[Jerome K. Jerome, Tre uomini in barca (per non dir del cane), BUR, Milano 1998 (1° ed. Gran Bretagna, 1889)]
È mai possibile che il rag. Fantozzi abbia prenotato una gita sul Tamigi nell’Inghilterra di due secoli fa? Pare poco probabile, ma è successo, direbbe Arthur Dent, un inglese costretto suo malgrado a chiedere passaggi su bizzarre astronavi in Guida galattica per autostoppisti. Il tutto ovviamente regolato dalla legge di Murphy.
Riferimenti bibliografici a casaccio? Non è del tutto infondato ritenerli recenti epigoni di un’operetta divertente e forse non superficiale che, come loro, ebbe un gran successo di pubblico e che troviamo perfino nelle antologie delle scuole medie (se questa circostanza fosse di un qualche rilievo). L’Autore, dal misterioso nome simmetrico, era nato nel 1859 e non ebbe infanzia spensierata né vita facile, e non poté godere neppure di una istruzione pianificata. Ciò di fatto non influì negativamente sul suo spirito e neppure sul successo di questo suo libro, che citiamo nella traduzione di Alberto Tedeschi. Il libro è reperibile ovunque e lo si trova anche sulle bancarelle dell’usato a pochi centesimi (espressione finalmente tornata in auge e particolarmente adatta ad un libro di oltre un secolo fa). Non occorre conoscere chi abbiamo citato nell’incipit per goderne, ma aiuterebbe la varietà della riflessione.
Protagonisti sono tre giovanotti inglesi che vivono alla fine dell’Ottocento, decisi a fare una gita sul Tamigi, risalendone la corrente, per un paio di settimane. Poco importa se il libro avrebbe dovuto forse essere una guida turistica, ha poi preso la strada che doveva prendere, e appare come il prototipo di tutti i libri umoristici moderni che leggiamo o regaliamo volentieri per esorcizzare quanto la vita ha di tragico e di inquietante. Le fissazioni umane, le piccole miserie, le manie o la stupidità che ci possiedono oggi erano tali e quali nell’Inghilterra tardo vittoriana. E qui come là, oggi come un tempo, queste situazioni si prestano a generare parodie che scaricano la tensione, e “ogni dolore si placa”, come traduce Tedeschi.
Mettemmo un pentolino d’acqua sul fornello, a prua, poi ce ne andammo a poppa fingendo d’ignorarlo, mentre finivamo di togliere le vettovaglie dal cesto.
Quello è l’unico sistema per ottenere che un pentolino si decida a bollire, quando si è in gita sul fiume. Se si accorge che aspettiamo con impazienza che l’acqua bolla, potete star certi che non si decide nemmeno a “cantare”. Bisogna andarsene e cominciare il pasto, se si desidera bere una tazza di tè. Non si deve nemmeno volgere lo sguardo verso il fornello. Così, in men che non si dica, l’acqua si mette a traboccare, come se non vedesse l’ora d’essere trasformata in tè.
Scrive ancora Jerome nel primo capitolo:
Ricordo di essere andato un giorno alla biblioteca del Museo Britannico per documentarmi sulla cura di non so quale lieve malanno di cui soffrivo… febbre del fieno, se ben ricordo. Presi un trattato di medicina e lessi tutto ciò che mi riguardava. Poi, senza riflettere, voltai le pagine e cominciai a scorrere distrattamente la descrizione di altre malattie. Non so più quale fosse il primo malanno sul quale mi soffermai… qualcosa di terribile, di micidiale, però… ma prima di essere arrivato a metà dell’elenco dei “sintomi premonitori”, ero fermamente convinto di essere affetto da quella malattia.
Rimasi a lungo paralizzato dal terrore; poi, con l’indifferenza della disperazione, cominciai a voltare le pagine del libro. Giunsi alla voce del tifo, lessi i sintomi, constatai che avevo il tifo e che dovevo averlo da mesi e mesi, senza saperlo… e mi domandai che altro potevo avere addosso; passai al ballo di San Vito e scoprii, come prevedevo, di avere anche quello. Cominciai a interessarmi del mio caso e, deciso ad andare fino in fondo, ricominciai daccapo, in ordine alfabetico. Lessi la descrizione della malaria e seppi che l’avevo in pieno; lo stadio acuto sarebbe cominciato di lì a una quindicina di giorni.
