L’umanesimo europeo non è più capace di prendere coscienza di sé stesso, di prepararsi
alla lotta in un rinnovamento di forze vitali, allora esso morirà e con lui morirà l’Europa,
il cui nome non sarà più che una espressione puramente geografica e storica.
E non ci resterà più che cercarci rifugio fuori del tempo e dello spazio.
(Thomas Mann)
Apro questo mio intervento con un aneddoto significativo, che sicuramente sarebbe piaciuto a Savinio, a lui che, proprio dalle pagine di Sorte dell’Europa, nel ’441, aveva dichiarato: «Uno degli strumenti migliori per pungere il pallone della retorica e sgonfiarlo è l’aneddoto storico: la sua ironia involontaria… Scoprire gli altarini!». Dunque, l’aneddoto. Per i quattro anni in cui ha operato, ho partecipato ai lavori del Comitato Nazionale per le Celebrazioni della Nascita di Altiero Spinelli2, in cui si sono susseguiti incontri, convegni, pubblicazioni, eventi. Fra questi ultimi un Premio da assegnare a chi si era distinto nell’ambito del Federalismo europeo. Nella splendida piazza di Marostica il 14 settembre 2008 il premio, consegnato al giornalista Giampiero Gramaglia, Direttore dell’Ansa, fu accompagnato da letture di alcuni brani scelti da me sia dal Manifesto di Spinelli che da Sorte dell’Europa di Alberto Savinio. Ebbene il pubblico, pur molto addentro alle questioni europee e al pensiero e alle opere di Spinelli, non solo non distinse gli uni dagli altri, ma pensò che fossero tutti ascrivibili alla penna del Padre dell’Europa.
Naturalmente le differenze ci sono, eccome! E l’impianto prettamente storico-politico-economico del Manifesto ha un rigore e un peso più solidi e pragmatici del coltissimo Sorte dell’Europa, in cui spunti letterari, sociologici e filosofici, che pure prendono il via da osservazioni puntualmente storiche, allargano di molto gli orizzonti, mettendo in secondo piano talvolta fatti e prospettive concretamente perseguibili.
Ma l’Europa laica che sognano ambedue, libera da dogmi e teocrazie3; la civiltà democratica che intravedono in un futuro prossimo – seppure in quei lontani anni in cui furono scritti i libretti (’41-’42 per Spinelli, ’43-’44 per Savinio) ancora ammantata di utopia4; il rifiuto perentorio del concetto di Stato5, con connesse le mistificazioni legate a quello di spazio vitale che si era sostituito a quello di indipendenza nazionale, e il sogno di un federalismo armonico; la fiducia nell’intelligenza dei popoli – che l’avrà vinta alfine sull’autorità che vuole assopirla nell’inedia e zittirla per dominarla – e nel riscatto delle idee, dopo la ferocia nazionalista e reazionaria di una guerra imperialista…; il socialismo, infine, quale auspicio e unica strada da percorrere per invertire il corso conservativo imperialistico della storia…6 li accomunano. La soluzione per ambedue sarà allora quella di ricondurre gli uomini verso la vera civiltà e la vera civiltà non è che «un’Europa libera unita» di cui «l’era totalitaria rappresenta un arresto» (cfr. MV, p. 34).
Ad ambedue va riconosciuta una profonda intelligenza politica, che si esplicava nello sguardo lungo e acuto con cui si spingevano ben oltre la contingenza e gli inganni dei processi storici contemporanei, additando la corretta strada da percorrere per recuperare alla vita lo spirito e la civiltà europee, annichilite sotto la violenza di guerre, ottusità ed egoismi nazionalisti7.
