Nel Romanzo di una vita lo scrittore tedesco Thomas Mann ricostruisce a tappe il suo percorso biografico vissuto a cavallo fra il XIX e il XX secolo, mentre l’Europa collassava su se stessa e si apriva a un futuro ancora labile nei contorni. Nei testi che compongono il libro assistiamo a come una vita genera un’opera ma anche al processo inverso: alla genesi di opere che conquistano vita propria, incistandosi nell’immaginario collettivo. È il caso del Doctor Faustus (1947), la cui nascita viene ricostruita nello scritto intitolato Romanzo di un romanzo. La genesi del Doctor Faustus (1949), in cui l’avvilupparsi fra biografia e finzione è così intricato da rendere indistinguibile il confine fra vita e opera, narratore e personaggio, scrittore e testo. In questo saggio autobiografico di quattordici capitoli, Mann ricuce i suoi appunti di scrittura del romanzo, stesi nel corso degli anni, con una tecnica raposodica: a far da filo di unione fra gli appunti sono i ricordi di eventi personali sullo sfondo della fine della Seconda Guerra Mondiale, quasi che fra le vicende di un uomo che stringe un patto col diavolo e quelle dell’umanità, alle prese col male storico delle dittature e delle devastazioni ci fosse un legame invisibile, ma tenace. A rendere ancora più complesso il testo è il rimando fra una autobiografia, quella di Thomas Mann, e una biografia fittizia, quella del compositore Adrian Leverkühn scritta da Serenus Zeitblom, doctor philologiae. A illustrare questa scelta è Mann stesso:
Dagli appunti di allora non risulta in quale momento io abbia deciso di interporre fra me e il mio argomento la figura mediatrice dell’”amico”, ovvero di non narrare io stesso la vita di Adrian Leverkühn, lasciando che la raccontasse un altro, e di non scrivere un romanzo ma una biografia con tutte le caratteristiche che contraddistinguono questo tipo di opere. […] Quel che guadagnai con l’inserimento del narratore fu però prima di tutto la possibilità di sviluppare il racconto su due piani temporali e di collegare polifonicamente le esperienze che turbano il narratore nel momento in cui scrive con le vidende che racconta. […] che il professor Zeitblom inizi a scrivere lo stesso giorno in cui, in effetti, anche io cominciai a vergare le prime righe è un fatto significativo per l’intero libro: per la particolare realtà che gli è propria e che, per un verso, è un espediente artistico […] mentre per l’altro verso esprime una mancanza di scrupoli provata nel montare fatti reali, storici, personali e letterari, la cui fantastica meccanica mi lasciava sbigottito. […] Questa tecnica di montaggio, sempre sorprendente e persino sospetta ai miei occhi, è parte integrante della concezione del libro. (MANN 2016, pp. 770-1)
Se dunque il Doctor Faustus è una biografia fittizia con rimandi alla realtà, la Genesi del dottor Faustus è una autobiografia reale con rimandi alla finzione letteraria. Su questo limes polifonico, iperletterario e difficilmente riproducibile su una ideale mappa teorica dei generi letterari, si collocano alcune opere recentemente pubblicate da scrittori italiani che hanno deciso di raccontare sia il romanzo della loro vita che la vita dei loro romanzi, addentrandosi, in alcuni casi, nel cuore stesso della tradizione letteraria o, in altri, nei meandri delle loro matrie.
Fra questi territori si arrischierà anche questo articolo che si soffermerà, in particolar modo, sull’ibridazione fra autobiografia e romanzo, che ha maturato nella riflessione teorica la nascita di generi intermedi come l’autobiografia romanzata, il romanzo autobiografico o come «l’autofiction: una specie di autobiografia aumentata che pretende di superare l’inefficacia del romanzo con una iniezione di verità, e di dare forma (quindi senso) a quella cosa informe che è la vita» (SITI 2017). Per Siti, tuttavia, quella della «autofiction» è una scelta superata dalla rinnovata consapevolezza che l’autobiografia è in realtà un ostacolo all’autentica espressione di sé che può fluire solo da un mascheramento dell’io dietro sagome narrative che permettano all’io di confessare anche le verità più torbide e inenarrabili. “Io sono un altro”, sembrerebbe ripetere Siti per confermare il ritorno a una narrativa puramente finzionale e, pertanto, più vera.
Cosa accade invece se l’io, per essere un altro e autentico, si trincera dietro i libri che ha scritto, i libri che ha letto, le città che ha abitato, gli scrittori che ha amato, i fantasmi della sua terra? E se gli altri fossero tutte le esperienze, letterarie ed extraletterarie, vissute e sedimentate nella sua memoria? Sono alcune delle ipotesi di lettura prospettate dai due testi che verranno analizzati:La città interiore di Mauro Covacich e Il cortile del Tasso di Ruggero Savinio.
