La concezione di divinità e di esseri umani dotati di duplice natura maschile e femminile, ovvero con caratteri esteriori e riproduttivi propri di entrambi i sessi, risale, come è stato da tempo illustrato (JESSEN 1912, pp. 714 ss.), ad antichi culti orientali androgini importati in Grecia e si collega anche a tradizioni popolari, come rituali di matrimonio che prevedevano lo scambio di vesti tra gli sposi. Il mito greco offre esempi di trasformazioni e travestimenti di divinità in esseri di genere diverso dal proprio, e, secondo alcune versioni, vari personaggi mitologici, sia uomini che donne, sperimentarono un cambiamento sessuale, come Tiresia, Ceneo ed altri. A partire dal V sec. a.C. si diffusero ulteriori culti androgini a Cipro ed in Asia minore, ed inoltre la statuaria propose immagini di divinità bisessuate, come una tipologia di Afrodite barbuta, talvolta chiamata Afrodito, secondo una testimonianza di Macrobio (Sat. 3,8,2-3), che attribuisce quest’appellativo ad Aristofane: «A Cipro c’è anche una statua con la barba… ritengono che sia maschio e femmina nello stesso tempo. Aristofane la chiama Aphroditos, al maschile» (MARINONE 1977; cfr. Servio ad Aen. 2,632 est etiam in Cypro simulacrum barbatae Veneris).
Tra gli altri si affermò come modello di natura bisessuale il personaggio di Ermafrodito, figlio di Afrodite e di Ermes, oggetto anche di culto, come è attestato a partire da Teofrasto (Char. 16 «il superstizioso… rincasato, passa tutto il giorno a inghirlandare gli Ermafroditi», PASQUALI 19883), e rappresentato in statue, erme e statuette ispirate sia all’immagine di Afrodite con attributi maschili, sia di Dioniso con tratti femminili, ed in altre forme che risultano diffuse in luoghi pubblici e privati per tutta l’età ellenistico-romana.
Anche la letteratura greca e latina diede un contributo alla fortuna di personaggi connotati da questa ambivalenza sessuale, pur trattandosi di un argomento complesso e problematico dal punto di vista culturale e sociale rispetto alla tradizionale suddivisione dei ruoli, attivi e passivi, tra uomo e donna, che costituiva «il nucleo della riflessione antica sulla sessualità» (vd. SISSA 2003, p. 2; BRISSON 2008, pp. 41 ss.). La rappresentazione favorevole di androgini o di Ermafrodito poteva suscitare reazioni contrarie, conservatrici e moralizzanti, ma, se condotta con sensibilità, acume ed equilibrio, rappresentava l’occasione e lo stimolo per ridefinire ed ampliare i valori culturali (vd. BERNARDI 2002, p. 37), favorendo la riflessione e la discussione, offrendo un esempio di civiltà.
In ambito letterario due sono i passi, rispettivamente in prosa greca ed in poesia latina, in cui viene riservato particolare spazio, in forme diverse ma ugualmente suggestive e coinvolgenti, al «terzo genere», come lo definisce Platone nel Simposio (189e) attraverso le parole del personaggio che ne parla, ovvero Aristofane. Nel trattare questo tema l’attenzione è rivolta in un caso (Platone) a tutta la comunità degli androgini nel confronto con gli altri generi (maschi e femmine), mentre nel secondo caso (Ovidio) l’autore si concentra su un singolo personaggio e sulla sua spasimante/antagonista. Ne risultano due prospettive diverse ma complementari, che qui approfondiamo esaminando i rispettivi racconti.
I due termini «androgino» ed «ermafrodito», utilizzati nel linguaggio moderno come sinonimi (vedi ad es. la voce «androgino» in ZANICHELLI 2008), alludono a miti che hanno in realtà contenuti, tempi e modi assai differenti, pur nel comune interesse per la natura bisessuale negli esseri umani. Nel passo greco si tratta di un interesse scientifico-filosofico (con implicazioni anche astronomiche a proposito del legame tra gli esseri androgini e la luna, per cui vd. infra), come avviene nell’interpretazione di Platone che ne tratta in un’estesa sezione del Simposio (189c-193d), offrendo «un mito antropologico dalle tinte fantastiche» (SAVINO 1985 8, p. XX). Un diverso approccio all’argomento, sentimentale e psicologico, è invece quello offerto dal racconto mitologico, ricco di eros e di pathos, narrato dal poeta latino Ovidio – peraltro non attestato in precedenza – in un passo altrettanto ampio ed ambizioso presente nel IV libro delle Metamorfosi (vv. 285-388), cui si aggiunge un’ulteriore breve menzione quasi alla fine del poema (15, 319), che rievoca e consolida il mito.