La sovranità assoluta degli stati nazionali ha portato alla volontà di dominio di ciascuno di essi, poiché ciascuno si sente minacciato dalla potenza degli altri e considera suo «spazio vitale» territori sempre più vasti, che gli permettano di muoversi liberamente e di assicurarsi i mezzi di esistenza, senza dipendere da alcuno. Questa volontà di dominio non potrebbe acquetarsi che nella egemonia dello stato più forte su tutti gli altri, asserviti. In conseguenza di ciò, lo stato da tutelatore della libertà dei cittadini, si è trasformato in padrone di sudditi tenuti a servizio, con tutte le facoltà per renderne massima l’efficienza bellica. (MV, pp. 19-20)
Il concetto nazione che alle sue origini era un concetto espansivo, e dunque attivo e fecondo e come tale ispirò di sé e di sé informò le nazioni dell’Europa in mezzo alle quali noi siamo nati e abbiamo vissuto fino a ora, ha perduto ormai le sue qualità espansive e ha acquisito invece qualità restrittive. Ristretto e immiserito, questo concetto non ha più forza attiva ma è diventato passivo, non è più centrifugo, ma è diventato centripeto, non risponde più a idee di sviluppo, di accrescimento, di allargamento, ma obbedisce a idee di impoverimento, di restringimento, di riduzione: segno che il concetto nazione, quale lo concepivano coloro che fecero le nazioni, ha perduto nel frattempo le sue virtù. (SE, p. 21)
Il commercio e l’industria, lo scambio di libri e di lettere, la comunanza di tutta la cultura superiore, il rapido mutar di luogo e di paese, l’odierna vita nomade di tutti coloro che non posseggono terra – queste circostanze portano necessariamente con sé un indebolimento e alla fine una distruzione delle nazioni, per lo meno di quelle europee, sicché da esse tutte, in seguito ai continui incroci, dovrà nascere una razza mista, quella dell’uomo europeo.
(F. Nietzsche)
Mussolini, ricorda Savinio, non sapendolo inquadrare in categorie note (Dio sa se l’artista deprecava specializzazioni e categorie!), lo apostrofò, sicuramente con poca considerazione, «sfasato» (SE, p. 77). In effetti non c’era termine migliore per definire questo artista a 360 gradi, che aveva conosciuto popoli e culture non sui libri, ma vivendoli8, nomade, laico e indipendente. Relativista per costituzione, dilettante per scelta, ironico per filosofia di vita, proiettato in dimensioni poetiche e ideologiche ben altre rispetto al presente, fiducioso in un futuro neanche immaginabile in mezzo alle smanie espansioniste della Germania di allora, Savinio era davvero da considerare fuori fase (storica) e fuori tempo! E per chi sapeva leggerlo, si presentava davvero come il prototipo dell’uomo europeo! Che dimostrava di pensare già «europeamente»!
Uno che aveva obliterato anche il nome anagrafico, ridendosela dell’identità personale; che amava le forme quadre e la freccia di Eraclito – ovvero i mutamenti e il progresso – e detestava le forme circolari, chiuse, riconosciuti simboli teocratici; che lo Stato identificava con immobilismo rassicurante e autistico (basta fare l’analisi linguistica del termine!) e schiavizzazione fideistica dei popoli e nei regimi totalitari leggeva la variante terrena della teocrazia: «Lo stato stabilisce quali debbano essere i loro fini [dei popoli] e come volontà dello stato viene senz’altro assunta la volontà di coloro che detengono il potere» (MV, p. 23) scriveva Spinelli e Savinio, a sua volta: «quale senso può avere questa vasta crisi, quale altro senso e quale altro fine essa può avere se non la formazione della futura Europa, ossia il passaggio dall’attuale Europa divisa in nazioni in una Europa nazione unica?» (SE, p. 34).
Uomo europeo, che credeva fermamente che «la democrazia, come tante cose, era prima di tutto una forma mentale» (cfr. SE, p. 67) e alla sua arte da subito volle dare un’impronta civica!
Uomo europeo, libero e liberale9, che solo pochi privilegiati come Spinelli, Rossi, Colorni… avrebbero saputo riconoscere in quei loschi tempi bellici.
Uomo europeo e coltissimo intellettuale anche Altiero Spinelli, già prima di presentarsi al mondo intero come padre dell’Europa e politico di razza; autore – assieme a Ernesto Rossi – del famoso Manifesto di Ventotene per un’Europa unita e libera, punto di partenza e contributo fondamentale per il progetto federalista europeo. Se il nomade Savinio, aveva da giovane girato tutta Europa10, il caparbio antifascista Spinelli aveva trascorso invece l’intera giovinezza passando da carcere a confino, quale prigioniero politico. Per ben 16 anni, tra Roma, Civitavecchia, Viterbo, Lucca, Ponza e Ventotene, durante i quali imparò 5 lingue, lesse e scrisse lettere, saggi e riflessioni filosofiche, Diari. Ma solo vari anni dopo la Liberazione si dedicò alla sua Autobiografia, Io Ulisse, come ho tentato di diventare saggio (1983-86)11, che pure costituiva da sempre «il» progetto della sua vita, intersecato col Diario (che lo accompagnò dal ’48 alla morte), in cui spesso evocava l’aspirazione a scrivere il libro delle sue memorie come «una specie di confessione intellettuale», attraverso cui ricostruire il suo percorso «verso la lotta per il popolo europeo».
