Savinio respinge perentoriamente qualsiasi caduta della propria scrittura nel gratuito e nel nonsenso. In risposta a André Breton, il quale colloca i fratelli De Chirico fra i promotori del surrealismo, Savinio sottolinea la pienezza di senso e il fine educativo come caratteristiche essenziali della propria arte:
Quanto a un surrealismo mio […] come molti miei scritti e molte mie pitture stanno a testimoniare, non si contenta di rappresentare l’informe e di esprimere l’incosciente, ma vuole dare forma all’informe e coscienza all’incosciente. Mi sono spiegato? Nel surrealismo mio si cela una volontà formativa e, perché non dirlo? una specie di apostolico fine. Quanto alla «poesia» del mio surrealismo, essa non è gratuita né fine a se stessa, ma a suo modo è una poesia «civica», per quanto operante in un civismo più alto e più vasto, ossia in un supercivismo. (SAVINIO 1953, 1953, pp. 7-8)
L’affermazione vale anche per il suo umorismo, indipendemente dalle diverse forme in cui è espresso – dall’umorismo nero di cui abbonda Hermaphrodito (1918) (incluso da André Breton nella sua Anthologie de l’humour noir) o il romanzo La nostra anima (1944), all’aneddotico, cospicuamente presente nei ritratti delle personalità di Narrate, uomini, la vostra storia (1948), fino ad un umorismo che potremmo tout court chiamare surrealistico, in quanto scaturito dall’«accoppiamento di due realtà in apparenza non accoppiabili su un piano che, in apparenza, non s’addice loro» (BRETON (2003, p. 208). L’umorismo saviniano non è mai puro divertimento letterario, bensì è sempre orientato verso il disvelamento di significati profondi. «Diversamente da come credono gl’ingenui, l’ironia non è ironica. L’ironia è seria. Profondamente seria. E pia» afferma Savinio in un saggio apparso nel 1948 (SAVINIO 1989, p. 765).
Ritenendo imprescindibili tali presupposti, ci addentriamo nell’analisi del romanzo Angelica o la notte di maggio (1927), la cui architettura surrealistica si basa su un continuo scivolamento fra sogno ed esperienza diurna, fra interiorità ed esteriorità, fra un tempo delle esperienze quotidiane, lineare, irreversibile e un altro reversibile, delle durate che si possono contrarre o dilatare a seconda delle esigenze del soggetto che sogna o è in preda alla rêverie, e infine quel tempo ciclico delle anamnesi – così spesso evocato da Savinio – in cui il mito è integrato nel presente. In quanto è dominato da tali fluttuazioni fra i diversi piani ontologici e da frenetici passaggi – come in una rapida successione di quadri cinematografici – da un personaggio all’altro, il discorso narrativo appare frammentato come un puzzle in cui ogni tassello, ossia ognuno dei numerosi brevi capitoli, ha il suo significato che porta alla rivelazione del senso complessivo del romanzo. Anche se strutturalmente appare scissa, stilisticamente la narrazione non presenta fratture. Le incongruenze tipicamente surrealistiche caratterizzano tanto le esperienze immaginarie dei personaggi quanto la descrizione del piano reale in cui esse si manifestano.