Un luogo è un linguaggio: La città interiore di Mauro Covacich
«Un luogo è un linguaggio: noi possiamo essere “qui” solo accettando le regole linguistiche che lo inventano» scrive Giorgio Manganelli nel saggio omonimo, presente nella raccolta La letteratura è menzogna (MANGANELLI G. 1985, p. 44) e dedicato a uno dei classici contemporanei della letteratura fantastica del Novecento, Flatland di Edwin A. Abbott. Abitare in un hic et nunc, reali o di carta, deriva dunque solo dal contratto linguistico che siamo disposti ad accettare. Aggiunge Manganelli:
Il linguaggio, pipistrello pendulo dai propri piedi, universo che ci impedisce di precipitare nel nulla reggendosi alle proprie mani allacciate, assoluta contraddizione che è tuttavia l’unica sede abitabile, è intimamente imparentato ad altro, a gesti ambigui, tra frivoli e cerimoniali: al gioco. […] un linguaggio è un gigantesco «come se»: una legislazione ipotetica che in proprio luogo inventa i propri sudditi: i luoghi, gli eventi. (MANGANELLI G. 1985, p. 44)
Come un linguaggio o una pluralità di linguaggi possa creare un luogo è quanto descrive Mauro Covacich ne La città interiore, il romanzo autobiografico della sua famiglia, della sua formazione e di Trieste sullo sfondo della seconda metà del Novecento. La data con cui si apre il racconto è il 4 maggio 1945: da pochi giorni è stata proclamata la liberazione dell’Italia dai nazifascisti e Trieste è stata occupata dalle truppe di Tito. Un bambino cammina fra le macerie diretto al borgo teresiano affidandosi solo all’ «infallibile magnetismo di un uccellino cresciuto per strada» (COVACICH 2017, p. 11). Chi è quel bambino? Risponde la voce narrante: «ora il bambino sono io». Ma se il narratore parla con noi lettori in italiano, il bambino si rivolge a suo padre in dialetto e gli chiede: «Papà semo in guera?». Il papà lo rassicura che non sono in guerra, che la città è divisa in due zone e che loro sono in zona A, qualla occupata dagli Americani, mentre i titini sono in zona B « perché i grandi capi dela tera ga deciso che la linea fra i boni e i cativi passa proprio drio la cità. Ala fine ghe gavemo da’ anche un toco nostro, xe meio, cussì i sta calmi » (p. 15).
Ma essere un italiano che vive in zona A sembra non convincere il bambino della sua identità, perché un problema linguistico e identitario si affaccia nella sua testa:
Se sono italiano, perché mi chiamo Covacich? Anzi, se son italian, perché me ciamo Covacich? I miei pensieri andrebbero tutti espressi in dialetto, evito di farlo solo per non appesantire il testo più del necessario, ma i triestini pensano così, e sarà solo al terzo anno di permanenza fuori città che una mattina, da giovane insegnante di liceo a Pordenone, mi alzerò dal letto sconvolto per aver sognato in italiano. Comunque sia, tornando al 1972, non serve certo un bambino sveglio come me per capire che il nostro cognome starebbe molto meglio in zona B. Sento puzza di impostura. (COVACICH 2017, p. 17).
Per capire questa «impostura», Covacich si fa investigatore del suo passato e di quello di Trieste, della sua interiorità e della sua città, incrociando nel percorso di ricerca anche tutti gli “altri” che l’hanno vissuta, ciascuno con i suoi linguaggi e i suoi idioletti, perché Trieste ha il suo centro nell’idioma “matrio” ma sa decentrarsi con naturalezza nell’italiano “patrio”, nel tedesco di memoria asburgica, nello sloveno confinante, nell’inglese di transizione parlato da Joyce o dalle truppe americane, nelle lingue delle minoranze greche ed ebraiche stratificatesi in città. La «fluttuante simultaneità» (p. 209) di queste identità linguistiche è colta da Jan Morris, autrice del saggio Trieste and the meaning of Nowhere in cui la nozione di nessun-luogo evocata ha connotazioni diverse da quelle più note discusse da Marc Augè in Non luoghi. Introduzione a una antropologia della surmodernità. Se per lo studioso francese i non-luoghi sono quelli che, come i centri commerciali o le sale d’aspetto aereoportuali, sono privi di una identità storica e di una traccia umana che li renda unici e riconoscibili, per Jan Morris e per Covacich Trieste è nessun-luogo perché immersa, a tratti drammaticamente, nella storia e allo stesso tempo fuori da essa, contesa da due stati ma al di fuori di essi, aspirante ad una patria ma sempre matria verso tutti gli spiriti peregrini che la attraversano. Una città, dunque, dall’anima relazionale e policentrica, non dubbia ma dubbiosa perché oggetto di costante autoriflessione da parte di chi vi transita:
il che, in altri termini, è ciò che afferma Quarantotti Gambini a pochi mesi dalla morte in una intervista dai tratti definitivi: “Se un giorno dovessi scrivere la mia autobiografia, la intitolerei Un italiano sbagliato. Come uomo, sento di essere qualcosa di simile a uno straniero in patria” (COVACICH 2017, p. 21)
