Nel nostro immaginario, nella gerarchia del mondo animale, la gallina occupa insieme un gradino molto basso e uno molto alto: nel suo ostinato beccare, nel suo incedere incerto, nello sguardo apparentemente muto e laterale, nel suo ripetitivo chiocciare, la gallina non sembra associata ad alcuna forma di intelligenza. Per converso l’immagine della chioccia che cova tenera e vigile i suoi pulcini è stata assunta nel bestiario di Cristo, della Madonna e della Chiesa. Questa divaricazione ne fa un interessante oggetto di analisi per gli studi sull’umorismo come sublime rovesciato.
Cominciamo dal basso: le galline razzolano, si muovono come impacciate buttando in avanti in modo incerto le sottili zampe gialle che devono reggere il corpo tozzo. Se cerchiamo di imitarne l’andatura – come fece anni fa Michele Abbondanza con la compagnia di danzatori Sosta Palmizi nel balletto Il Cortile (1985) – l’effetto è straniante, rovesciamento parodico delle mosse eleganti del cigno morente, icona della danza classica. Per converso possiamo immaginarle tramutate in donne, come fa Porzia, la protagonista dell’omonimo e terribile racconto di Fleur Jaeggy: nel pollaio della sua casa di origine, nel paese dove nulla succede, la giovane contadina vede le galline camminare come signore, «le zampe nei tacchi e tiravano fuori dalla borsetta un uovo», ma – continua – quando venivano aggredite dai cani, dai lupi e dalle volpi, «diceva che erano soltanto galline» (JAEGGY 1994).
La sottigliezza e la debolezza delle gambe, che suggerisce a Jaeggy l’idea dei tacchi, avrebbe un suo motivo: sarebbe compensata – come scrive Aristotele nel De generatione animalium (749b-750a) – da una certa propensione al coito e a generare. Si aggiungano poi le caratteristiche che le galline hanno in comune con i galli, ma in misura più ridotta: prima di tutto i bargigli e la cresta che, a parte la loro funzione in cucina come materia prima per la finanziera, non sembrano avere altro scopo. Ma anche l’appendice sulle zampe, quasi un ulteriore dito, appena accennato – a confronto dello sperone del gallo – appare come inutile residuo: secondo Alberto Magno costituisce un ostacolo al volo e dimostra che gli uccelli di sesso femminile mancano di ciò che nel maschio è completo (De animalibus, II, 75). Non va meglio nemmeno per la voce: a questo proposito si può citare un terzo maestro del pensiero, Dante Alighieri, che nel Convivio richiama la donna a ridere «sanza cachinno, cioè sanza schiamazzare come gallina» (III, 8).
Schiamazza la gallina anche nella satira e nella caricatura, nella quale il corpo deforme offre spunti all’analogia con uomini dal corpo gallinaceo, forse in nome della definizione platonica dell’uomo come bipede implume: tanto per fare alcuni esempi possiamo citare gli esserini mostruosi, dal corpo di gallina (i maschi che se ne vanno spennati), scacciati da giovani streghe-prostitute in un’incisione dei Capricci di Goya,
oppure la gallina che rappresenta uno degli Stati in lotta nelle ricorrenti guerre del nostro continente.
Anche nei proverbi e nei modi di dire la gallina non gode di grande considerazione: “in casa non c’è pace, quando gallina canta e gallo tace”, ma anche: “co ‘l galo canta da galina, la casa va i ruina”, e naturalmente “cervello di gallina” per suggerire la mancanza di acume di qualche amico o parente, anche se in questo caso le galline condividono il destino con altri uccelli e con altri animaletti.