Tra gli arabeschi stilistici, che dal punto di vista tematico esprimono fertili equivoci e configurano una prospettiva diversa su un personaggio o un ambiente, è distinguibile un filo narrativo di base che di seguito ricostruiamo come primo approccio al significato del romanzo. Il barone Felix von Rothspeer, l’uomo più ricco della Germania, vede una sera al teatro Orfeo la ballerina Angelica Mitzopulos, che interpreta divinamente il ruolo di Psiche. Il barone se ne innamora e, per conquistarla, una sera compra tutti i biglietti e riempie la sala di fiori. Appena finita la rappresentazione, Angelica, sbalordita, fugge piangendo. Accompagnato dal suo fedele segretario, Arno Brephus, il barone visita la famiglia Mitzopulos per chiedere la mano della bella ballerina. I due si imbattono in Angelica che sta lavando il pavimento della misera casa in cui vive insieme ai suoi molti fratelli e sorelle e alla loro depravata madre, Eufrosine. Quest’ultima, per soldi, accetta immediatamente la proposta del barone. La notte prima della partenza di Angelica, Eufrosine esaudisce un suo ultimo ardente desiderio: quello di contemplare il corpo nudo di Angelica, giunto a maturità. Sulla nave sfarzosa del barone, i novelli sposi partono per un viaggio di nozze che si prolunga per molto tempo. Al ritorno in patria, il barone si trova in uno stato deplorevole e confessa a Brephus che il matrimonio fra lui e Angelica non si è consumato perché sin dall’imbarco lei era caduta in un sonno catalettico, a volte ad occhi aperti, e dal quale nessuno l’ha potuta totalmente risvegliare. In una notte di maggio Brephus annuncia al barone che qualcosa di aspettato sta succedendo nella stanza di Angelica. Prima Rothspeer si scaglia sul segretario e in seguito ad una lotta corpo a corpo riesce a chiuderlo in una cassaforte, assicurandosi così che il segreto di Angelica non sarà svelato, poi impugna una pistola, entra nella stanza della moglie, gli sembra di vedere accanto al letto il corpo nudo di un giovane, gli spara e ha l’impressione che abbia ferito un essere alato che ha preso il volo dalla finestra. Rothspeer impazzisce e per tutto il resto dei suoi giorni ripeterà meccanicamente «Ho ucciso l’angelo!». Da una lettera-epilogo del narratore veniamo a sapere che in Europa si è scatenata un’epidemia di suicidi e omicidi, una tanatomania destinata a finire solo quando Angelica-Psiche troverà il suo Amore risanato.
Ogni vicenda evocata è interrotta da frammenti di discorsi pseudo-aleatori o simil-onirici che abbondano di nonsensi, ambiguità, analogie e metafore. Essi creano permanentemente l’impressione che la trama stia per disintegrarsi, per scivolare nel puro nonsenso. Inoltre, solo secondariamente i discorsi bizzarri, fantastici e addirittura assurdi rappresentano elementi ornamentali e funzionali a un effetto di suspense. Essenzialmente la loro funzione, che si scopre man mano che si accumulano, è quella di arricchire il testo di episodi digressivi che hanno un’importanza cruciale nel palesare la vera natura dei personaggi. Niente è casuale, nemmeno le differenze di registro che vi distinguiamo. Si nota, ad esempio, come tali discorsi sono carichi di comicità quando riguardano personaggi come Rothspeer o Brephus e pieni di malinconia, tristezza o tendenti al sublime quando si riferiscono ad Angelica. Sin dal primo capitolo i gesti burleschi del segretario assalito dall’euforia primaverile («Brephus non si fermò se non per baciare il muro […] Il segretario s’impigliava nella crinolina. “La finestra!” Si lanciò a capofitto. “In nome del cielo!”», Angelica o la notte di maggio, in SAVINIO 1995, pp. 356-357; d’ora in poi Angelica) sono in netto contrasto con l’apparizione personificata della vitalità, che anticipa l’entrata in scena di Angelica:
La luce filtrata dagli alberi segna pallidamente sul marciapiede l’alfabeto cinese. La vitalità […] si è raccolta laggiù: poggiata al tronco di un tiglio, stanca di lungo viaggio. Come delineare il suo abito? Straniera, certo. Diversa di razza, di clima. Creatura d’altri tempi, inattuale. Levò il capo lentamente. Il Hochbahn le passò tra i capelli. Il suo sguardo salì la facciata, indugiò alla finestra, calò dall’altra parte. Nella luce di quegli occhi non era l’espressione nota dello sguardo. Richinò la testa… (Angelica, p. 356)
Per molti versi la misteriosa presenza si identifica con la protagonista: anche Angelica è descritta come un essere proveniente da altri tempi («Si risvegliava in lei una specie antica, dimenticata», Angelica, p. 377), nei cui occhi brilla uno sguardo strano che non è rivolto a questo mondo. Tale sguardo appare nei suoi occhi quando si rende conto che l’uomo che la corteggia detiene tutte le risorse per impossessarsi di lei («…smarrì nel cielo notturno gli occhi brillanti e insognati», Angelica, p. 361) e si fissa definitivamente dopo che lui la sposa.
