Nelle pagine iniziali del suo Principio di Responsabilità Hans Jonas cita il coro dell’Antigone di Sofocle, che ammoniva: «Molte ha la vita forze tremende; eppur più dell’uomo nulla, vedi, è tremendo. Va sul mare canuto nell’umido aspro vento, solcando turgidezze che s’affondano in gorghi sonori […], insidia, insegue come le stirpi ferine, come il popolo subacqueo del mare, scaltro, spiegando le sue reti, l’uomo.» (Hans Jonas, Principio di responsabilità, Einaudi, Torino 1990, pag. 4). Per l’uomo della Grecia classica il mare è una sorgente oscura e infinita di abbondanza da cui attingere; le reti che si gettano accolgono i pesci ma non ne sfiorano i segreti ancestrali, che sarebbero sempre rimasti nascosti nei fondali sommersi. Fino all’avvento della contemporaneità industriale, era infatti un dato scontato che, per quanto si sfruttasse il mare, niente avrebbe mai potuto intaccarne la sacralità. Così commenta Jonas:
Per quanto tormentata anno dopo anno dal suo aratro, la terra non ha età e non si lascia fiaccare; nella sua pazienza costante l’uomo può e deve aver fiducia ed è costretto ad adattarsi al suo ciclo. Altrettanto senza età è il mare. Nessuna rapina ai danni della sua prole può esaurirne la fecondità; nessuna traversata di navi può nuocergli, nessuno scarico nelle sue profondità può contaminarlo. (ivi, pag. 6)
Le cose non stanno più così, evidentemente, e Jonas lo ribadisce:
tutto questo è decisamente mutato. La tecnica moderna ha introdotto azioni, oggetti e conseguenze di dimensioni così nuove che l’etica tradizionale non è in grado di abbracciarli. Il Coro dell’Antigone sull’enormità, sulla stupefacente potenza dell’uomo, oggi, nel segno di un’enormità di tutt’altro tipo, dovrebbe acquistare un altro significato; e l’ammonimento rivolto al singolo di onorare le leggi non sarebbe più sufficiente. Anche gli dei, il cui invocato diritto poteva arginare il corso rovinoso dell’azione umana, sono da tempo scomparsi. (ivi, pag. 10)
La consapevolezza del potere umano che minaccia direttamente il nostro pianeta si è fatta strada nella coscienza dei più avvertiti. Fra questi vi è il giornalista norvegese Morten A. Strøksnes, autore di un testo dall’inaspettato successo editoriale: Havboka, edito in lingua originale nel 2015 e vincitore in patria di numerosi premi. In Italia è stato edito dalla casa editrice Iperborea, che si è specializzata nella letteratura del Nord Europa e ne ha affidato la traduzione a Francesco Felici che ha reso quel singolo ed evocativo termine in Storia del mare o come andare a pesca di uno squalo gigante con un piccolo gommone sul vasto mare: un titolo certamente impegnativo che ci introduce in un testo multiforme che ibrida il romanzo, l’autobiografia e il reportage narrativo, in cui il rapporto fra l’uomo e il mare è raccontato tramite aneddoti, citazioni, finestre aperte sulla biologia degli esseri marini ed i più strani ecosistemi dagli abissi alle dorsali oceaniche, passando con leggerezza tra le diverse latitudini e le diverse epoche storiche. Presente il tema ecologista, ma come una nota di fondo, un ineludibile dovere di rispetto e cura nei confronti di un mondo tanto meraviglioso e potente quanto fragile di fronte alla stupidità e miopia umana, che nel corso dei secoli ha sviluppato capacità tecniche raffinate ma in grado anche di devastare e sfruttare gli ecosistemi marini fino a distruggere la fonte stessa della vita sul pianeta. Fino, potremmo chiosare, a prendere Poseidone all’amo; una conquista che coinciderebbe inevitabilmente anche con la fine della nostra civiltà.
A partire dalla sua sensibilità ecologica e dalla sua enciclopedica conoscenza del mondo marino, Morten Strøksnes intreccia una trama originale ed antica: il tentativo autobiografico del protagonista di prendere all’amo un animale dall’aura quasi mitologica, raramente pescato, che si aggira come una divinità negli abissi dei freddi mari del Nord. È lo squalo della Groenlandia, lungo fino a dieci metri, pesante tonnellate, cieco e con grossi parassiti che gli bucano i globi oculari, implacabile nella sua determinazione a vivere attraverso le ere geologiche come un indisturbato sovrano del suo habitat.