Non solo politico e intellettuale di grande statura, Spinelli fu anche vero e proprio maître à penser e scrittore di pregio, come si vede nelle splendide pagine dell’Autobiografia, e non soltanto. Qualunque fosse l’argomento trattato da Ulisse (lo pseudonimo scelto nella clandestinità), si sentiva che dietro racconti, proposte, ricordi c’era un mondo inquieto ricchissimo e riflessivo, nato in quelle celle solitarie da letture onnivore, che si esprimeva con una capacità ineguagliabile nell’argomentare e raccontare.
«Fatti non foste a viver come bruti ma per seguir virtute e canoscenza…» l’epigrafe dell’autobiografia. Ebbene per lui virtute e conoscenza sono andati di pari passo fin dal primo giorno, risultando complementari e fondamentali per la sua formazione. Conoscenza come cultura fortemente interdisciplinare, nata dalla lettura – spesso in lingua originale – dei classici greci e latini, della letteratura italiana e straniera, della filosofia, della politica, delle scienze, della storia: letture che hanno avuto un gran peso nella costruzione della sua virtute umana ed etico-politica, quella, per intenderci, che sfocerà nel concetto di Europa come pace e democrazia. Non solo, ma come lui stesso ha scritto, nei lunghi 16 anni di carcere e di esilio, «il vero conforto spirituale lo rinvenne nei fantasmi intimi e fedeli» della letteratura. E alla poesia, che gli aveva «sussurrato qualcosa di più filosofico e di più elevato della storia», avrebbe riconosciuto il primato non solo nel suo cuore ma perfino nella sua mente:
Non vogliono insegnarmi mai nulla, non mi chiedono mai nulla, ma li sento attorno a me e faccio loro un cenno per riascoltarli nei momenti in cui devo osare, o tener duro, o distruggere o ricominciare o rinunciare, nei momenti di solitudine analoghi a quelli durante i quali cominciai a sentire le loro voci12.
È proprio attraverso l’autoanalisi vigile e impietosa, ma anche proprio attraverso il recupero di Ariosto e Omero, attraverso la lettura – anzi la rilettura – di Shakeaspere e San Paolo, di Machiavelli e Sant’Agostino, di Kant, Nietzsche, Hegel e Croce, di Majakovsky e Dostojevski, di Cartesio, Einstein, Planck, Jean Fabre, Stuart Mill… che Spinelli arriverà a conquistarsi una sua solida e aperta coscienza politica del mondo. La stessa che lo porterà a identificare nell’Europa l’unica prospettiva di pace e democrazia possibile e insieme lo indurrà, attraverso una continua interrogazione sugli eventi visti da lontano13 e di confronti con i compagni d’esilio, a staccarsi dal dogmatismo del comunismo stalinista, riconoscendo ben presto la equivocità distorta creata dalla «volontà di potere» del leninismo, nelle sue svariate forme, non molto dissimile da quella radicata nel cattolicesimo gesuitico: «Cominciavo a rendermi conto che Lenin non aveva dopo tutto inventato il partito dei rivoluzionari professionali, ma solo riscoperto una formula di potere assai più antica». Avvicinandosi pian piano al socialismo ferreo del padre, laico al punto da cercare per gli otto figli nomi senza santi in paradiso (Altiero, Azalea, Veniero, Anemone, Cerilo, Asteria, Gigliola, Fiorella).
L’uomo europeo, illuminista e laico, prima clandestinamente scrisse e fece divulgare il Manifesto (grazie a Ursula Hirschman, la moglie del compagno di esilio, Ernesto Colorni, che, incinta, poteva andare e venire da Ventotene), poi fondò il Movimento Federalista Europeo e in fine stese il progetto del Trattato di Unione europea promosso nel 1984, che anticipò la costituzione europea recente e di cui Spinelli si definì semplicemente l’ostetrica che aveva aiutato il Parlamento a dare alla luce il suo bambino14.