Nella natura di Angelica risiede la chiave del messaggio del romanzo. Perseguendo un senso nei meandri della scrittura, ci opponiamo all’interpretazione di Marcello Carlino: «Il vero mistero, a leggere attentamente, non è l’identità di Angelica o dell’Angelo, di Psiche o di Amor (un delirio, un incubo o una sfrenata fantasticheria?). Il rebus (il delitto) è la scomparsa del Senso» (CARLINO 1979, pp. 180-181).
Alla luce delle parole di Savinio, citate nell’introduzione, l’individuazione non solo di un senso, ma anche di un “senso apostolico”, ossia di un sovrasenso, nella trama intessuta di miti, appare del tutto giustificata. La natura di Angelica è discernibile se seguiamo gli sguardi degli altri personaggi fissati su di lei e le loro reazioni a quello che vedono. Sono episodi tralasciati dalla critica, a causa, probabilmente, del loro carattere apparentemente secondario. Ciò che li unisce è l’esistenza di un enigma intorno al corpo di Angelica. L’evocazione della scena della sua nascita apre la serie dei frammenti in cui viene reiterato «il “problema” dell’Angelica» (Angelica, p. 378): «Respirazione sabbiosa della levatrice. Che cos’era quel punto rosso? […] Occhi puri di stupore. Avevano già visto, conosciuto. Si strinse intorno alla neonata un cerchio di paura. Più che guardarla, la scrutavano» (Angelica, pp. 376-377). Con il passare degli anni «Eufrosine Mitzopulos non si arrischiava più a guardare l’Angelica. Le girava intorno a grandi cerchi, come tigre intorno al fuoco» (Angelica, p. 378). Nell’ultima notte trascorsa da Angelica nella casa paterna, Eufrosine è avida di vederla nuda:
nessuno le può impedire di sollevare il lenzuolo e scoprire quel corpo inestimabile. La mano le trema […]. Il cuore della guercia pulsa rapido. Il corpo le si scioglie in delizioso languore. Abiti e biancheria ammucchiati sulla sedia. Quali ricordi lontanissimi ridesta in lei quel sentimento di nostalgia e di speranza? Non capisce, non capisce che cosa fosse andata a cercare prima tra quegli oggetti. Il «capitano» dormiva, la testa rovesciata fuori dal letto. Ora quegli oggetti le sono indifferenti, ispirano una leggera ripugnanza. Il raggio traversa la camera, si spegne. È un po’ stanca ma paga. (Angelica, p. 380)
Il segreto trova ulteriormente il suo rispecchiamento negli occhi del barone, ma anche del suo segretario, che Rothspeer invita «davanti al nuovo, all’impensato, all’inaudito» (Angelica, p. 406): «Ma dopo tutto, questo enigma sono io che lo possego. Vantaggio immenso! Che me ne faccio dell’anima? Al diavolo il mistero! Arno, guarda, guarda! (Le si chinò sopra avidamente scrutandola, fiutandola)» (Angelica, p. 411). Credendo che il sonno anormale di Angelica sia il sintomo di una malattia, Rothspeer chiama un medico che, però, appena inizia l’esame fisico della paziente, viene brutalmente allontanato: «ROTHSPEER (si volta, scatta in piedi). Avevi capito, eh? Avevi visto?… Asino! […] Angelica d’ora innanzi, nonché nulla tentare per scoprire ciò che Dio soltanto e gli angeli hanno diritto di conoscere, sarò il vigile, costante, insonne guardiano del tuo segreto» (Angelica, p. 420).