Il confronto tra i due autori classici mostra sostanziali differenze, oltre che – come detto – nel numero degli individui coinvolti, anche nella scelta del momento della narrazione in cui viene indicata la duplice natura sessuale dei personaggi, rispettivamente all’inizio ed alla fine del racconto. Differenti sono anche le forme ed i toni espositivi: Platone propone una trattazione di carattere descrittivo, dal tono serio ma pervaso di arguzia, mentre Ovidio, che adotta la forma narrativa, varia i toni seguendo le fasi della vicenda, passando da uno stato d’animo inizialmente sereno a sensazioni inquietanti ed infine ad una visione drammatica dovuta al precipitare degli eventi.
Tuttavia emergono anche interessanti affinità, soprattutto un comune atteggiamento positivo, rispettoso verso gli androgini da parte di Platone ed emotivamente partecipe nel caso di Ovidio, anche se i due autori trattano la bisessualità in modi diversi e quasi opposti. Aristofane mostra di apprezzare razionalmente il genere androgino, collocato in una fase remota dell’umanità, in quanto naturale e legittimo, nonché completo ed utile anche agli altri generi (come risulterà più avanti), tralasciando del tutto gli aspetti estetici, che invece in seguito diventano un tratto caratterizzante (anche nelle rappresentazioni artistiche) nell’idea della singolare bellezza di tali esseri umani. Ovidio, invece, privilegiando la dimensione emotiva e patetica, ed indagando la psicologia dei personaggi, presenta un mito senza tempo in cui Ermafrodito è presentato come uno splendido ed ingenuo quindicenne (Met. 4, 292 tria cum primum fecit quinquennia), inconscio del proprio fascino e vittima involontaria di una metamorfosi di genere, causata dalla passione altrui e degna di compassione.
Esaminando il celebre passo del Simposio (189c-193d), colpisce la scelta di Platone nell’affidare, come detto, ad Aristofane, il commediografo del V-IV sec. a.C., il compito di intervenire nella discussione sull’amore esponendo la teoria dei «tre generi» e del loro rapporto con Eros, peraltro di non facile interpretazione per le implicazioni orfiche, le allusioni a cosmogonie comprendenti la divinità androgina di Eros-Phanes (vd. ARCIONI 2003 ad l., che nota però come proprio Aristofane parodiasse tali concezioni negli Uccelli) e per riferimenti a dottrine non scritte (vd. REALE 2001, pp. 196 ss.). Aristofane sostiene la tesi che l’amore sia l’effetto di «nostalgia e ricerca dell’Uno», ricorrendo ad un’originale spiegazione biologico-mitologica, in cui compaiono, accanto agli altri generi, gli androgini. Si tratta di un discorso ingegnoso e profondo, nonché stilisticamente elaborato (vd. ARCIONI 2003, ad l. che rileva chiasmi, omeoteleuti, allitterazioni ed altre figure retoriche), anche se viene comicamente ritardato da una serie di impedimenti fisici, veri o simulati (i singhiozzi dello stesso Aristofane) ed è introdotto infine da un suo starnuto (Symp. 189a; vd. DE CRESCENZO 1999, p. 33 s.). Peraltro, nonostante l’apparenza goliardica, la scelta curiosa di questo relatore appare saggia e brillante, probabilmente dovuta alla convinzione che le idee innovative da lui espresse non sarebbero state derise facilmente senza rischiare la reazione di un abile derisore quale era Aristofane (REALE 1997, pp. 98 ss.); inoltre, come accennato all’inizio, il poeta comico sembra fosse personalmente interessato al «terzo genere» se si era già occupato del dio androgino Afrodito.