Le mie speranze di solito così spente si riaccendono di colpo e risfavillano se appena io sento qualcuno che parla di sé non solamente come cittadino del Paese che gli ha dato i natali, ma anche come cittadino del mondo, sia pure della sola Europa. (A. Savinio)
Spinelli scelse dunque per sé il nome di battaglia Ulisse e fece suo l’inflazionatissimo ma eternamente valido «Fatti non foste a viver come bruti ma per seguir virtute e canoscenza…»: anche per Savinio virtute e conoscenza, ovvero etica e gnoseologia, vanno a braccetto: l’arte ne segna il passo. Nei 21 pezzi «di carattere politico» scritti tra il 25 luglio ’43 e il 4 giugno ’44 che compongono Sorte dell’Europa, continuo è il rimando da storia a filosofia, da sociologia a letteratura a politica. Niente rigida unità di tempo di stampo aristotelico, bensì la libertà di movimento e variazioni sceniche che Shakeaspere e il cinema avevano regalato all’arte e alla vita. Unità di pensiero e riflessione dietro ogni pagina dello smilzo libretto, quella invece sì, corroborata da una capacità argomentativa e logica stringenti. Tre gli obiettivi: «Superamento del nazionalismo, esame razionale di alcuni aspetti della situazione presente e ricerca delle loro cause, sguardo fiducioso alla sorte futura dell’Europa» (SE, p. 12). E per cominciare bisogna liberarsi dal malanno della retorica, malanno endemico del nostro paese, che inficia vita, politica e letteratura: Hitler, Mussolini, D’Annunzio hanno le medesime colpe! Retorica come «strumento di imbonimento dei popoli durante tutte le dittature», ma anche retorica della verità unica, retorica del credo unico, retorica del Dio unico: e se la Grecia antica, madre dell’Europa, per prima ha ucciso Dio (cfr. voce Europa in NE), all’Europa moderna affida il compito di esserne la tomba! «La retorica gonfia i concetti, li arrotonda, taglia a essi braccia e gambe, toglie a essi manichi e anse. E i concetti diventano immobili, ingombranti, ostacolanti. I concetti “chiudono l’orizzonte”» (SE, p. 50). Come la Storia, Clio = Kleio, circolare, ciclica, immobilizzante: «Incenerire il pattume storicistico affinché le immondizie non ingombrino le strade del mondo e gli occhi degli uomini possano guardare non più al passato, ma alla fuga infinita dell’avvenire!» dirà Savinio in Dico a te Clio.
Siamo ancora in guerra, con addosso il pesante fardello di anni di fascismo e nazismo, di retorica della nazione e dello spazio vitale, di mitizzazione della storia a fini personalistici. Hitler «pompieristicamente»15 rimpiange il mitico Carlo Magno e se ne sente erede, Mussolini l’Impero romano e ambisce a riprodurlo nel ‘90016. Tutti i capi di tutti i paesi, in guerra e in pace, esercitano il «muscolarismo dei michelangiolisti» depositario di virilità e potere, riflette Savinio, mentre dal suo osservatorio guarda il presente, ripercorre la storia recente e passata e poi si proietta in un utopico futuro! Anzitutto restituisce nietzcheanamente all’uomo la sua vita: l’uomo europeo è consapevole che tutto ha creato con le sue mani, a cominciare da Dio: «… se in Asia Dio fa l’uomo, in Grecia è l’uomo che fa gli dei». E poi gli riconsegna un’etica socialitaria!
Bisogna cancellare i principi della vita intesa nel solo lato personale e pratico, ed educare gli uomini a non compiere azione privata o pubblica, individuale o collettiva se non partendo da quel principio morale che è la giustificazione dell’azione stessa, la ragione del suo diritto, la garanzia del suo successo. (SE, p. 24)
Con lungimiranza e intelligenza dei fatti e dell’umana indole, offre la sua risposta ai biechi esercizi muscolaristici ma anche, indirettamente, alle mire e sopraffazioni capitalistiche: «Ha un modo l’Europa di sopravvivere come Europa, ed è di porsi essa stessa nella condizione di supernazione, unendosi in una sola nazione nella quale tutto sarà al suo posto naturale, nella quale ogni parte sarà in funzione del tutto, nella quale ogni singolo europeo collaborerà al bene comune dell’Europa» (SE, p. 64), fuori dalle spire pangermaniste hitleriane (che preveggenza il nostro Savinio!).