Lo scienziato Giorgio Vallortigara ci ha spiegato però che le galline non hanno invero un “cervello di gallina”. Il loro mondo percettivo è anzi assai complesso: sono in grado di compiere quello che gli psicologi cognitivi chiamano completamento amodale dell’oggetto, sanno percepire la profondità, l’analogia di forme ruotate, sono capaci di riconoscere i componenti della loro specie animale e distinguere gli individui, aggiornando periodicamente con nuovi elementi la loro – per così dire – “rappresentazione mentale”, riescono a dormire con un occhio solo e con metà cervello (come gli uccelli migratori che dormono in volo e i delfini che devono respirare), conoscono le gerarchie del proprio e altrui gruppo, in qualche modo comunicano (il gallo emette diversi segnali di pericolo), forse attribuiscono intenzioni ad altri animali (per convincersi, cfr. VALLORTIGARA 2005).
Del resto anche nei bestiari medievali – come ci spiega Michel Pastoureau – raramente la gallina è messa in cattiva luce: si cura dei suoi pulcini, li scalda, li nutre, li difende dal nibbio e dalla volpe. Viene addirittura paragonata a Cristo che protegge i fedeli e alla Madonna che copre con il suo manto l’umanità sofferente (PASTOUREAU 2012, p. 195). Il richiamo a Cristo si basa su una citazione dai Vangeli di Luca e Matteo in cui Gesù davanti alla città di Erode esclama: «Gerusalemme, Gerusalemme che metti a morte i profeti e uccidi a colpi di pietra quelli che Dio ti manda! Quante volte ho voluto riunire i tuoi abitanti attorno a me, come una gallina raccoglie i suoi pulcini sotto le ali! Ma voi non avete voluto […]» (Matteo, 23, 37; Luca, 13, 34). Non ha molta fortuna questo richiamo nell’iconografia, ma Bœspflug nel suo catalogo delle immagini di Dio cita come esempio un quadro manierista del pittore fiammingo Frans Floris che – scrive l’autore – traduce letteralmente l’esclamazione di Gesù nelle due enormi ali del Cristo crocefisso (BŒSPFLUG 2012, pp. 299-300).
Anche l’iconografia della Madonna ripropone questa immagine della chioccia come emblema della sollecitudine materna, anche se non mancano le galline credulone che ascoltano la volpe ipocrita travestita da monaco, e la gallina nera, simbolo addirittura del demonio (CHARBONNEAU-LASSAY 1994, p. 249ss.).
Alla rivalutazione della gallina concorrono altri motivi filosofici e letterari. Pensiamo alla gallina Pompona di Palazzeschi, grassa, rotonda, fiorente, esuberante e vendicativa che ride di una «risata lunga, aperta, crudele, sconcia» del gallo Zarù, il suo giovane protetto, ridotto dalla perfida massaia a misero cappone dalla bellezza ormai femminea (PALAZZESCHI 2006). Pensiamo alla gallina come «l’animale sacro di Saba» che contiene in sé le suggestioni dell’infanzia, della maternità e della femminilità, come risulta dall’acuta analisi di Mario Lavagetto (LAVAGETTO 1988). Anche in Savinio infanzia, maternità e femminilità richiamano l’immagine della gallina nel racconto Mia madre non mi capisce del 1942. Anche qui la madre del protagonista, Nivasio Dolcemare – alter ego dello scrittore nel romanzo a lui dedicato e in altri racconti – è figura che «occupava interamente la porta dell’avvenire e la precludeva altrui», cioè al piccolo Nivasio (SAVINIO 1999, p. 345). Anche qui è lei a portare con maestà il suo titolo di «signora Dolcemare», lo portava – scrive l’autore – «come un monumento porta il suo titolo: Mole Antonelliana, Porta Metronia, Basilica di Massenzio», e come la mole gli si para davanti, rendendo difficile il passaggio del titolo alla moglie di Nivasio, la nuova signora Dolcemare.