Dopo un’esaltazione della potenza di Eros, Aristofane ricorda le tappe della natura umana, quando i generi erano «non come ora due, maschio e femmina, ma vi era anche un terzo, partecipe di entrambi, il cui nome è rimasto, mentre esso è scomparso; l’androgino allora era un essere unico e per forma e per nome, partecipe di entrambi, maschio e femmina, mentre ora non esiste che un nome dato per infamia» (Symp. 189e, ARCIONI 2003). Il riconoscimento del terzo genere mostra da una parte la fantasia ed acutezza dell’autore, dall’altra suggerisce – specie nell’ultima affermazione critica – un dissenso verso eventuali discriminazioni e diffamazioni legate all’uso del termine «androgino», e sembra invece valorizzare tale categoria, benché ritenuta ufficialmente scomparsa.
Talvolta l’esposizione è vivacizzata da qualche dettaglio comico degno del narratore, anche con allusioni a commedie reali dello stesso Aristofane, ma risulta sostanzialmente seria, come egli stesso ribadisce alla fine del suo intervento rivolgendosi al medico Erissimaco (Symp. 193e): «questo… il mio discorso su Amore, diverso dal tuo, a quanto vedi. Come ti ho pregato, non starmelo a canzonare» (MARZIANO 19858). L’ilarità sorge però inevitabilmente quando Aristofane afferma che gli uomini più antichi erano di forma sferica in quanto formati da due elementi (due uomini, due donne o l’uno e l’altro) aventi una sola testa ma membra ed organi doppi, per cui procedevano su quattro gambe con andatura che, se troppo veloce, causava «capitomboli circolari». I generi erano inoltre collegati ai pianeti «perché il maschio traeva la sua origine dal sole, la femmina dalla terra, quello che partecipava di entrambi dalla luna, perché anche la luna partecipa di entrambi» (Symp. 190b, ARCIONI 2003). Alcune osservazioni aristofanee riguardanti il genere maschile e femminile sembrano riprese poi da Aristotele ( de gen. anim. 1,2,716 a 13-7), mentre il legame degli androgini con la luna richiama l’Inno Orfico 9,4 e sembra imitato in seguito in un passo di Macrobio (Sat. 3,8,3 eadem [Luna] et mas aestimatur et femina, la medesima Luna è ritenuta sia maschio che femmina).
In seguito, a causa della superbia e della sfida degli uomini agli dèi, Zeus avrebbe deciso di punirli ma, secondo il racconto di Aristofane, senza distruggerli, per non perdere il beneficio di onori e sacrifici, bensì tagliandoli decisamente in due parti «come… sorbe… o uova» ( Symp. 190e; cfr. poi «come sogliole» in 191d) per indebolirli, ma così causò in loro il desiderio e la ricerca della propria metà perduta per «creare un essere da due» e completarsi; di qui l’amore (vd. Symp. 191d, con possibile allusione a scritti di Empedocle; vd. REALE 2001, p. 200). Perciò «tra gli uomini… tutti quelli che sono una parte tagliata dal genere congiunto, che allora si chiamava appunto androgino, si rivolgono con desiderio alle donne…, del pari da questo genere discendono tutte le donne desiderose degli uomini» (Symp. 191d, COLLI 1979); diversamente le donne derivate dalla sezione di una donna cercano le loro simili – un’affermazione che offre un raro riferimento all’amore femminile nella letteratura attica classica (vd. DOVER 1980, p. 118) – ed altrettanto i maschi che sono sezione di maschi, da cui deriva un amore maschile, apprezzato dai convitati del Simposio e conforme ai canoni omo-erotici greci (vd. ABBATECOLA 2008, 104 s.). Ne consegue, a ben vedere, l’importanza degli androgini primitivi, giacché da loro, originariamente completi, derivarono, dopo la divisione, gli esseri umani di genere diverso in grado di riprodursi e quindi di perpetuare la stirpe umana.