«Si è mai accorto qualcuno che l’Europa sognata da Hitler era un’Europa concepita tolemaicamente, ossia un’Europa teocratica e simile del tutto alle antiche teocrazie dell’Asia?» (SE, p. 35) si chiede Savinio. Cosa fare allora per sottrarvisi definitivamente e fare l’Europa naturalmente, umanamente, validamente? «Bisogna liberarsi anzitutto del concetto tolemaico del mondo – che è concetto teocratico e dunque imperialista – liberarsi del concetto tolemaico in tutte le sue forme (che sono infinite) ed entrare nel concetto copernicano, ovvero democratico» (cfr. SE, pp. 35-36).
Se, in effetti, dovessimo estrarre dal ricchissimo sottosuolo speculativo saviniano il minerale più prezioso o nella sua produzione letteraria individuare il file rouge e nella sua filosofia un principio fondante, non ci imbatteremmo ripetutamente – e quasi ossessivamente – che nella dicotomia tolemaico/copernicano. Fiume carsico che sottostà anche alle conclusioni argomentative di questo splendido pamphlet.
Intelligenza, modernità, civiltà, arte sono misurate con unico, elastico eppure determinato metro, che abbisogna talvolta per essere più preciso di strumenti scientifici come telescopio e microscopio. «Per avvicinarci alla verità almeno due idee servono e anche apparentemente contraddittorie!»
Indimenticabili le pagine di Scatola sonora dedicate all’infinito cristallizzato di Bach e Mozart, e alla musica che «ricanta il canto cupo dei giganti» o dà la gioia di sentirsi uomo di Beethoven e Brahms, in cui lo scrittore ben spiega la differenza tra la visione antropocentrico-tolemaica, sferica e cristallizzata, ove il mondo intero gira attorno alla terra e a un presuntuosissimo uomo e l’eliocentrismo aperto paritario e democratico-copernicano, che riconosce la centralità dei problemi dell’uomo, ma non dell’uomo tout court, e rimette in questione i rapporti tra fede e ragione, scienza e teologia… Dove anche Cristo è uomo. Anzi, preciserà coraggiosamente in NE, è addirittura laico. «Ogni tentativo di riportare alla sua natura il sentimento cristiano della vita, va a scapito del principio di autorità… Il cristianesimo è un fatto umano, soltanto umano. Il più umano dei sentimenti» (p. 141). Dove Dio è visto «come ostacolo alla vita. Dio come ostacolo al progresso». (NE, p. 144)
E come ci può essere equilibrio, come ci può essere “civiltà” – che significa “omogeneità nella polis” – se alcuni uomini pensano alla curvatura dello spazio e altri contemporaneamente all’architettura tolemaica dell’universo? Se alcuni leggono lo studio sui totem di Freud e altri la vita della beata Cabrini? Se alcuni non hanno occhi se non per le mostruosità puerileggianti di Paul Klee, e altri per la Signora in grigio di Giacomo Grosso? Se alcuni non hanno orecchi se non per i dodecafonismi di Alban Berg, e altri per la Bohème di Puccini? Se alcuni sono repubblicani e altri monarchici? Se alcuni sono atei e altri credenti? Se alcuni sono nazionalisti e altri comunisti, o liberali, o apolitici? (SE, p. 47)
Compito del poeta è di trovare l’uscita del labirinto. Questo è il grande compito del poeta. Trovare l’uscita e indicarla agli altri, ai compagni uomini, a fratelli uomini. Si dice tanto che poeta viene dapoiéo e che poiéo significa fare. Non fermiamoci qui. Fare, significa trovare l’uscita dal labirinto. (A. Savinio)
Alla fine Savinio resta un lirico. Uno di quei lirici speciali, o liberi disinteressati pensatori, che vivono in condizioni di lirismo e hanno un loro proprio linguaggio, «che non sono come tutti gli altri» (SE, p. 74), proprio come Baudelaire e Nietzsche, ai quali riconosce il merito di aver per primi ucciso Dio, qualunque dogmatico Dio, e di aver riscoperto nella figura di Cristo un uomo. E mentre da un lato, con un coup de theatre, scova un’anima in ogni luogo e inventa una sua «geografia psichica»17 – ove per esempio Pienza, città toscana rupestre, fortificata, isolata è interpretata come città definitiva, ovvero simbolo della chiusura autoreferenziale, della teocrazia concentrata18– dall’altro, nei medesimi anni in cui dalle pagine di riviste e giornali manda raccomandazioni a genitori e a colleghi perché abbiano sempre a mente l’obiettivo Europa, si diletta inventando personaggi equivoci come il Signor Münster (in Casa la vita, Bompiani ’43) o rivisitando miti, come quello di Eros e Psiche. Mettendo in berlina quel pensiero e ideale fallocratico, che a Gadda avrebbe ispirato in contemporanea l’esilarante poemetto di Eros e Priapo, e che lui riassume così: «Sui campi dei collinosi di mammelle, domina ritto un fallo gigantesco, fiancheggiato da due baffi, simili a due sciabole nere. Nel mezzo dell’Europa, su un divano civilmente magro… dorme Ermafrodito», pacifico e sereno e ben lontano dal pensare di usare il proprio organo virile «come un cannone, uno scettro, una mazza di giustizia». «Condizione ottima dello spirito europeo è dunque il dilettantismo», quel dilettantismo che proprio lui, uomo europeo per antonomasia, pratica da sempre, dal momento che «al solo uomo europeo è consentita una dialettica sessuale; una democrazia sessuale; un liberalismo sessuale – un dilettantismo sessuale» (cfr. NE, pp 148-150).