Il senso di alterità fonda intimamente e contraddittoriamente l’identità triestina conferendole, però, una sfumatura ribelle che potrebbe farla lentamente scivolare verso il suo opposto in un fluttuare instabile e critico, simile alla parabola esistenziale compiuta dalla stessa Jan Morris, che quando nel dopoguerra approda a Trieste è solo e ancora James Morris. La vocazione sovversiva di Trieste è osservata ed esaltata da Covacich sempre da una prospettiva linguistica, a partire dal riferimento agli studi di Gilles Deleuze e Félix Guattari sulla letteratura minore, ovvero una letteratura che fa «un uso minoritario di una lingua maggiore» o della lingua dei dominatori. È il caso di Kafka che plasma il tedesco asburgico a immagine delle sue contraddizioni; è il caso di Svevo che nell’oralità pensa e parla in dialetto ma nello scritto predilige l’italiano, la lingua imparata a scuola, per smascherare l’inettitudine dei suoi personaggi. Così commenta Covacich:
In ogni caso, sia Kafka che Svevo trasformano il difetto di fabbrica in una risorsa. Anche quando trovi casa nella scrittura, la lingua con cui scrivi è lì a rammentarti che non sei a casa tua. È un disagio di cui puoi fare tesoro. Vivere la sensazione vaga e persistente di essere un intruso nel proprio cervello. “È un’autobiografia e non la mia” dirà Svevo a proposito della Coscienza, in una lettera a Eugenio Montale del 1926. (COVACICH 2017, p.156)
La definizione sveviana, «è un’autobiografia e non la mia», sembra penetrare le pagine della Città interiore e arricchirla di significati nuovi. Anch’essa infatti è un’autobiografia ma non quella dell’autore secondo la struttura classica dell’autobiografia moderna, che prevede un racconto scandito in fasi progressive della propria vita al centro della quale si colloca una conversione o un significativo passaggio esistenziale verso scelte differenti. Covacich predilige, al contrario, una narrazione rapsodica e frammentaria che sembra cucire gli appunti e le riflessioni contenute in un ideale zibaldone di pensieri che sa aprire l’io all’altro, pur nella cognizione che i confini fra ciò che chiamiamo “io” e ciò che definiamo “altro” sono fantasmatici. La reciproca invasione di campo provoca anche quella di genere fra autobiografia e romanzo (auto)biografico; fra i ricordi personali si annidano infatti quelli di altri personaggi di confine, le cui vite sono ripercorse in modo sussultorio. Per comprendere più intimamente l’operazione memorialistica compiuta da Covacich, giunge in soccorso Manganelli quando annota che:
Avvolto nelle spire, nella sfera del suo linguaggio, non solo lo scrittore non è contemporaneo agli eventi che sono riusciti a procurarsi una cronologia non incompatibile con la sua biografia; ma nemmeno è contemporaneo a quegli altri scrittori con i quali convive, se non quando anch’essi siano in qualche modo coinvolti nel medesimo linguaggio. […] Dunque non gli eventi storici, non il salvacondotto delle storie letterarie ci danno accesso alla letteratura ma la definizione del linguaggio che in essa si struttura. (MANGANELLI 1985, p. 220)
La coabitazione linguistica, di cui parla Manganelli, è evocata da Covacich quando, sul finale della Città interiore, si confronta con Fulvio Tomizza, lo scrittore istriano che dedica alla sua terra lacerata, abbandonata e poi recuperata, il romanzo eponimo Materada (1960), che Covacich vuole sfogliare assieme ai suoi stessi lettori in un gioco di rimandi costanti fra Tomizza e se stesso, fra testo e realtà, fra il passato e il presente; un ludus dai risvolti dolenti perché dietro Francesco, il personaggio protagonista e voce narrante di Materada, c’è Tomizza, il quale fu costretto nel 1954 a scegliere se rimanere nella sua “matria” natale, inclusa nella zona B dell’Istria che confluì nella Jugoslavia, oppure se partire verso la sua “matria” culturale, Trieste che, collocata nella zona A, tornò all’Italia. Tomizza optò per l’esilio in Italia ma, dopo la dissoluzione jugoslava, si ricongiunse con la sua terra, dove morì nel 1999. Si tratta, dunque, di un romanzo autobiografico che matura dentro un’urgenza storica che Covacich coglie sia nell’introduzione per la nuova edizione (Bompiani, 2015) del testo, sia nella Città interiore, dove la riflessione letteraria si accompagna a quella autobiografica: Covacich svolge un viaggio di formazione in quei luoghi ed è come se ogni tappa corrispondesse a una pagina del libro su cui soffermarsi per immergersi nel flusso degli eventi e nell’animo dei personaggi. Compresso fra letteratura e vita, il fiume del tempo scorre a ritroso:
D’un tratto capisco di non aver compiuto una corsa sul posto, ma anzi di essermi allontanato moltissimo. Materada racconta quanto sia lontana Trieste per Francesco, la sua famiglia e tutti gli uomini e le donne che hanno caricato sul carro “un sacco di piccole cose che non servivano a niente” nella speranza di portare con sé la vita, e invece la vita è rimasta qui, strappata via dal corpo che si rimpiccioliva all’orizzonte. Di là ne hanno cominciato un’altra, per alcuni bella, per alcuni brutta, ma non è stata più la vita di prima. Nemmeno alla fine del libro Francesco può sapere come gli andrà a Trieste – ma il suo sguardo contiene sin dall’inizio quello strappo, quella mutilazione. Anche la rinascita più felice comporta una perdita irreparabile che, a ripensarla ora, mi sembra radicata nella memoria minerale del desco su cui sto consumando la mia sosta. (COVACICH 2017, p. 217).