Nivasio è uomo affermato, il portiere lo chiama commendatore, anche se lui preferirebbe essere chiamato con il suo nome, più importante di qualsiasi altro titolo. La casa è luogo di assoluta felicità, moglie e figli perfetti, la carriera confermata dalla posta in arrivo, gli ospiti grati e ossequiosi, il cameriere Giulio mellifluo, gesuiticamente affabile. Il ricordo dell’assunzione di Giulio preannuncia il riferimento gallinaceo: una porzione di pollo putrefatto servito in una trattoria d’estate, la menzogna evidente del cameriere, il rifiuto di Nivasio: il pollo pute, poi, furente: il pollo puzza! Glielo scaraventa addosso, ma Giulio non batte ciglio e torna dopo poco «con mezzo pollo dorato e odoroso, la zampetta ratratta sul purissimo biancore dello sterno» (p. 348).
Ora Giulio serve in casa Dolcemare.
Il racconto riprende con la descrizione della cena e della serata: ora i commensali si sono alzati da tavola e Nivasio si è provvisoriamente ritirato nel suo studio per godere delle lettere apologetiche. Lo disturba un lamento, un lamento che «torna a echeggiare. Terribile ricordo. L’agonia della madre di Nivasio Dolcemare era durata due settimane», «grido di gallinaccio strozzato». La descrizione appare insieme grottesca e sofferta: per passare dalla vita alla morte bisogna ridursi piccoli – a pelle e ossa era ridotta la madre -, come per passare «attraverso un pertugio molto stretto», «un parto più difficile e una terribile nascita» (pp. 352-353). Il lamento si prolunga nella stanza vicina, una stanza sconosciuta che si riempie dei mobili dell’infanzia. «Per terra c’è una gallina. Una gallina piccola piccola. È suo il lamento. Che dice?». Il lamento dice che la gallina è sua madre, Nivasio si china, diventa piccolo e nella stanza buia che si rivela la camera in cui è venuto al mondo «dà sfogo silenziosamente alle lacrime da tanti anni tenute a freno, e al pianto di una intera vita. Allora la piccola gallina cessa il suo lamento. Ha ritrovato il suo pulcino» (p. 357). L’immagine della gallina, che sembrava prefigurare il grottesco di tanti altri racconti e disegni, si risolve qui in un raccoglimento intimo, direi: lirico (cfr. ZUDINI 2008).
Non è senza motivo che ci siamo soffermati un po’ più diffusamente sul racconto di Savinio, burlesco e tragico insieme, in cui il sentimento di tenerezza che pervade il sogno si coniuga con il sarcasmo della descrizione distaccata e impietosa della vita borghese del protagonista. Una seconda ragione: all’argomento “Savinio” dedicheremo il prossimo numero.
BŒSPFLUG François (2012), Le immagini di Dio. Una storia dell’eterno nell’arte, trad. it. di Chiara Bongiovanni, Einaudi, Torino
CHARBONNEAU-LASSAY (1994), Il bestiario di Cristo. La misteriosa emblematica di Gesù Cristo, trad. it. di Maria Rita Paluzzi e Luciana Marinese, Edizioni Arkeios, Roma, vol. II
JAEGGY Fleur (1994), La paura del cielo, Adeplhi, Milano (devo questa indicazione alla scrittrice Chiara Valerio)
LAVAGETTO Mario (1988), La gallina di Saba, Einaudi, Torino
PALAZZESCHI Aldo (2006), Pompona, in Bestie del 900 / Il buffo integrale, a cura di Maria Carla Papini, Mondadori, Milano
PASTOUREAU (2012), Bestiari del Medioevo, trad. it. di Camilla Testi, Einaudi, Torino
SAVINIO Alberto (1999), Mia madre non mi capisce, in Casa «La vita» e altri racconti, a cura di Alessandro Tinterri e Paola Italia, Adelphi, Milano
VALLORTIGARA Giorgio (2005), Cervello di gallina. Visite (guidate) tra etologia e neuroscienze, Introduzione di Edoardo Boncinelli, Bollati Boringhieri, Torino
ZUDINI Claudia (2008), La presenza degli animali nell’opera narrativa di Alberto Savinio, “Italies”, 12, pp. 299–318