I personaggi che hanno accesso a vedere il corpo di Angelica ne sono allo stesso tempo turbati, imbarazzati e affascinati. In questo senso si può citare il dialogo fra Rothspeer ed Eufrosine:
«Non me l’avevate detto!» «Che cosa?» «Vostra figlia…» «Mia… ». Lampo d’intelligenza, movimento d’indignazione. «Signore, mia figlia ve l’ho data come Iddio l’ha fatta!». «Che c’entra questo? (Una pausa per ambientarsi nella nuova idea). Del resto io non lo so». «Non lo…? ». «Non lo so, non lo saprò mai! mai! mai!» (Angelica, pp. 422-423)
Nell’affrontare l’argomento tabù, Rothspeer sceglie nel finale come interlocutori proprio i lettori, ai quali si rivolge indirettamente mentre rimprovera a Brephus, il quale viene ad annunciargli laconicamente «È su!» (Angelica, p. 425), che aveva finalmente portato di fronte agli spettatori il grande mistero fallico, degno, in essenza, di tutto il disprezzo:
Tu, così pratico, preciso, speditivo, non potevi mancare dall’afferrare la Verità per il naso, inchiodarla con le spalle al muro, presentarla agli spettatori: «Eccola qui, o signori, questa Verità che andate cercando per mari e per monti. L’ho sorpresa nel luogo meno sospetto, in mezzo alla via più dritta, più chiara, dove nessuno si sarebbe sognato di andarla a cercare. La ho ghermita e ve la presento: mirate, o signori, quanto è brutta questa grande ricercata, mirate!». È bene per questo che t’ho lasciato cacciare in tutti i buchi il tuo naso rivelatore. (Angelica, p. 426)
La voce autoriale si confonde nel brano conclusivo con quella del barone. Il suo riso, quando proferisce con patetismo ironico «Eccolo svelato il gran mistero!» (Ibidem), è dell’autore stesso che ha portato la narrazione verso la “grande ricercata”.
Anamorfoticamente, giocando sui doppi sensi, Savinio nasconde nella propria scrittura la presenza dell’ermafrodito, la sua immancabile firma d’autore, ed è solo grazie a tale scoperta che il senso allegorico del romanzo si palesa pienamente. Come gli altri ermafroditi delle opere saviniane, Angelica rappresenta l’artista. È come il cantante del teatro Lanarà, un «divino androgino» al quale manca «l’umana precisione nel guardare» (Tragedia dell’infanzia, in SAVINIO 1995, p. 523). Assomiglia a Nastasia della Casa inspirata, scultrice, cantante e ballerina, «vero androgino del Nord!» (La casa ispirata, in SAVINIO 1995, p. 239), o all’ermafrodito-fanciullo della Tragedia dell’infanzia, che trova la pienezza vitale nel mondo dei propri sogni. Savinio suggerisce l’immedesimazione della protagonista in un bambino: nel suo ininterrotto sonno, «L’Angelica esala un sospiro infantile» (Angelica, p. 418), mentre Brephus, pensando all’impossibile rapporto coniugale fra Angelica e il barone, sente una voce proferendo le seguenti parole: «Guardare un uomo, una donna, un bambino, una creatura umana che dorme!» (Angelica, p. 413).
Come nell’Infanzia di Nivasio Dolcemare, come nella Tragedia dell’infanzia, o nel dipinto in cui Savinio rappresenta un ermafrodito, il sonno è anche nel caso di Angelica l’espressione dell’autarchia spirituale dell’androgino. Non manca dal romanzo neanche quell’occhio divino che veglia sull’essere completo, come nell’appena ricordato dipinto: «…l’occhio di Dio navigava nel cielo» (Angelica, p. 355), dice Savinio nell’incipit del romanzo.