Speculare a quella di Tomizza, la vicenda del poeta croato Ivan Goran Kovačić, che nel poema Jama mise in versi lo sdegno verso gli orrori della guerra, da lui sperimentati come partigiano anti-nazista, destinato poi a una morte cruenta e insepolta, così come preconizza uno dei suoi versi più celebri effigiato da Covacich in esergo al romanzo A nome tuo: «splendore e tenebra è il mio sangue». Sempre in nota a questo romanzo, lo scrittore triestino lo ricorda:
Ivan Goran Kovačić, ucciso sul fronte bosniaco nel luglio del 1943 mentre partecipava alla lotta partigiana, ha lasciato un poema intitolato Jama (Fossa) a lungo imparato a memoria nelle scuole della federazione jugoslava come grado contro la tortura e gli omicidi di massa. Purtroppo non posso vantare alcun grido di parentela con Ivan Goran, eppure guardando le foto di questo ragazzo col ciuffo, leggendo e rileggendo ciò che ha scritto, so di essere suo fratello (d’altronde i fratelli veri vanno scelti). (COVACHIC 2011, p. 339)
Come se fosse il suo alter ego italiano, Covacich intraprende un pellegrinaggio fra le montagne dove Ivan Goran potrebbe essere stato ucciso per riappropriarsi di quella metà esistenziale da cui forse è stato separato. È un viaggio di formazione che, pur essendo raccontato nella parte finale della Città interiore, sembra procedere à rebours verso le matrici stesse della scrittura dell’autore che coincidono poi con le origini stesse della sua terra e dei suoi drammi storici:
per me, che trascorro il pomeriggio a spianare le pagine di Jama senza nessun pudore, qui nella mia cameretta di bambino – quindi sono tornato da mamma? Non sto nella casa nuova?, sta accadendo prima del viaggio a Materada?, prima della mia vita a Roma? Quando ho cominciato davvero la cosa che sto scrivendo? (COVACICH 2017, p. 223)
A questo quesito, Covacich risponde parzialmente nella Nota, a chiusura del libro, in cui ricorda che alcuni episodi erano già apparsi nel romanzo autobiografico A nome mio (2011) sotto forma di «appunti ( sic erat scripta) per una saga familiare a cui giuravo non mi sarei mai piegato e che invece, per certi aspetti, potrebbe essere questa» (p. 232). La città interiore infrange dunque la barriera della finzione e del continuum romanzesco per declinare in una chiave più marcatamente autobiografica e asistematica la narrazione in prima persona di A nome tuo, il quale già intervallava il racconto, in parte fittizio in parte autentico, del viaggio lungo le rotte del Mar Adriatico del protagonista con capitoli diaristici e retrospettivi intitolati Appunti per Angela, nei quali è già in nuce la Città interiore. Il rapporto fra i due testi è, quindi, archetipico, come conferma anche la pseudo-lettera all’autore posta in epilogo:
Caro Mauro Covacich,
non credo che resterà sorpreso dalla mia lettera. Chi vive ogni santo giorno nella menzogna di certo immagina che prima o poi qualcuno verrà a smascherarlo, forse addirittura lo desidera. D’altronde lei è degno figlio di Trieste, se capisce cosa intendo, diciamo che ha coltivato al meglio la sua eredità. Ecco vede, già scrivere il suo cognome in questo modo mi sgomenta. Lei saprà, spero, che nella nostra letteratura è esistito un gigante come Ivan Goran Kovačić e che oltre il vecchio confine ci sono interi villaggi di gente chiamata così. […] Fingere di non conoscere la propria lingua madre è stata solo una prima avvisaglia del suo essere, tanto in superficie quanto nelle profondità più recondite. […] Ma lei non ci ha fregati, ecco cosa ho capito tornando a casa. […] E sa perché? Perché non c’è un Mauro Covacich più autentico nascosto in chissà quale anfratto della sua massa cerebrale, così come non esiste esortazione più insensata di Sii te stesso. Lei, come ogni altro essere umano, è già se stesso, è sempre se stesso. Semplicemente, lei è quello che fa. E cosa fa quel tizio smilzo che a quanto pare ha smesso di scrivere e ora gira video di tre ore nei quali corre in mutande? Fa proprio quello che ha sempre fatto: mente. Quindi lei non ci ha fregati, mentendo ha rilasciato una deposizione più autentica, mentendo ha detto la verità: lei non ha segreti per noi. E questa, se permette, è la sua colpa peggiore (COVACICH 2011, p. 337)
Covacich pare risalire alla definizione esiodea di letteratura come una menzogna simile al vero e capace, proprio perché inautentica, di sedurre e parlare al lettore come nessuna verità dichiaratamente tale potrebbe fare. Ma se Esiodo collocava la poesia nell’ambito della menzogna, Covacich invece colloca un testo di autofiction, che dovrebbe invece basarsi sui presupposti opposti di veridicità e completezza, basati sugli sforzi dell’autore di scavare quanto più è possibile nel sottosuolo del suo io per riportare alla luce e condividere col lettore i frammenti della sua vita ritenuti più significativi.