In seguito, il tema della duplice natura sessuale compare, come detto, nella letteratura latina con l’efficace contributo di Ovidio, l’unico che fornisce (o crea) una vera e propria leggenda riservata al personaggio di Ermafrodito, divenuta modello per i successori come Marziale (in 6,68,9 e 10,4,6) e Stazio (in Silv. 1,5,21). Il racconto è affidato ora ad una voce femminile, Alcitoe, una delle tre sorelle figlie di Minia, re di Orcòmeno ed antenato di Giasone, che rifiutavano di celebrare la festa di Bacco preferendo continuare a filare ed a narrarsi reciprocamente racconti, ma che perciò vennero infine punite con la trasformazione in pipistrelli. Trattando l’argomento in una ricercata forma poetica (vd. LA PENNA 1983), che può ricordare la cura espositiva platonica, Ovidio pone però la natura bisessuale del protagonista non come condizione iniziale della fabula, bensì come punto di arrivo e risultato di una metamorfosi. D’altra parte, anche Ovidio prende spunto per la narrazione da un interesse eziologico (vd. ROSATI 2007 ad 4,285-7), come Platone: infatti, così come Aristofane aveva usato il mito dei tre generi sessuali per spiegare l’origine e la causa dell’amore umano, anche nelle Metamorfosi Alcitoe intende spiegare con un mito l’origine del malefico potere «effeminante» della fonte Salmacide (vd. ROSATI 2007 ad 4,285-7), situata nei pressi di Alicarnasso in Caria e le cui acque erano ritenute capaci di snervare le membra dei maschi: Salmacide era infatti anche il nome della ninfa che abitava la fonte e che per amore avvinse Ermafrodito a tal punto da formare con lui un unico corpo.
Ovidio si concentra su questi due soli personaggi, illustrando inizialmente le doti di Ermafrodito, adolescente bello, sereno e curioso, di indubbio genere maschile, benché connotato da un nomen frutto della fusione insolita dei nomi dei suoi genitori divini, Ermes e Afrodite (Met. 4,291; vd. JESSEN 1912, p. 718; altri sembrano intendere il nome come «Afrodite in forma di Erma», come forse Teofrasto, Char. 16,10 poiché usa il plurale; cfr. GALASSO 2000, p. 930). Ovidio non nomina però inizialmente il giovane, ricorrendo piuttosto a perifrasi (vd. Met. 4,288 Mercurio puerum diva Cythereide natum, un fanciullo nato a Mercurio dalla dea di Citera, BERNARDINI MARZOLLA), e pronuncia il nome solo al termine dell’episodio (Met. 4,382 s. iam non voce virili/ Hermaphroditus ait, non più con voce virile Ermafrodito dice) quando ormai era unito a Salmacide e possedeva due generi.
In verità, non si tratta dell’unico caso di doppia identità sessuale nelle Metamorfosi; poco prima della vicenda di Ermafrodito vi era stato infatti un rapido accenno ad un altro esempio – introdotto con la tecnica della preterizione (rivelata anche dall’uso del verbo praetereo in Met. 4,284) – ovvero la leggenda, altrimenti ignota, riguardante Sitone (Met. 4,279 ss.), di cui Alcitoe dice: «né dirò come fu che una volta, rivoluzionate le leggi della natura, l’ambiguo Sitone fu ora uomo ora donna» (trad. di BERNARDINI MARZOLLA 1994). La narratrice, però, sembra impaziente di raccontare la storia particolarmente nova e dulcis di Ermafrodito e Salmacide, come risulta dall’espressione dulcique animos novitate tenebo (Met . 4,284), tradotta con «vi intratterrò invece con una novità raffinata» (BERNARDINI MARZOLLA 1994; cfr. PADUANO 2000 «vi voglio intrattenere piuttosto con il piacere della novità»; KOCH 2007 «per sedurvi la mente con nuove attrazioni»), anche se dulcis, oltre che alludere alla raffinatezza formale o piacevolezza del racconto, potrebbe riferirsi all’aspetto sentimentale della storia («patetica») ed alla componente amorosa («delicata», anche se non corrisposta e infelice, o forse proprio per quello), data l’attenzione prestata dal poeta alla psicologia di Ermafrodito e Salmacide, rispettivamente pudico e passionale (come non di rado le ninfe). Quanto alla novitas di cui si parla, termine che comprende concetti di novità e stranezza, essa sembra riferirsi qui all’esclusiva rivelazione della causa, nota a pochi, del potere nefasto della fonte, come annunciato in Met. 4,287 causa latet (la causa è nascosta), creando un clima di attesa.