Münster, invece, nell’omonimo racconto, a un passo dalla morte, finalmente libero da inibizioni e moralismi, si trastulla come un ragazzino, poi si frantuma organo per organo e infine si traveste: in una Roma ancora addormentata, accompagnato da un’Aurora inedita, sfatta e stanca anche essa, si traveste da donna. Lui che, come Zeno nella omonima Coscienza aveva sposato Ada, la moglie per caso, così aveva sposato Erda solo perché abitava in centro; anche lui, un inetto come i personaggi sveviani, prende le distanze dal sociale attraverso il recupero di se stesso come corpo, come materia, prendendosi la libertà di sfasciarsi, di cadere a pezzi, di reagire a modo suo all’integrità e all’omogeneità, viste come costrizione e castrazione. Si maschera da donna, con humour carnevalesco, ma fuori dal carnevale: quale mossa più irriverente di questa? La dismissione della virilità in una società in cui la modernità nasceva assieme allo schiaffo e al pugno e alla donna era assegnata la sola funzione di fattrice per la nazione? «Liberalismo è chi nella donna vede una creatura umana e una compagna, e non uno strumento di piacere o soltanto la madre dei propri figli» (cfr. voce Liberalismo, in SE, pp. 80-81).
Le premesse c’erano già tutte, certo, nell’assunzione di Hermaphrodito a figura tutelare di una scrittura e visione del mondo perlomeno sdoppiate, e di una sessualità senza paletti – come abbiamo letto anche in Nuova Enciclopedia, o intravisto nell’immagine recitante di Apollo-Apolla, che spiazza il piccolo Nivasio in La tragedia dell’Infanzia. Ma è con la manipolazione del mito di Eros e Psiche, visto con l’occhio di un enfatizzante telescopio, che il Savinio di quegli anni insofferenti, raggiunge l’apice dell’irrisione, quando trasforma mito e storia letteralmente in farsa. Non tanto e non solo nel romanzo del ’27 Angelica o la notte di maggio, quanto e soprattutto nelle 60 tendenziose quanto esilaranti pagine de La Nostra anima, scritte tra 1943 e 1944, uscite nel ’44, in cui lo scrittore caricaturizza Psiche e fa scendere dal piedistallo Eros. Sono così corpulente le immagini e così tanti gli indizi che dissemina nella lettura e così ridondante il suo metalinguaggio che non è arduo dare un significato alla dissacrazione gioiosa che fa dell’atto d’amore. Psiche, quando finalmente vede Eros, dopo la lotta amorosa, nudo floscio e «sgonfiato» – in senso letterale e in senso metaforico – Psiche non lo vuole più: «Quello che io vidi allora: la cosa più brutta, più stupida, più avvilente, più sconcia, più informe, più inumana, più ridicola, più immonda, più illogica, più grottesca, più oscena, più inguardabile che occhio umano abbia mai veduto. E quello era mio marito? Il signore di tutto? Quello la fonte della mia vita?» La requisitoria, spiritosissima, vuole colpire la retorica della virilità del coevo maschilismo fascista o del coevo fascismo maschilista, che è lo stesso; ecco che vuol dire «scoprire gli altarini!». Non per niente la letteratura d’avanguardia, cui Savinio appartiene a pieno diritto è, tranne alcune note posizioni futuriste, una letteratura al femminile: non dogmatica, non autoritaria, tollerante, relativista, fondata sulla domanda e sul dubbio. Il maschilismo non può concedersi tentennamenti o dubbi, deve mostrare sicurezza, decisionalità, polso, forza e potenza (potere meglio), muscoli michelangioleschi e fallo dritto, ovvero!