L’epistola suona dunque come una auto da fé parodistica verso il mondo delle scritture dell’io, accusate non di nascondere ma di rivelare troppo quei segreti che dovrebbero rimanere taciuti o che almeno Covacich era convinto che dovessero rimanere tali: mescolati al dato romanzesco e posti in ombra da una «verità artistica che non è meno vera di quella schiettamente autobiografica» (GRISI 2011, p. 34). Ma l’ironia è anche rivolta verso se stesso, le proprie origini triestine, le proprie performances artistiche tra cui la video-installazione L’umiliazione delle stelle (2010), che dà il titolo alla prima parte del romanzo A nome tuo e che l’autore afferma essere il «punto culminante di un corso autobiografico iniziato dieci anni fa intorno alla figura di Dario Rensich, alter ego di alcuni miei romanzi» (COVACICH 2011, p. 239). Si tratta di una sorta di romanzo visivo che si pone, come un ombelico, al centro del cosidetto “ciclo delle stelle”, composto dai romanzi autobiografici A perdifiato (2003), Fiona (2005), Prima di sparire (2009) e A nome tuo (2011), nei quali si alternano sulla scena letteraria Covacich e il suo alter ego Dario Rensich, ex maratoneta che si reinventa gallerista e promuove una installazione in cui si fa riprendere mentre corre la maratona su un tapis roulant. Il legame di Covacich con Rensich e con alcuni dei protagonisti dei romanzi delle “stelle” è talmente intimo da fargli dire: «Dario Rensich, Angela del Fabbro, la piccola Fiona, Ivan Goran: io sono un gruppuscolo. Io sono un gruppuscolo» (COVACICH 2011, p. 339). Il «gruppuscolo» è, ossimoricamente, una moltiplicazione e una riduzione identitaria: da una parte ci indica come l’io autoriale abbia affidato la sua voce autobiografica ai suoi personaggi, secondo lo schema dell’autofiction fornito da Siti; dall’altra però circoscrive a un numero di voci ristretto l’operazione autobiografica e ne predice il futuro silenzio. Questi personaggi si taceranno infatti nella Città interiore per lasciar maggior spazio all’io autobiografico e alle sue nuove convivenze letterarie.
Bucando nella video-installazione la pagina letteraria e riportandola alla sua corporeità, Covacich si sovrappone a Rensich, come un palinsesto, e provocatoriamente ci invita a una riflessione sul senso della letteratura e sul suo legame con la vita e anche con il “corpo” di chi l’ha materialmente generata. Per cui come Covacich, che imita il suo personaggio e gira un cortometraggio in cui corre, si autoaccusa di essere un mentitore, così anche la letteratura, che accetta di farsi cross-mediale e di spiegarsi per immagini, denuncia la sua natura artificiale e intrinsecamente intertestuale proprio mentre sembra rinunciare al testo per abbracciare la res extensa. La video-installazione si pone, perciò, come una profezia post eventum di quanto Manganelli enunciava già alcuni anni prima:
l’opera letteraria è un artificio, un artefatto di incerta e ironicamente fatale destinazione. L’artificio racchiude, ad infinitum, altri artifici. […] Il destino dello scrittore è lavorare con sempre maggior coscienza su di un testo sempe più estraneo al senso. Frigidi esorcismi scatenano la dinamica furorale dell’invenzione linguistica. Le immagini, le parole, le varie strutture dell’oggetto letterario sono costrette a movimenti che hanno il rigore e l’arbitrarietà della cerimonia; ed appunto nella cerimonialità la letteratura tocca il culmine della rivelazione mistificatrice. […] e qui si raccoglie e salda la provocazione fantastica della letteratura, la sua eroica, mitologica malafede. Con le sue proposizioni “prive di senso”, le affermazioni non verificabili, inventa universi, finge inesauribili cerimonie. Essa possiede e governa il nulla. Lo ordina secondo il catalogo dei disegni, dei segni, degli schemi. Ci provoca e sfida, offrendoci un illusionistico, araldico pelame di belva, un ordigno, un dado, una reliquia, la distratta ironia di uno stemma. (MANGANELLI 1985, p. 223)
Le stanze della memoria: Il cortile del Tasso di Ruggero Savinio
«Chi negli amici suoi non vede il mondo non è degno che il mondo lo conosca»: con questa frase di Goethe, posta in esergo, si apre l’autobiografia di Ruggero Savinio Il cortile del Tasso (2017). È una frase estratta dall’omonima tragedia di Goethe composta attorno al 1786 e ispirata all’autore dal suo viaggio in Italia, dove ebbe modo di visitare i luoghi tassiani: Ferrara, Roma e Sorrento. Da essi Goethe trasse nutrimento per la costruzione del mito romantico di Tasso come genio incompreso, lacerato dalla sua infelicità e tristemente condannato alla reclusione in manicomio. Tasso è il precoce stereotipo dell’artista isolato da una società incapace di comprendere e accogliere la diversità, così come poi lo sarà il giovane Werther. L’unico conforto per loro potrà essere solo la letteratura: i libri saranno i primi amici a cui rivolgersi e su cui costruire quel mondo interiore che, forse, dovrà compensare e integrare la perdita di quello esteriore.