Nel racconto ovidiano le emozioni si accumulano e susseguono velocemente. All’inizio il poeta rievoca con particolari lieti e promettenti l’infanzia di Ermafrodito, trascorsa sul monte Ida in Frigia in Asia Minore, da cui, divenuto adolescente, egli era partito per viaggiare vagando per luoghi e fiumi «ignoti» – un termine su cui Ovidio insiste con poliptoto (Met. 4,294 ignotis errare locis, ignota videre/ flumina gaudebat, si divertiva a errare per luoghi sconosciuti, a vedere fiumi sconosciuti), forse per sottolineare l’ingenuità del ragazzo –, fino a giungere al luogo abitato dall’antagonista nel racconto, la ninfa Salmacide. Anche quest’ultima, il cui nome appare attestato fin dal V sec. a.C., peraltro come toponimo legato al culto di Ermes e Afrodite (vd. GALASSO 2000 ad vv. 271-388), e come sorgente già in Ennio ( Scen. 18 V.2), ma mai insieme ad Ermafrodito, è oggetto di introspezione psicologica da parte del poeta, che ne mostra il carattere capriccioso, sensuale e volitivo.
Ella vive in un locus amoenus rappresentato da un laghetto, limpido e trasparente – luogo tradizionalmente legato alla bellezza naturale, ma anche ambiente ideale per attuare metamorfosi (vd. ZALAMEA 2007, p. 91) e per sedurre ingenui giovani e fanciulle –, che fin dall’inizio appare vagamente inquietante per la sua insolita trasparenza e l’anomala assenza di canne ed alghe (cfr. ROSATI 2007 ad 4, 294-301). Singolare è anche l’ostentata indifferenza di Salmacide per l’attività della caccia, nonostante le esortazioni delle compagne – ma ella volgerà di fatto il suo istinto di cacciatrice su Ermafrodito stesso –, e la sua scelta di una vita dedita ad esaltare la propria bellezza, bagnandosi nel lago, pettinandosi, specchiandosi, acconciandosi, vestendosi e raccogliendo fiori, come il poeta sottolinea con sorridente accumulo di immagini e di azioni graziose, tra ironia ed autoironia. Sembra esservi infatti qui un’allusione ai suoi stessi poemetti didascalici, tra cui quello sui cosmetici femminili (Medicamina faciei femineae), composto poco prima delle Metamorfosi e che la stessa ninfa sembra seguire nella cura della sua persona. L’esperienza ovidiana quale poeta d’amore emerge inoltre poco dopo nella descrizione dell’improvvisa infatuazione di Salmacide alla vista di Ermafrodito, dei conseguenti preparativi e delle tecniche di seduzione approntate per avvicinarlo e conquistarlo, come l’accurata disposizione del velo che la avvolgeva – con insistito uso di verbi composti con prefisso circum (vd. circumdata in Met. 4,313 e circumspexit al v. 318), che sembrano anticipare il successivo “accerchiamento” fisico del giovane – e la studiata espressione del viso (Met. 4,318 s. circumspexit amictus/ et finxit vultum).
Tuttavia i modi civettuoli di Salmacide si intrecciano con pensieri e desideri quasi maschili, come la brama di «possedere» Ermafrodito ( Met. 4,316 cum puerum vidit visumque optavit habere), che mostra, anche nella scelta del verbo (habere), una determinazione propria di dèi o di uomini invaghiti di fanciulle (vd. GALASSO 2000, p. 934). Similmente il discorso che la ninfa rivolge a Ermafrodito nel tentativo di una captatio benevolentiae ricorda le parole di un uomo, Ulisse, rivolte a Nausicaa in una scena simile, con ulteriore inversione di ruoli nel corteggiamento: la sua apostrofe al giovane (Met. 4,323 puer dignissime credi/ esse deus, seu tu deus es, potes esse Cupido , o fanciullo degnissimo di essere preso per un dio, e se sei un dio puoi esser Cupido…, BERNARDINI MARZOLLA 1984) crea tra l’altro una complicità tra l’autore ed i lettori riguardo a Cupido, citato dalla ninfa come convenzionale termine di paragone per la bellezza, ma realmente unito ad Ermafrodito dalla madre comune, Afrodite. Tuttavia il giovane, lontano dal corrispondere la ninfa, si copre di pudico rossore che ispira al poeta vari paragoni, tra cui – oltre a quelli con i frutti esposti al sole e con l’avorio velato di porpora – anche quella con la luna «che sotto il suo candore rosseggia quando invano si fa frastuono col bronzo per sventare l’eclissi» (Met. 4,332 s.), un’immagine che potrebbe ricordare il legame, già menzionato da Platone, tra il futuro androgino ed il satellite della Terra le cui eclissi erano ritenute effetto di un sortilegio (e perciò stornate con sonorità metalliche, come detto nel verso; vd. LAFAYE 1928 ad l.).
