ci sono riusciti, afferma, né Jean Paul né il filosofo hegeliano Friedrich Theodor Vischer, i massimi teorici dell’umorismo dell’Ottocento tedesco.
Temo davvero che l’umorismo libero non sia niente altro che la concezione del mondo del tutto libera della mente veramente filosofica, il sacro riso del filosofo, la superiorità rispetto a tutto l’affannarsi e il pensare dell’uomo, la rassegnazione di un grande cuore; e tutta questa grandezza la possiamo sentire e apprezzare come umorismo solo quando il filosofo è per caso anche uno scrittore umoristico e utilizza a tal fine l’umorismo […] per rappresentare la sua concezione del mondo in un personaggio umoristico.(MAUTHNER 1923-1924, pp. 110-111, nella trad. it. della voce in MAUTHNER 2008: p. 136)
Qualche volta però il riso del filosofo riesce a superare qualsiasi figura umoristica, persino quella del Don Chisciotte: il filosofo scettico ride di tutto ciò che vi è di sacro nella vita di tutti giorni, ma sa di appartenere a questa quotidianità priva di eroi; si allontana dal mondo, ma non diventa un superuomo, si accontenta di indicare il carattere witzig nel nostro linguaggio quotidiano.
Nel 1909 Mauthner si era trasferito a Meersburg sul lago di Costanza in una casa di vetro, la Glaserhäusle, dove avrebbe trascorso gli ultimi anni dedicandosi a un componimento poetico sulla figura del Buddha, alla mistica senza Dio e a nuovi quattro volumoni sulla storia dell’ateismo (1920-1923). Tuttavia l’idillio del “Buddha di Meersburg” viene avvelenato da alcune polemiche politiche e religiose, ma soprattutto dallo scontro con l’amico di un tempo, Gustav Landauer, l’anarchico che lo aveva sostenuto all’epoca del primo lavoro di critica del linguaggio. Le divergenze politiche si sono acuite per l’opposta posizione sui temi del nazionalismo e della guerra e per il giudizio negativo di Mauthner sulla partecipazione dell’amico alla Repubblica dei consigli di Monaco, nella repressione della quale Landauer aveva trovato la morte, assassinato in prigione.
Mauthner muore il 29 giugno del 1923, nell’indifferenza dell’accademia che – ad eccezione di Ernst Mach – non lo considera un vero e proprio filosofo. In un certo senso egli non lo è stato e non ha voluto esserlo: talvolta scarta con un gesto di insofferenza tematiche e problemi che a noi sembrano ancora importanti e lo stesso Wittgenstein che lo cita nel Tractatus scrive di voler fare una critica del linguaggio, «ma non nel senso di Mauthner» (4.0031). Viene letto invece dai letterati: von Hofmannsthal ne conserva i libri e lo cita, Morgenstern si dichiara un suo seguace, Joyce cerca nelle sue pagine ispirazione per la contaminazione linguistica di Finnegans Wake e Beckett annota su un quaderno i passi richiesti da Joyce, Oswald Wiener lo indica, nel suo romanzo decostruttivista die verbesserung von mitteleuropa, come riferimento per una scelta radicale di rinuncia al linguaggio, Borges infine consulta spesso il Dizionario e vi trova ispirazione per alcuni suoi racconti (ad es. Tlön, Uqbar, Orbis Tertius in Finzioni, cfr. DAPÍA 1993). Forse lo stesso Wittgenstein nella fase di riflessione successiva al Tractatus non avrebbe ripetuto questo giudizio, forse finisce per fare critica del linguaggio proprio nel senso di Mauthner (per le analogie, cfr. WEILER 1970 e LEINFELLNER 1969), forse pensa a Mauthner quando sul letto di morte dice a Keynes che gli sarebbe piaciuto aver composto un’opera filosofica che consistesse interamente di facezie. Keynes gli chiede il perché non l’abbia fatto. Wittgenstein risponde: purtroppo non avevo il senso dell’umorismo.
BIBLIOGRAFIA
Gli scritti di Mauthner sono in gran parte disponibili in rete: in Austrian literature online; Textlog.de; Zeno.org; Projekt Gutenberg-de.
MAUTHNER Fritz (1910), Wörterbuch der Philosophie: Neue Beiträge zu einer Kritik der Sprache , Bd. 1-3, G. Müller, München – Leipzig
MAUTHNER Fritz (1918) Erinnerungen I: Prager Jugenjahre, G. Müller, München
MAUTHNER Fritz (1923-1924), Wörterbuch der Philosophie: Neue Beiträge zu einer Kritik der Sprache , Bd. 1-3, Meiner, Leipzig (2. Auflage)
MAUTHNER Fritz (2008), La maledizione della parola. Testi di critica del linguaggio, a cura di Luisa Bertolini, Aesthetica Preprint, Supplementa ( http://www1.unipa.it/~estetica/download/Mauthner.pdf, consultato il 01.03.2017)
ARENS Katherine (1984), Functionalism and Fin de siècle: Fritz Mauthner’s Critique of Language, Lang, New York – Bern – Frankfurt am Main
ARENS Katherine (1995), Mach und Mauthner: Der Fall eines Paradigmenwechsels, in Leinfellner Elisabeth, Schleichert Hubert (Hg.), Fritz Mauthner. Das Werk eines kritischen Denkers, Böhlau, Wien – Köln – Weimar
BREDECK Elizabeth (1992), Metaphors of Knowledge: Language and Thought in Mauthner’s Critique, Wayne State University Press, Detroit
CAMBI Fabrizio (1993), Arguzia e motto di spirito nell’estetica di Jean Paul, Nistri-Lischi editori, Pisa
DAPÍA Silvia G. (1993), Die Rezeption der Sprachkritik Fritz Mauthners im Werk von Jorge Luis Borges, Böhlau, Wien
DEFT Anna (1994), Einleitung, in Gustav Landauer – Fritz Mauthner, Briefwechsel 1890-1919, bearb. von Hanna Delf, Beck, München
KÜHN Joachim (1975), Gescheiterte Sprachkritik: Fritz Mauthners Leben und Werk, de Gruyter, Berlin – New York
LEINFELLNER Elisabeth (1969), Zur nominalistischen Begründung von Linguistik und Sprachphilosophie: Fritz Mauthner und Ludwig Wittgenstein , “Studium Generale”, 22
MEIJERS Anthonie, STINGELIN Martin (1988), Konkordanz zu den wörtlichen Abschriften und Übernahmen von Beispielen und Zitaten aus Gustav Gerber: Die Sprache als Kunst (Bromberg 1871) in Nietzsche Rhetorik-Vorlesung und in “Über die Wahrheit und Lüge im aussermoralischen Sinne” , “Nietzsche-Studien”, 17
NIETZSCHE Friedrich (1999),Über Wahrheit und Lüge im aussermoralischen Sinn, in Sämtliche Werke, Kritische Gesamtausgabe, hg. von Giorgio Colli und Mazzino Montinari, I, de Gruyter, Berlin (Su verità e menzogna in senso extramorale, trad. it. di Giorgio Colli, Adelphi, Milano 2015)
RICHTER Jean Paul (1963), Vorschule der Aesthetik, in Sämtliche Werke, Abt. I, V Bd., hg. von Noerbert Miller, Hanser, München (Il comico, l’umorismo e l’arguzia, trad. parziale di Eugenio Spedicato, Il Poligrafo, Padova 1994)
WEILER Gershon (1970), Mauthner’s Critique of Language, Cambridge University Press