Ed è su questa scia che si situa Il cortile del Tasso, una raffinata autobiografia culturale che intreccia con naturale ironia mondi esistenziali e letterari frequentati dall’autore durante la sua vita di artista. È lo stesso titolo a guidarci in questa ambiguità autobiografica nel momento in cui ci indica due luoghi di Roma: nel presente quello su cui si affaccia la casa dell’autore, nel passato quello dove l’autore ha trascorso parte della propria giovinezza, il Liceo Tasso; in questi due luoghi Savinio passeggia come un flâneur della propria memoria alla ricerca del senso del proprio percorso. Ma il cortile del Tasso va oltre: richiama metaletterariamente la stessa struttura del testo saviniano, progettato secondo lo schema del prosimetro, che all’interno di una cornice autobiografica in prosa inserisce parti in versi tratte dalla Gerusalemme liberata di Tasso, un’opera alla quale Savinio racconta di essersi accostato sulla spinta di una collaborazione di lavoro con una scuola, i cui alunni si erano riproposti di disegnare alcune scene famose del poema epico. Motivato da ciò, Savinio legge il capolavoro di Tasso: «questa considerazione del poema Gerusalemme liberata – scrive – s’intreccia spesso con la narrazione di cose cadute in oblio» (SAVINIO 2017, p. 41). La rivisitazione della forma medievale del prosimetro non produce, tuttavia, un testo compatto; al contrario la vena narrativa “errante” della Gerusalemme liberata sembra contagiare anche l’opera di Savinio, il quale confessa che le sue sono:
scritture erratiche che girano intorno a un centro che ne comprende altri: un poeta epico, o meglio, epico-lirico, che contiene il nome della scuola dove ho passato l’adolescenza: anni di una lunga carcerazione, se osassi avvicinarla a quella reale e spietata del povero Tasso, queste scritture dunque cercano di trovare un senso alla mia vita, proprio adesso, nel tempo che, come si dice, è tempo di bilanci. (SAVINIO 2017, p. 97)
Il risultato è una sorta di ritratto a posteriori dell’artista da giovane e, con esso, quello di una non comune famiglia di artisti. Suo padre è Alberto Savinio, suo zio è Giorgio De Chirico: sono loro i numi tutelari della sua formazione ma anche i maestri da uccidere simbolicamente. Significativo è, a tal proposito, il passaggio testuale in cui Ruggero Savinio entra assieme al lettore in una delle stanze, fisiche e immaginarie, della sua memoria:
Feci per aprire la porta dello studio. Così veniva chiamata, per antonomasia, la stanza di mio padre. Altrove l’ho chiamata la sua stanza totale. Volevo entrare ma qualcuno me lo impedì. […] Entrai. Vedo la stanza vuota. La completo col ricordo. Nell’angolo il letto dove mio padre dormiva da solo. Al muro il tappeto kilim che ora sta dietro il nostro letto. Al centro il tavolo, sul quale pende dal soffitto una colomba di balza blu, regalo di un amico di mio padre, Roger Lacombe, per il quale io mi chiamo Ruggero. Accanto al letto, il pianoforte. Dopo la morte di mio padre, per un passaggio di consegne, la sua stanza è diventata la mia. Il suo tavolo è il mio, il suo cavalletto, il mio. Solo il pianoforte è rimasto muto. La musica è un linguaggio paterno che non ho ereditato. Vivevo nella stanza come una controfigura del padre, ma vivevo a modo mio. […] Entrai anche nella stanza di noi due non ariosteschi fratelli. Nello spazio triangolare, la geometria sbilenca che gli architetti cominciavano a usare imponendo un’idea mentale di spazio vitale, vidi il fantasma dei nostri due letti, delle nostre precarie scrivanie, e insieme il fantasma di noi due costretti in quel triangolo di muri. (SAVINIO 2017, p. 45).