Quando le profferte d’amore e di matrimonio della ninfa vengono respinte bruscamente da Ermafrodito (Met. 4,335 desines? la smetti?), Salmacide finge di ritirarsi ma, mentre il giovane nuota nudo nel lago, lo assale con violenza nell’acqua circondandolo in un amplesso (Met. 4,360 hac… circumfunditur illac) che il poeta rappresenta con forza icastica ricorrendo a quattro similitudini (che possono ricordare quelle quasi altrettanto numerose introdotte da Platone a proposito del “taglio” dell’uomo in due parti voluto da Zeus): si tratta dapprima del paragone con un serpente, poi con l’edera e ancora con un polipo ( Met. 4,362 e 365 s.), che sottolineano la forza ma anche la brutalità del rapporto, cui si aggiunge più avanti quella con due rami cresciuti insieme perché uniti da una corteccia (Met. 4,375 s.), che sembrano però ingentilire alla fine l’immagine della fusione dei due corpi con un’immagine pacifica e sostanzialmente positiva, benché si tratti verosimilmente di un innesto e quindi di un’unione artificiale. L’ansia di congiungimento fisico della ninfa potrebbe peraltro ricordare il desiderio di completamento espresso anche nel passo del Simposio platonico, dove però l’unione con la propria metà è basata sull’amore sia fisico che spirituale, e soprattutto sulla ricerca di un amato di indole conforme alla propria, l’anima gemella (Symp. 193c).
Dalla fusione tra Salmacide ed Ermafrodito, che avviene anche per volontà e complicità di dèi favorevoli alla ninfa, si genera dunque una nuova ed unica figura con gli attributi di entrambi i generi o forse, come aggiunge ambiguamente Ovidio, con «nessuno dei due» ( Met. 4,377 ss. sic, ubi complexu coierunt membra tenaci,/ nec duo sunt sed forma duplex, nec femina dici/ nec puer ut possit nec utrumque et utrumque videtur , così, quando le membra si congiunsero nell’abbraccio tenace, non sono due ma una forma duplice, né si potrebbe dire se sia femmina o maschio, e non sembra entrambi eppure sembra entrambi). Emerge qui peraltro un sottile problema testuale che divide gli editori al v. 379 tra la lezione nec utrumque, attestata dalla maggioranza dei codici e che qui scegliamo in funzione del gioco verbale presente nel verso, ovvero la ripetizione ravvicinata dello stesso termine utrumque con e senza negazione (così nell’edizione di ANDERSON 1993), e la variante neutrumque, che normalizza il testo ed è attestata da soli tre codici ( McNcL, di cui due corretti da una prima o seconda mano; cfr. gli apparati di ANDERSON 1993 e TARRANT 2004), accolta da altri editori (LAFAYE 1912, TARRANT 2004).
Ovidio accentua dunque l’aspetto involontario della condizione bisessuale di Ermafrodito, frutto di una trasformazione forzata. D’altra parte, pur giustificando il giovane, lascia trasparire un vago atteggiamento critico e moralistico – forse anche per deferenza alla moralità augustea – sia verso la condotta della ninfa, benché vittima della passione, per la condizione ambigua ed infelice che causa nel giovane, sia verso la fonte stessa che mostra una natura maligna complice della violenza, già connotata in apertura del passo dall’epiteto infamis (Met. 4,285 ss. unde sit infamis, quare male fortibus undis/ Salmacis enervet… artus/ discite , apprendete da dove Salmacide tragga la sua cattiva fama, perché snervi… le membra con le sue acque vigorose). L’atteggiamento critico dell’autore risulta anche più evidente nella breve ripresa di questo stesso mito nel XV ed ultimo libro delle Metamorfosi, nell’ambito di un discorso sui quattro elementi ed in una rassegna di acque note per i loro poteri, dove al v. 319 è usato il più forte attributo obscena riferito a Salmacide, interpretabile come «innaturale, immorale, impudica» ( cui non audita est obscenae Salmacis undae?, chi non ha sentito parlare dell’impura sorgente Salmacide?, PADUANO 2000), qui preferibilmente con valore causativo nel senso di “che rende innaturali, effeminati” (vd. BÖMER 1986, ad Met. 15, 165/166, p. 339 «mit praegnanter faktitiver Bedeutung de eo quod hominem obscenum facit»; cfr. BERNARDINI MARZOLLA 1994 «che fa sdilinquire?»).