La natura ermafroditica di Angelica è iscritta anche nel suo nome. L’episodio del naufragio della goletta di suo padre, che portava «il nome della figliuola prediletta» è l’indizio inequivocabile. L’unico superstite, il quale viene ad annunciare alla famiglia la tragedia, confessa che su un frammento della poppa «cinque lettere brillavano con un estremo bagliore d’oro: Angel…» (Angelica, p. 377). L’Angelo e Angelica sono lo stesso personaggio. D’altronde lo dice proprio l’autore: «Quell’uomo curvo sull’Angelica, Rothspeer se l’era sognato» (Angelica, p. 429). Non è Amore colui che, di notte, visita Psiche come nel mito antico: Amore e Psiche, animus e anima nei termini della psicologia junghiana, sono riuniti in Angelica.
Il vero argomento tabù è solo a un primo livello di lettura l’ermafroditismo: a livello allegorico è la condizione dell’artista nella contemporaneità di Savinio. In Rothspeer si condensa proprio la realtà di un sistema in cui l’artista appare vincolato, se non addirittura annichilato. È un sistema attento al comfort, alla ricchezza e al potere e totalmente cieco ai valori spirituali. Immediatamente dopo il sublime spettacolo di Angelica, gli spettatori assistono a un altro spettacolo di tutto un altro genere. In un episodio teatralizzato al massimo viene ostentata la sfarzosità della nave di «Herr Baron» (Angelica, p. 358): «CORO DI SPETTATORI. Che bella nave! che bella nave. […] FOTOGRAFO […] Questo, o signori, è l’Arminius […] Chi di voi non bramerebbe possedere questa nave stupenda?…» (Angelica, pp. 359-360). Appare ovvio l’intento di Savinio di ancorare il romanzo alla realtà che stava vivendo. Nessun dettaglio sul barone è casuale: Arminius, come del resto tutto il suo universo, trasmette rigidezza e violenza; lui è l’uomo più potente della Germania dal punto di vista finanziario e detiene un affare di successo con nitrati usati per la produzione di armamenti. Rothspeer incarna la realtà della guerra: è lui il principio generatore della tanatomania, della trasformazione del «consorzio umano […] in un’orda di massacratori» (Angelica, p. 435).
Il barone e il suo mondo stanno sotto il segno di Thanatos, mentre in Angelica risiede il principio antagonistico. Il contrasto fra i personaggi è rivelato da una somma di caratteristiche. In opposizione allo sguardo di Angelica, aperto verso orizzonti illimitati, sovrumani (lei ignora il barone e la nave lussuosa e «torna a guardare il mare […] Sorride agli angioli che volano sulle onde», Angelica, p. 423), spicca l’ottusità dello sguardo di Rothspeer, il quale solo quando si innamora conosce un’apertura minore del suo universo percettivo e, implicitamente, mentale: «Perché? Rasentavo il cancello e non vedevo il giardino…» (Angelica, p. 36). Il grottesco della figura del barone allevia il tono della narrazione. Nonostante sia il veicolo del male, non appare mai spaventevole, minaccioso o magari autorevole o imponente, anzi: è sempre confuso, impacciato, goffo, una vera e propria caricatura. Mentre l’umorismo non può toccare Angelica, la «creatura invulnerabile, lontana, chiusa» (Angelica, p. 410), il barone è la principale fonte del comico. È proprio lui, l’essere infernale, a ridere e a far ridere, perché, come argomenta Savinio stesso in un suo saggio, «le grandi risate si fanno all’inferno» (SAVINIO 1989, p. 1186).