La stanza è definita «totale», perché è un luogo della vita e dell’anima in cui sono depositati oggetti e significati che rimandano al nucleo stesso dell’erigersi dell’identità individuale: il rapporto con i genitori e la convivenza con la loro eredità morale e materiale. Nell’autobiografia di Ruggero Savinio questo tema attraversa come un fiume carsico tutto il testo riaffiorando a tratti, in modo incostante ma pregnante. Ne consegue un “lessico familiare” e artistico che, attraverso lo sguardo di un figlio, getta luce sulla figura del padre. Sintomatica la notazione sul tema della custodia del passato:
Certe famiglie custodiscono e tramandano le proprie memorie con una cura di sottrarle all’erosione del tempo che altre famiglie non hanno, o hanno in misura minore. O forse ne serbano una memoria muta, non tramandata a voce o in immagine, come quelle che inalberano sui muri di casa le effigi degli antenati, quadri e fotografie e ogni altra sorta di testimonianza. Nel caso della mia famiglia, il nostro passato familiare era custodito da mio padre, e lui, invece di farne materia di una tradizione, vi attingeva, per così dire, in proprio. I suoi scritti sono pieni di ricordi, deformati più o meno, di una storia familiare che per me è restata segreta a lungo, finché non ho imparato a conoscerla proprio da quegli scritti, o anche da qualcuno dello stuolo di studiosi biografi occupati a perlustrare vita e opere dei miei parenti. (SAVINIO 2017, p. 48)
La scrittura di una autobiografia consente, perciò, di entrare e poter sostare in una stanza della memoria che fino alla morte del padre era proibita: un giardino segreto, le cui chiavi di accesso sono idealmente consegnate alla morte del precedente detentore. Il possesso di queste chiavi segna un rito di passaggio verso una maturità intellettuale e umana finalmente piena e pronta a confrontarsi, senza più inibizioni e tabù, con il passato. Ma quello fra padre e figlio, anche se a distanza, è un confronto ambivalente che, proprio nel momento in cui determina l’agnizione di alcune analogie, rimarca delle opposizioni irriducibili. Appare evidente quando Savinio approfondisce, ancora una volta, il tema del rapporto col tempo e con la morte:
La vecchiaia introduce alla morte. Obbliga, per il poco tempo che resta, a compiere in fretta quello che vogliamo fare ancora. Spinge a guardarsi indietro e esaminare il già fatto. Si possono dividere gli uomini fra quelli protesi in avanti e quelli rivolti all’indietro. Sartre dice che Baudelaire vive come uno che in viaggio tiene gli occhi fissi sulla strada già fatta.
I futuristi e i restrospettivi. Io credo di appartenere ai futuristi. Anche mio padre. Interessati alle cose da fare. Ricordo il fastidio per gli omaggi dei surrealisti ai suoi scritti giovanili, o la solitudine nei cassetti delle foto dei suoi quadri degli anni Venti, che, molto dopo la sua morte, avrebbero fatto gola agli amatori e agli speculatori. Solo quello che ancora devo fare mi interessa, diceva. Diceva che ogni nuova impresa è un modo per tenere in scacco la morte. Come nel film di Bergman. Ma la morte vince sempre, e lo scacco arriva sempre troppo presto.
Oltre alla due categorie dei retrospettivi e dei futuristi, esistono anche quelle dei precoci e dei tardivi. Queste sono dominate dalla fisiologia. Sono legate a forze vitali che in certa età della vita si manifestano con più o meno potenza. […] Mio padre era, o era stato, un precoce. Diploma di pianoforte a dodici anni, a sedici un’opera che, sembra, non dispiacque a Mascagni. Guardando a lui restrospettivamente credo di poter dire che per tutta la sua vita, sessantun anni, ha voluto incamminarsi verso la maturità, così come in vecchiaia, voleva convincersi di avere qualcosa da trasmettere, il messaggio che spetta ai vecchi. In lui questa volontà didattica era, però, sabotata dall’intelligenza e dal dubbio, così da non diventare la noiosa pretesa normativa di tanti autori vecchi. Io, per conto mio, sono piuttosto un tardivo. Da bambino facevo disegni con la grazia di tutti i disegni infantili, ma niente di più. Credo di poter datare i miei primi quadri adulti ai venticinque anni. Tutti questi calcoli anagrafici sottintendono una domanda: che cosa si fa della propria vita? (SAVINIO 2017, pp. 95-6)
Uno sguardo retrospettivo sul futuro
Alla domanda posta da Savinio potremmo aggiungerne un’altra: come si racconta la propria vita? Sia Savinio che Covacich hanno prediletto la forma dell’autobiografia romanzata, intesa nella sua versione più metaletteraria: l’autobiografia di romanzi o, in un’accezione più ampia, di altre opere letterarie con le quali sono sorte affinità elettive, che danno l’abbrivio a una comprensione più profonda di sé. Una comprensione che ovviamente non può dirsi chiusa perché sa che non può arroccarsi su posizioni culturali acquisite e non può essere, come afferma Savinio, retrospettiva. Non è un caso che entrambi i testi si chiudano con riferimenti biografici a generazioni più giovani.