Ad Ermafrodito – consapevole di essere diventato da vir unsemimas «un maschio a metà» (Met. 4,381 e cfr. semivir poco dopo al v. 386), con un termine che ricorda i sacerdoti di Cibele (vd. Ov. Fast. 4,183) ed in particolare la tragica esperienza di Attis, sacerdote della dèa eviratosi nell’invasamento religioso, cantata da Catullo (vd. carm. 63,6 ut relicta sensit sibi membra sine viro) –, non resta che maledire la fonte rendendola causa di ulteriori simili metamorfosi (Met. 4,385 s. quisquis in hos fontes vir venerit, exeat inde/ semivir, ogni uomo che scenda in questa fonte ne esca semiuomo, BERNARDINI MARZOLLA 1994) per intervento dei genitori, che contaminano le acque, dando un’amara consolazione al figlio ormai biformis (Met. 4,387 s. motus uterque parens nati rata verba biformis/ fecit et incesto fontem medicamine tinxit , commossi i due genitori alle frasi dell’ibrido figlio, l’esaudirono e sciolsero nello stagno un filtro malefico (KOCH 2007), dove peraltro emerge il problema testuale della scelta tra incesto («impuro, contaminato, inverecondo»), variante di pochi codici (e non ben leggibile in essi; vd. l’apparato di TARRANT 2007 ad l.), ma difficilior e pertinente al contesto, specie in senso causativo, e la lezione incerto (così ANDERSON 1993), ben attestata ma lectio facilior e meno coerente (se non allusiva alla futura incerta identità sessuale provocata dal filtro).
La maledizione finale chiude così amaramente la vicenda con una vendetta, come in altre opere e poemi – tra cui l’Eneide, che termina bruscamente con l’uccisione di Turno per vendicare Pallante –, mostrando un lato oscuro di Ermafrodito ormai lontano dall’innocente ed innocua adolescenza iniziale, e forse a sua volta moralmente biasimevole, a meno che egli non nutra invece il nobile intento di intimorire altri giovani con la minaccia del mutamento di genere e quindi di allontanarli dal luogo per salvarli. È Ovidio stesso, in ogni caso, che, rivelando ora la misteriosa causa della cattiva fama di Salmacide, si pone come buon consigliere dei lettori.
Non sembra comunque che l’aggettivo obscenus presente nell’ultima citazione del mito nel XV libro delle Metamorfosi implichi aspetti apertamente immorali, come avverrà invece in altri generi letterari e nei secoli successivi, ad es. nell’epigramma latino 37 del Panormita (sec. XIV-XV), autore di una piccante raccolta intitolata Ermafrodito in cui si afferma tra l’altro, alludendo verosimilmente al passo di Ovidio ed ironicamente al pudore del suo protagonista, « hic obscena loqui simul et patrare licebit/ nec tinget vultus ulla repulsa tuos » (GARDINI 2017 ad l., «qui sarà consentito dire e fare sconcezze,/ né ripulsa ti arrossirà la faccia»).
Dai testi classici analizzati emergono dunque due possibili letture – filosofica e poetica, razionale e sentimentale – della natura e delle esperienze di androgini e di Ermafrodito, che offrono un quadro interessante dell’apertura intellettuale e della sensibilità dei loro autori antichi, greci e romani, nonché dell’uso o della creazione di miti (poiché in entrambi i casi i racconti narrati non hanno precedenti) per scopi culturali, sociali e didattici. Alle autorevoli interpretazioni letterarie di Platone e di Ovidio si aggiungono le rappresentazioni degli stessi o di simili soggetti anche nelle arti visive e plastiche: la scultura, soprattutto, offre raffinati esempi di statue della prima età imperiale dai tratti effeminati, ispirate ad Afrodite e a Bacco, tra cui spicca il tipo dell’«Ermafrodito dormiente» di cui famosi esemplari sono tuttora conservati sia al Louvre, sia presso il Museo Nazionale Romano di Palazzo Massimo ed altrove. Anche da queste immagini traspare il novum ed il dulce di cui parlava Ovidio per Ermafrodito, così come la naturalezza valorizzata da Platone riguardo agli androgini, con l’implicito invito da parte di entrambi a conoscerne la storia ed a rispettare ogni forma di esistenza umana.
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