Ma a questo punto siamo già usciti dal campo prettamente storico-politico e decisamente rientrati in quello della letteratura, come ci conferma col solito guizzo umoristico, proprio Alberto Savinio:
A poco a poco, abbandonai gli argomenti politici per ritornare agli argomenti culturali e di fantasia. Perché? Forse perché in materia politica non trovavo più niente da dire? No, ma per quella legge filosofica che induce l’organismo ad espellere da sé un corpo estraneo. E nell’organismo politico, il corpo estraneo ero io.
(A. Savinio, Europa, “Ulisse”, gennaio 1948, ora in Scritti dispersi, pp. 618-619)
{phocagallery view=category|categoryid=134|limitstart=0|limitcount=0|displaydescription=1|detail=2} Fernando Botero, El rapto de Europa, 1995, olio su tela, collocazione sconosciuta, p.173
Waylande Gregory, Europa, 1938, terracotta, proprietà Yolande Gregory, p.170
Immagini da: Luisa Passerini, Il mito d’Europa. Radici antiche per nuovi simboli, Giunti, Firenze 2002
Note
1. MV Altiero Spinelli, Ernesto Rossi, Il manifesto di Ventotene, ristampa, I. S. F. Altiero Spinelli, Ventotene 1994; SE Alberto Savinio, Sorte dell’Europa, Milano, Adelphi 1977; NE Alberto Savinio, Nuova Enciclopedia, Milano, Adelphi 1977. Nel ’41 Savinio inaugurerà la rubrica Nuova Enciclopedia sulla rivista “Domus” (1941-42) e altre voci scriverà per vari giornali fino al 1948: raccolte e pubblicate in volume solo nel 1977 da Adelphi; tra luglio ’43 e giugno ’44 scrive per “Tempo” gli articoli che confluiranno in Sorte dell’Europa, pubblicati nel ’45 da Bompiani. Con Enrico Falqui dirigerà, dopo la Liberazione, la collana degli Utopisti.
2. Promosso dal Dipartimento Storie e Religioni dell’allora Scienze umanistiche (oggi Facoltà di Lettere) della Sapienza, fu istituito nell’aprile 2006 e inaugurato il 6 dicembre dello stesso anno alla presenza del Presidente Giorgio Napolitano. I lavori si conclusero nel giugno 2009. Gli Atti sono stati pubblicati a cura di F. Gui da Bulzoni editore.
3. L’europeismo è una civiltà di carattere non teocratico, ma essenzialmente umano, e dunque suscettibile di progresso e di perfezionamento. L’Europeismo è una forma di civiltà prettamente umana, e così prettamente umana che ogni intromissione del divino nell’europeismo, ogni tentativo di teocrazia in Europa è un ostacolo all’Europeismo, un arresto di civiltà. (NE, 2002, p. 174)
4. La possibilità di riunire gli uomini del mondo intero in un solo consorzio è ancora così utopica, ma quella di riunire i popoli d’Europa no, e a questo fine deve tendere la nostra tenace volontà. (SE, p. 36) L’ideale di una federazione europea, preludio di una federazione mondiale, mentre poteva apparire lontana utopia qualche anno fa, si presenta oggi, alla fine di questa guerra, come una meta raggiungibile e quasi a portata di mano. (E. Colorni, Premessa a MV, p. 13)
5. «Lo stato, participio passato di stare, cioè a dire di un verbo che significa cessare dal moto» (SE, p. 91) è della natura dei tumori, diceva Savinio. Subdola, mascherata, strisciante, divora e cresce da parassita sulla pelle del popolo e lo svuota dentro; il DioStato come modello falso, conchiuso, gerarchico, verticalizzato.