Savinio ci coinvolge nel suo progetto di illustrazione della Gerusalemme Liberata svolto nella scuola romana Nino Bixio, dove dopo un primo sondaggio sull’effettiva conoscenza del testo di Tasso può finalmente affermare: «Bene. Adesso che ciascuno ha la sua parte, incominciamo…» (SAVINIO 2017, p.18). In questo invito sta tutto il senso di una storia autobiografica “futurista” che ricompone le tessere del proprio vissuto umano e culturale in un mosaico che spetta ai lettori e ai posteri terminare di riempire.
Dall’altra parte, Covacich racconta con tono disincantato che sui declivi del Carso, vicino alla foiba di Basovizza, suo nipote Marco pianta assieme alla sua ragazza una tenda canadese dove trascorrere la notte. Quando scoppia un’acquazzone chiamano i genitori:
E il padre di lui o di lei sale a turno a recuperarli. Ti aspettiamo alla foiba, urlano nel telefono. In mezzo all’acquazzone il memoriale è un riferimento sicuro. Infatti eccoli sul piazzale del sacrario. Lui suona appena riesce a distinguerne le sagome e loro si precipitano verso la macchina con la tenda che sventola sulle loro teste. Quando le portiere sono richiuse, getta un’occhiata sullo specchietto. Ovviamente li trova zuppi di pioggia e felici. (COVACICH 2017, p. 229).
Nella felicità di questi adolescenti innamorati si disinnesca la tragicità dei luoghi dove si incontrano per avere un momento di intimità. La foiba, che commemora le stragi della Seconda Guerra Mondiale e del suo immediato dopoguerra, si accresce di possibilità nuove di vita, pur senza dimenticare le morti che lì sono state consumate. E vogliamo immaginare che questi due ragazzi siano stati quei due bambini che vediamo nella copertina del libro, tratta dal portfolio fotografico Dancing with Costicâ di Jane Long, un’artista digitale australiana che combina fotografia e fotomanipolazione per creare immagini sospese fra realtà e fantasia.
In questo caso ha reinterpretato l’archivio di foto di Costicâ Acsinte, un fotografo di guerra rumeno che dopo la fine del primo conflitto mondiale aprì a Slobozia un proprio studio commerciale, nel quale ritraeva in pose statiche e secondo la moda del tempo i suoi clienti. Essendo per molto tempo l’unico fotografo professionista della Romania, accumulò migliaia di foto e negativi su lastre di vetro che ora sono state conservate in museo, digitalizzate e pronte per rivivere ancora.
L’immagine di copertina, intitolata Sweetheart, nasce dal montaggio di due foto in bianco e nero ritraenti due bambini che si offrono, forse per la prima volta, allo sguardo della macchina, che li coglie rigidi e un po’ basiti nei loro abiti da adulti. Nella sua rivisitazione Jane Long li restituisce al colore e alla natura, assenti negli originali, e inserisce dietro di loro uno specchio che proietta, a loro insaputa, l’immagine di ciò che saranno: adolescenti innamorati le cui vite si intrecciano, come le loro mani, l’una all’altra.
Il futuro sta non davanti, ma dietro di loro. Loro non possono guardarlo perché l’unico che può avere uno sguardo retrospettivo sul futuro è l’artista che racconterà le loro vite. E raccontando la loro, racconterà la propria.
Copertina di Mauro Kovacich, La città interiore
AUGÈ M. (2009), Non luoghi. Introduzione a una antropologia della surmodernità, Eleuthera, Milano
CORTELLESSA A. (2017), Michele Mari, il ritorno del demone, su “Doppiozero”, 28 giugno
COVACICH M. (2011), A nome tuo, Einaudi, Torino
COVACICH M. (2017),
GRISI C. (2011), Il romanzo autobiografico, Carocci, Roma
LEJEUNE P. (1986), trad. it. a cura di SANTINI F., Il patto autobiografico, Il Mulino, Bologna
MANGANELLI G. (1985), La letteratura come menzogna, Milano, Adelphi
MANN T. (2016), trad. it. a cura di CRESCENZI L., Doctor Faustus e La genesi del Doctor Faustus, Milano, Mondadori
MORRIS J. (2003), Trieste. O del nessun luogo, Il Saggiatore, Milano
SAVINIO R. (2017), Il cortile del Tasso, Quodlibet, Roma
SITI W. (2017), Il mio libro scandaloso, su «Il Corriere della sera», 19 aprile
TOMIZZA F. (2015), Materada, a cura di COVACICH M., Bompiani, Milano