Un’altra differenza significativa è rappresentata dalle diverse nature sessuali dei personaggi. Funziona nel romanzo ciò che Breton intuisce come specificità dell’immaginario di Savinio, sin dal suo esordio, e cioè la raffigurazione di un «mondo sessuale simbolico» (BRETON 1966, p. 368). La sessualità è anche in Angelica o la notte di maggio utilizzata simbolicamente e le sue variazioni indicano infatti le diverse condizioni esistenziali e spirituali. Mentre Angelica è un androgino, un essere completo al quale la stessa nozione di sesso difficilmente può essere attribuita perché la trascende, il barone è abnormemente limitato. Malgrado la sua posizione sociale e la sua ricchezza, il barone è l’immagine dell’impotenza. Un unico affetto domina patologicamente il suo spazio mentale e detta l’oggetto del suo desiderio: prigioniero di una sensazione del proprio passato infantile che torna nei suoi sogni come immagine della madre che lo abbraccia, il barone è attratto sessualmente tanto da Angelica quanto da Brephus (più volte si suggerisce che il barone sia omossessuale), nella misura in cui i due risvegliano in lui il desiderio ossessivo di protezione materna. Circondandosi di armi e munizioni, il barone cerca di dimenticare i frustranti sentimenti di insicurezza e di debolezza. Sono sentimenti contro i quali, di fronte al pieno equilibrio, armonia e serenità dell’ermafrodito irrompono violentemente. Lo strumento con cui il barone mutila l’essere completo è la pistola, un sostituto fallico. È però solo una mutilazione provvisoria a cui fa da eco universale la temporanea tanatomania dalla quale solo una ristretta categoria di persone resta immune: «…uomini e donne, era una gara commovente a chi moriva primo. Caso singolare, gli artisti non andavano soggetti a quella spaventosa tanatomania» (Angelica, p. 435).
La constatazione dell’epilogo e la graduale scoperta della coniugazione dei miti in Angelica comunicano l’ultimo messaggio dell’opera saviniana: nel mondo dominato dalla violenza e dalla morte, gli unici individui la cui anima (come ben si sa, Psiche in greco vuol dire proprio anima) risulta impossibile da storpiare sono gli artisti. Rispetto al piano dell’esistenza comune, essi si situano su un piano diverso della realtà, dove possono rimanere esseri completi (Psiche, come abbiamo dimostrato, si rivela essere l’Ermafrodito). È proprio il mondo governato dal male (Amore è ferito e sovrano è Thanatos) quello che resta incompleto senza gli artisti che per sopravvivere si ritirano in se stessi. Diversi dagli altri (perché la loro anima-Psiche si confonde con Amore), riescono a salvarsi tramite l’autoesclusione, tramite l’esilio autoimposto nel proprio mondo immaginativo dove conservano niente affatto menomate la libertà e l’autenticità, eludendo qualsiasi censura.
Alla luce di tali sensi finali appare chiaro il significato delle presenze meteoriche di altre due divinità: Cronos e Clio, le autorità sorveglianti che esercitano il loro implacabile influsso sul barone, ma per le quali Angelica resta intangibile: «Dorme la fatale fanciulla […]. Clio, amica mia, qui non mi pare conveniente esercitare il nostro mestiere di Icaromenippi. Torniamo, credi a me, nella cabina di von…» (Angelica, p. 364). A differenza di Rothspeer che sotto «Cronos inesorabile» (Angelica, p. 363) si trova da protagonista nella «marcia del tempo» in cui gli viene rivolto «l’inquietante richiamo» (Angelica, p. 366) della Storia, Angelica si situa in una dimensione atemporale in cui «gli orologi non camminano più» (Angelica, p. 436). È il tempo dell’eterno presente, dei sogni e delle visioni. Immersa in una tale realtà di straordinaria densità ontologica, per Angelica, ossia per l’artista per eccellenza che lei rappresenta, «vivere e cessare di vivere sono soluzioni immaginarie. L’esistenza è altrove» (BRETON 2003, p. 49) – come afferma Breton alla fine del suo primo manifesto del surrealismo – cioè