6. La rivoluzione europea, per rispondere alle nostre esigenze, dovrà essere socialista, cioè dovrà porsi l’emancipazione delle classi lavoratrici e la realizzazione per esse di condizioni più umane di vita. […] Le forze economiche non devono dominare gli uomini, ma – come avviene per forze naturali – essere da loro sottomesse, guidate, controllate…! La proprietà privata abolita, limitata, corretta… caso per caso, …non dogmaticamente, in linea di principio. Razionalizzata e controllata, ma anche potenziata, a vantaggio della collettività. (MV, p. 24) Socialismo: sentimento “religioso del nostro tempo”. È solo in questo sentimento che l’Europa si potrà formare. Perché nel sentimento socialista vive e si esprime il senso del divenire; perché il sentimento socialista è il sentimento stesso della formazione e del progresso; perché il sentimento socialista scorrente come un grande fiume non ferma gli uomini intorno a un domma, intorno a una situazione “cristallizzata”, ma apre la strada alla vita. (A. Savinio, Scritti dispersi, Lana, documento ed. 1944, (Bompiani), ristampa 1960; successive con Adelphi, p. 149)
7. L’orribile confusione nella quale il mondo è precipitato, è il segnale assieme che il mondo si dovrà riordinare in una nuova civiltà. E la civiltà, per essere veramente tale, deve essere l’espressione di una precisa e profonda omogeneità spirituale. Se vogliamo che una nuova civiltà sia, dobbiamo tutti noi che possiamo, prepararla per mezzo di un complesso di cognizioni spiritualmente coordinate. (SE, p. 69)
8. Oggi, fra i popoli del nostro continente, il popolo italiano è forse il più aperto a un concetto europeo di vita, il che è certamente dovuto in gran parte al suo conoscere anche la cultura degli altri popoli (e non parlo di un popolo tributario di cultura, ma dell’italiano che a sua volta è il creatore di una grandissima cultura) ossia di conoscere anche la vita e l’animo degli altri popoli. (Savinio, Conquista e amore, “Il Tempo”, 12 giugno 1945, in Scritti dispersi, p. 137)
9. Liberalismo non è un partito politico… non è una forma politica, non è una formula politica… Liberalismo è l’uomo dei sentimenti e dei pensieri, contrapposto all’uomo dei bisogni e degli istinti. Liberalismo è un cristianesimo laico… Liberalismo è l’umana fraternità intesa in maniera pulita e decorosa. Cfr. SE, pp. 78-82
10. Ho consumato l’infanzia fuori di Italia e avendo dovuto in quel lontano tempo reagire alle bestiali rivalità nazionaliste, ricordo che le due principali ragioni di orgoglio che io avevo di sentirmi italiano di fronte a stranieri, era che l’Italia non aveva la pena di morte e che era la terra degli anarchici. (SE, p. 44)
13. L’isola diventa dunque una finestra sul mondo nel momento tragico della dichiarazione di guerra della Germania di Hitler e poi, di seguito, per tutto il corso della seconda guerra mondiale. Le notizie arrivavano in ritardo, ma arrivavano, anche grazie al ruolo significativo del prete dell’isola, che aiutava i detenuti accendendo la sua radio a tutto volume, affinché coloro che passavano sotto la sua finestra potessero ascoltare le notizie sull’andamento della guerra.
14. Conferenza tenuta al Parlamento europeo del 14 febbraio 1984, dopo l’approvazione del Trattato.
15. E così definisce il pompierismo: «Pompiere è colui che non pensa per criterio proprio, ma secondo schemi prestabiliti e consacrati dall’opinione dei più. Il pompiere è incapace di opera originale, ossia viva e pura, ma – o imitatore, servum pecus – fabbrica imitazioni di cose preesistenti e vistose […] Il pompiere pensa che una grande opera di musica non può essere fatta se non sul modello della NONA SINFONIA. (SE, p. 33)
16. Prima cura di un regime autoritario è di mantenere il pensiero e il giudizio del popolo in istato di inerzia totale (SE, p16). L’autorità odia l’intelligenza, perché nell’intelligenza sente l’avversario che presto o tardi lo vincerà. (SE, p. 24)
17. Che vale visitare città e paesi e vedere soltanto le loro facciate collocate nello spazio, con l’aggiunta di alcune notizie storiche? Anche delle città e paesi io voglio penetrare le vie dell’anima, e giudicarla. Ora io pongo i principi di una geografia psichica. Determinare perché in questa parte della terra gli uomini posseggono certe qualifiche, e in quella ne posseggono altre. (in Lo Stato, “L’illustrazione italiana”, 16 giugno 1946, ora in Scritti dispersi, p. 295)