Strøksnes ed il suo compare Hugo, pittore avanguardista e stramboide che è erede di generazioni di pescatori del grande Nord, decidono di confrontarsi con questa sfida facendo base su una delle isole Lofoten. Presi così, potrebbero essere i protagonisti di un distopico B-Movie americano, stile Paura & delirio a Las Vegas, ma condito in salsa nordica e dunque con inevitabili risvolti comici. Di fronte a tali episodi intrisi di humour norvegese mi sono, tuttavia, chiesto se l’umorismo abbia confini culturali di ricezione che scrittore e lettore debbano condividere, perché le pagine di Strøksnes pur se ben costruite mi spingevano a sorridere, più che ridere e – lo confesso – pure con una certa inquietudine.
Ecco un esempio: l’autore si dilunga a descrivere minuziosamente la ricerca dell’esca giusta per lo squalo e tale scena produce un doppio effetto: comico, perché assieme alle parole ci immaginiamo il protagonista con pesanti guanti di gomma e una inutile mascherina per la polvere alle prese con una carcassa di vacca putrefatta; e di disgusto, per la minuziosa descrizione scientifica del processo di decomposizione. O ancora quando i due personaggi, amareggiati e delusi per gli scarsi risultati nella pesca, si trovano a litigare (e ammettiamolo: per come possono litigare i norvegesi) come marito e moglie separati in casa che si fanno i dispetti, abbassando ed alzando a turno il volume della musica mentre uno tenta di scrivere e l’altro di dipingere, entrambi senza molta ispirazione e con scarsi risultati. Quello che fa litigare i nostri due eroi è la frustrazione di non aver ancora preso lo squalo, a cui si aggiunge il fatto di aver perso la barca e di doverne trovare un’altra. E così hanno tempo di riflettere sul senso dell’avventura nella quale si sono, letteralmente e metaforicamente, imbarcati:
ma in che idiozia di missione assassina ci siamo imbarcati? Sarà per soddisfare la nostra curiosità? Per confrontarci con le nostre paure? Per un istinto di caccia che ci spinge ad uccidere la preda più grossa a cui in teoria possiamo ambire, una specie di caccia grossa sul mare? Il mito del mostro non sonnecchia forse nel profondo della nostra natura, genetico retaggio dei tempi in cui eravamo prede di predatori ormai estinti?” (STRØKSNES 2017, p. 289)
Al lettore appassionato di storie di mare potrebbero venire in mente due titoli a cui associare questo libro con una certa facilità: il Moby Dick di Melville ed Il Vecchio e il mare di Hemingway. Al centro di queste storie, ambientate in secoli diversi, c’è sempre l’uomo e la sua preda. Il misterioso Capodoglio bianco, il grande Marlin blu e l’inquietante squalo della Groenlandia sembrano essere personificazioni della sostanza stessa del mare e del suo segreto, concrete e presenti, eppure in definitiva inaccessibili. Nessun pescatore può alla fine riportare a casa la sua preda: non certo Achab che finisce anzi trascinato negli abissi dalla sua ossessione marina, non il povero Santiago che dopo tre giorni di lotta e riflessioni solitarie sul senso della vita riesce a portare a caso solo la carcassa divorata del nobile pesce. A Strøksnes ed al suo amico Hugo in fondo va un po’ meglio, perdono lo squalo appena a qualche metro dalla barca, quando girandosi su se stesso arriva a spezzare la lenza.
Ma in fondo non abbiamo mai veramente temuto per i nostri due norvegesi, troppo rassicuranti le moderne dotazioni del pescatore moderno; la sicumera tecnica dell’uomo contemporaneo in fondo non riesce più a temere veramente l’ignoto, si limita quando ve bene a rimanerne affascinato. Ecco, è questa la sensazione che emerge prepotente alla fine della lettura di questo racconto di mare dei giorni nostri: manca la mistica, manca la filosofia, manca il trascendente nell’ancestrale rapporto tra l’uomo e il mare. Non c’è più nessun vero segreto, nessuna magia, nessun rimando ad una dimensione altra. Per quanto incompleta, la descrizione del mare è quella dell’oggettività scientifica, il senso del mondo marino si riduce alla fine a quello che gli concede l’interessato sguardo dell’uomo, ormai padrone ed arbitro dei destini del pianeta. Pagine e pagine di aneddoti e ricordi di chi il mare l’ha vissuto, alternati a godibilissime curiosità biologiche, elementi di chimica, geologia, notizie storiche, descrizioni tecniche lasciano in fondo un retrogusto amaro. Lo squalo si è liberato ed è tornato nei suoi abissi, certo. Poseidone non è stato preso all’amo, non è stato pescato. Se n’è semplicemente andato, pinneggiando. E con lui, forse, quella parte di mistero che ancora ci ostiniamo a ritenere parte di noi.