in quegli «spazi logici speciali» che si trovano al di là della razionalità, «in cui la facoltà logica, esercitata in tutto e per tutto nel campo cosciente, finora non agisce» (BRETON 2003, p. 92). Nell’opera saviniana, l’accesso del lettore a tali spazi è permesso grazie all’inedita struttura narrativa, la quale, oltrevarcando gli abituali confini formali, approda ad un lirismo che illustra la dimensione onirica in cui è ancorato il personaggio addormentato, come, ad esempio, nel capitolo che inizia con l’esortazione ad un amore totale, che abbraccia tanto l’esistente quanto l’inesistente:
Lebe Wohl! […] Angelica dorme sui cuscini dell’automobile. SUGGERITORE. E tu la guardi. L’hai trovata finalmente quella felicità che ti sfuggiva. Vedi? Era in te il segreto che conveniva svelare, in te l’enigma che bisognava sciogliere […] Guarda: […] le macchine tristi di non avere figlioli, gli alberi pensosi che parlano come sordomuti e gli occhiali che guardano, i guanti che carezzano e gli abiti che passeggiano soli, i letti che dormono senza riposo e le scatole coi loro segreti, i soli tramontati che risorgono senza luce e i frammenti di lune coricati nelle vetrine dei musei, le bambole che non giocano più e le scarpe che hanno dimenticato l’odore delle strade, le città distrutte e risorte per renderti omaggio e gli antenati che ti sorridono dalle finestre del cottage. Che vuoi di più? Inchinati e saluta. (Angelica, pp. 420-421)
La trasfigurazione onirica della realtà è destinata ad aprire al lettore la comprensione della natura eccezionale dell’essere in cui i contrari si annullano in una sintesi divina. La riscrittura surrealistica del mito e l’onirismo dell’opera realizzano un accordo armonioso: il proteismo specifico del sogno si ritrova nella costruzione del personaggio centrale, basata su una serie di condensazioni e spostamenti, nel senso freudiano dei termini. Un’immagine con tutta la sua carica di significati giunge a diventare parte integrante di un’altra in una catena di sottili metamorfosi: Angelica è Psiche; Angelica-Psiche è, come Orfeo (il teatro in cui si esibisce Angelica si chiama “Orfeo”), l’immagine emblematica dell’artista; Psiche si rivela essere Amore; Angelica-Psiche-Amore è l’Ermafrodito. Savinio ha intuito la consustanzialità del sogno e del mito, che tanto Freud quanto Breton hanno avuto in vista. Con le parole di E.R. Dodds, il mito è il sogno della collettività nella stessa maniera in cui il sogno è mito individuale (DODDS 1983, p. 127).
Il complesso personaggio di Angelica, un artefatto mitico la cui esistenza è condizionata dalla parabola labirintica pensata dal suo autore, appare tanto più sorprendente se si considera che alla sua origine si trova un modello reale rappresentato da una grande personalità artistica contemporanea a Savinio. Si tratta della celebre ballerina Isadora Duncan alla quale Savinio in Narrate, uomini, la vostra storia consacra un saggio tra realtà biografica e finzione. Isadora si chiamava anche Angela e la sua bissessualità era nota ai contemporanei; la sua improvvisa e bizzarra morte avviene nel 1927, anno in cui Savinio scrive di getto il romanzo che, in questa prospettiva, si può considerare un elogio della famosa ballerina. Il legame eponimico fra Angelica e “la notte di maggio” è un’eco di alcuni momenti della vita di Isadora:
La creatura danzante venne alla luce il 27 maggio 1878. Maggio deriva da “maggiore”, due e sette danno nove. Perché tanta jattura dunque sulla testa della danzatrice? Sparsi elementi di divinità vagano per l’aria, che taluni uomini afferrano al volo e di cui si compongono un ineffabile abbigliamento. (SAVINIO 2005, p. 244)