Il germe dell’umorismo sembra scaturire dalla volontà di scacciare il malevolo sospetto che qualcosa nel creato ce l’abbia con noi. Sapere che anche altri si dibattono nelle medesime angosce rende paradossalmente liberi e fratelli, raccontarlo solleva dalla paura e permette di andare avanti in una vita che mantiene il suo mistero e che può rivelarsi fragile.
Vita e misteri dell’universo in un librettino che vorrebbe muovere alla risata o almeno ad un increspar di labbra? Ma questi temi appaiono in qualche modo connessi all’umorismo. Non è un caso quindi che ci si imbatta qua e là in angoli lirici, che appartengono pienamente al romanzo, come la riflessione sullo spettacolo della notte nel secondo capitolo:
Ce ne stiamo là seduti sulla riva, mentre la luna, che ama anch’essa il fiume, pare abbassarsi per baciarlo fraternamente e avvolgerlo in un argenteo abbraccio; e noi lo osserviamo mentre scorre sempre cantando e sempre mormorando, scorre per andare a gettarsi nel mare, suo re… lo osserviamo fino a quando le nostre voci si affievoliscono nel silenzio e le pipe si smorzano… dopo esserci augurati la buonanotte, ci addormentiamo cullati dallo sciacquio del fiume e dallo stormir delle fronde, sotto le grandi stelle immobili, e sogniamo che la terra è ritornata giovane…
L’umorismo può fungere a volte da chiave laica per rendere accettabile quello che l’intelletto umano non arriva a capire. La condizione umana, però, segnata dal limite, dalle contrarietà, grandi o piccole e dal dolore, può forse essere riscattata solo misticamente da interventi esterni, come sembra intuirsi alla fine del capitolo X, con la favola del cavaliere che si è perduto nella foresta e che ha una visione di luce di cui è impossibile narrare:
Nelle tenebre della foresta era apparsa una luce al cui confronto quella del giorno era come un lumino di fronte al sole; in quella luce meravigliosa, il nostro esausto cavaliere aveva visto, come in sogno, una visione così bella, così sublime, che egli non aveva più pensato alle proprie ferite sanguinanti, ma era rimasto come un uomo in stato di grazia, la cui gioia sia profonda come il mare di cui nessuno conosce la profondità… Il nome di quella foresta tenebrosa era Dolore; ma della visione del pio cavaliere non ci è consentito di parlare.
Ma non si vuole con queste osservazioni ridurre in troppo angusto recinto il più diretto scopo di questo libro e il piacere nel leggerlo: la comicità resta il Leimotiv del racconto, come il fiume domina l’avventura dei tre più uno (si consiglia, a proposito dell’ultimo, di andare a consultare una foto di cani di analoga razza, per contestualizzare al meglio il personaggio e i suoi interventi).
Tra una lotta all’ultimo sangue con un ghignante barattolo di conserva d’ananas e la cocciutaggine dei bricchi da bollitura, mentre il vento cura di spirare sempre nella direzione opposta alla nostra (qualunque essa sia) e siamo vittime degli oggetti più diversi (quadri, spazzolini da denti, formaggi, valigie, barometri, emissari di una oscura volontà di opposizione ai nostri sforzi), si trova anche il tempo per fermarsi a riflettere su come si possano superare, volendo, le miserie della vita, le care cianfrusaglie fisiche o mentali a cui siamo attaccati unguibus et rostris. E che fanno grasso humus per le manie e paranoie di cui si nutre l’umorismo.
Spogliarsi di tutto il superfluo e ritornare all’essenzialità dell’essere umano sembra il suggerimento di fondo del libro. L’avventura buffa dei tre in barca assomiglia allora a quella dell’uomo nel fiume della vita, la cui imbarcazione, se alleggerita dalla zavorra, permetterebbe di vedere lungo il percorso cose di più ampia soddisfazione e senso. Così esorta, infatti, J.K.J., alla fine del cap. III:
Gettate la zavorra, uomini! Fate che la navicella della vostra vita sia leggera, carica soltanto di ciò che vi è indispensabile….una casa ospitale, semplici piaceri, due o tre amici degni di questo nome, qualcuno che vi voglia bene e a cui vogliate bene, un gatto, un cane, qualche pipa, quel che basta per sfamarvi e per vestirvi, e un po’ di quel che basta per saziare la sete; poiché la sete è una cosa pericolosa…Avrete il tempo di pensare oltre che di lavorare…