Sempre in un mese di maggio Savinio ha la rivelazione dell’importanza rivoluzionaria dell’artista, la quale, tornata nel paese natio, dà uno spettacolo proprio ad Atene. In Isadora Savinio vede un essere divino che «agli uomini anche più opachi, inspirava sentimenti sublimi» (ivi, p. 249). Il sottile legame fra Angelica e il mare, nonché il suo anelito verso la suprema libertà si ritrovano anche nella vita di Isadora: «…l’arte le è stata ispirata dal mare. “La prima idea della danza mi è venuta dal ritmo delle onde […] Il mare mi attira. Le montagne mi rammentano che sono prigioniera della terra, e quando levo gli occhi alle loro cime, non ho desiderio se non di spiccare il volo e liberarmi”» (ivi, p. 245). A differenza di coloro che manifestano per la ballerina un interesse «di carattere puramente estetico» (ivi, p. 260), come il granduca tedesco Ferdinando o come «un signore con faccia di mummia e corpo di ettoplasma» (ivi, p. 255) che alla fine dello spettacolo bacia con forza Isadora – figure che, probabilmente, hanno inspirato a Savinio il personaggio di Rothspeer – Savinio è affascinato dalle idee metafisiche dell’artista, «profonde come i sogni delle statue» (ivi, p. 275). Angelica è lei stessa una «statua» (Angelica, p. 423) che si chiude nei suoi sogni quando il barone le proibisce di ballare. Le innovative teorie di Isadora sul ballo spiegano la sua trasformazione immaginativa in Psiche: «…passavo i giorni e le notti nello studio, cercando una danza che mediante i movimenti del corpo fosse l’espressione divina dello spirito umano. E finalmente scoprii il centro generatore del movimento» (SAVINIO 2005, p. 256). In opposizione ai maestri di balletto che le avevano insegnato che tale centro fosse «all’inizio della colonna vertebrale, Isadora considerava che il ballo scaturisse dal plesso solare, sede dell’anima: “…quando ascoltavo la musica […] le sue vibrazioni convergevano verso questa unica sorgente di luce che era in me, e in essa si riflettevano in visioni spirituali”» (ivi, 257).
Il bricolato e composito personaggio di Angelica racchiude dunque una ricchezza favolosa di significati che partono dall’affascinante modello reale rappresentato da Isadora Duncan sul quale si sovvrappongono le varie valenze dei personaggi mitici con cui viene man mano a immedesimarsi fino a rivelarsi essere l’Ermafrodito, «il divino totale dei totali», come lo definisce Savinio in un altro suo romanzo (SAVINIO 1998, p. 49). Negli stessi anni in cui Breton definiva la surrealtà come quel punto dello spirito in cui i contrari coesistono in armonia (BRETON 2003, p. 64), Savinio, a partire dal suo primo poema con cui esordisce nel circolo dell’avanguardia parigina e continuando con ogni singolo romanzo nonché con varie novelle, ripropone al lettore la figura mitologica dell’Ermafrodito, in cui è iscritta emblematicamente la coincidentia oppositorum che connota l’autarchia spirituale, la piena libertà trovata nel proprio universo interiore. In opere pervase da una vibrante tensione fra mito e realtà, fra il tempo della Storia e il Grande Tempo degli eterni ritorni, fra ciò che è esemplare e atemporale e il presente desacralizzato e disumanizzato, Savinio innalza l’Ermafrodito a rango di sopramito nell’ambito della mitologia personale, di personaggio allegorico fondamentale che tende a inglobare le altre figure che rappresentano l’artista.
SAVINIO Alberto (1998), Infanzia di Nivasio Dolcemare, Adelphi, Milano
SAVINIO Alberto (1953), Tutta la vita, Ed. Valentino Bompiani, Milano
SAVINIO Alberto (1989), Opere. Scritti dispersi. Tra guerra e dopoguerra (1943-1952), a cura di Leonardo Sciascia e Francesco De Maria, Ed. Bompiani, Milano
SAVINIO Alberto (1995), Hermaphrodito e altri romanzi, Adelphi, Milano
SAVINIO Alberto (2005), Narrate, uomini, la vostra storia, Adelphi, Milano
BRETON André (1966), Anthologie de l’humour noir, Jean-Jacques Pauvert
BRETON André (2003), Manifesti del Surrealismo, trad. L. Magrini, Einaudi, Torino,
CARLINO Marcello (1979), Alberto Savinio – la scrittura in stato di assedio, Istituto della Enciclopedia Italiana, Roma
DODDS Eric Robertson (1983), Dialectica spiritului grec, trad. Catrinel Pleşu, Editura Meridiane, Bucureşti