Du bist nicht zu ändern, ich bin nicht zu bessern
Jean Paul
Pubblicata nel 1800 e «ideata in appena 14 giorni» (CF, 93-94), la Clavis fichtiana seu leibgeberiana pare essere sostanzialmente una satira contro Fichte. L’obiettivo del testo è quello di dischiudere il senso della Wissenschaftslehre e delle sue implicazioni sul piano epistemologico ed etico. Il titolo evoca la Clavis ciceroniana (1739) di Ernesti – maestro di Fichte a Schulpforta una trentina di anni prima – dove veniva presentato un indice dei principali lemmi dell’opera di Cicerone. Jean Paul testimonia così la sua sensibilità illuministica ed enciclopedistica che lo rende «insaziabile postillatore e sunteggiatore di libri» e lo porta a trascrivere «sempre sulle sue famose schede quanto per qualsiasi verso gli sembrava notevole». Anche perché «ognuna di queste è un tentativo di prendere possesso di una particella della realtà, di creare un incontro tra la realtà e l’anima» (MITTNER 1978, 643).
Oltre a una serie di prefazioni, introduzioni e avvertenze al lettore, infatti, i 14 paragrafi che compongono lo scritto di Jean Paul sembrano un insieme di “schede”, ciascuna riferita ad un aspetto fondamentale (o meglio: ad un lemma) della dottrina della scienza di Fichte (verità, assoluto, aseità, io, non-io, ecc.). A questi si aggiunge un paragrafo conclusivo intitolato I dolori di un Dio nell’orto del Getsemani che evidenzia in maniera suggestiva le nefaste conseguenze implicite nel fichtismo.
La Clavis fichtiana è, poi, leibgeberiana. Nel restituire i tratti di base della terminologia di Fichte, Jean Paul riporta le tappe dell’adesione al fichtismo da parte di Heinrich Leibgeber. Il personaggio compare già nel romanzo del 1797 Siebenkäs e nel Titan, di cui la Clavis fichtiana costituisce la seconda appendice comica. Leibgeber è il sosia del protagonista del Siebenkäs, Firmian e, dopo la sua morte, si reincarna con il nome di Schoppe, che nel Titan è precettore ed educatore del protagonista, Albano. Leibgeber, descritto come un’anima bella e nello stesso tempo come una larva grottesca, è anche un idealista claudicante dal corpo brutto. Egli è sempre il “doppio” dei personaggi a cui viene associato. Nella Clavis, Leibgeber è anche il doppio di Fichte, la sua caricatura e l’espressione della scissione inevitabile dell’io assoluto teorizzato da Fichte (ma anche di quello di Fichte stesso). Una scissione che, tuttavia, non è posta analiticamente dall’assoluto, ma è un dato che scardina la presunta autoreferenzialità fichtiana e che, come Jean Paul intende mostrare, la eccede continuamente.
La Clavis, infatti, si propone di «abbattere l’idealismo fichtiano servendosi di Con-Io esterni, ovvero di quell’esistenza che al contrario dovrebbe sorreggerlo» (CF, 22). Quella di Fichte è una filosofia dell’agire (CF, 22) fondata su un io assoluto che ha la facoltà di creare «cielo, terra ed ogni cosa, compreso Fichte quale osservatore di tale creazione» (CF, 64). La Wissenschaftslehre riflette il sovvertimento del linguaggio dato in una lingua pura e artificiale, condizione di possibilità di quel «computo filosofico dell’infinito» che caratterizza la filosofia trascendentale nel suo complesso (CF, 28, 45, 65). La dottrina della scienza può perciò essere rappresentata come la cima del Monte Bianco: un ghiacciaio altissimo e distante dal mondo, un’altezza «vertiginosa» dove «si respira un’aria così fine che più nessun concetto è sufficiente» (CF, 66).
Sebbene Jean Paul intenda sciogliere e rimpicciolire questo ghiacciaio «sotto raggi più caldi dei suoi, fino a che non sosterrà più il cielo» (CF, 23) confutandolo innanzitutto sotto il profilo teoretico (CF, 22), è dal punto di vista pratico che gli esiti del pensiero fichtiano risultano insostenibili. Dopo aver abbracciato la filosofia di Fichte, Leibgeber può guardare i suoi piedi con occhi diversi, può cioè considerare se stesso dall’alto e scoprirsi finalmente come «tutto l’universo», come la sua «natura naturans, il demiurgo e l’amministratore» (CF, 69). Proprio come «quel mendicante che svegliandosi dopo la sbornia, di colpo si ritrova re. Un essere che […] fa tutto […] che tutto partorisce […] rompe, getta e pone» (CF, 69), compresi «il paio di tomi che Fichte ha scritto; perché lo devo porre o produrre, prima che immerga la penna nell’inchiostro – e dipende dalla mia politesse morale, se voglio lasciarlo vivere» (CF, 70). Il fichtiano conseguente dovrebbe, cioè, negare l’esistenza di Fichte stesso, ridurlo a espressione della sua autoattività creatrice. Una volta stabilita la relazione tra questa attività e la legge morale, si pone la questione relativa all’esistenza degli altri esseri razionali, alla quale si può trovare una risposta in due direzioni. O si ammette che l’io è creatore anche degli altri e, per questo, «l’uomo estraneo che appare davanti a me dev’essere semplicemente un’agile marionetta della mia moralità, una comparsa che io gratifico ed amo solo sulla scena, senza che egli ne ricavi qualcosa, perché l’unica a trarne vantaggio dev’essere l’arte drammatica della virtù» (CF, 78). Oppure, all’inverso, si postula che ciascun io empirico sia anche per sé stesso un io assoluto legato ad una sua legge morale pura: «allora tutti noi abbiamo nuovamente davanti alla porta la vecchia, grigia fanghiglia di neve del realismo, che abbiamo già precedentemente sciolto con tanto ardore ed inchiostro» (CF, 74).
Così, da una parte, gli altri io possono essere intesi come statue che «io potrei schiacciare e fare a pezzi come altrettante maschere (poiché sono unicamente un mio prodotto, senz’alcuna egoità o libertà assoluta)» (CF, 76), prima di abbandonarmi alla mia solitudine, tutto dedito a una «vita insulare e oziosa, signorile e senza scopo, che deve condurre una divinità» senza alcuna compagnia (CF, 98). È il preludio alla disperazione che Leibgeber ammette a conclusione del testo: «nel tenebroso, deserto silenzio non arde nessun amore, nessun’ammirazione, preghiera, o speranza, nessuno scopo – Io sono, così, completamente solo: nessuna pulsazione da qualche parte, nessuna vita, nulla intorno a me e senza di me niente di niente […] E ora chi ascolta il mio lamento e mi conosce? – Io – Chi l’ode e mi conosce dopo l’eternità? – Io.» (CF, 102).
Dall’altra, invece, ammettendo l’esistenza di più io assoluti, anche la molteplicità di soggetti sarebbe garantita. Ma ciascuno avrebbe il suo Dio, cioè se stesso. E ciascun io, in quanto assoluto, non potrebbe comunicare con gli altri se non in sogno. Tra esseri umani non vi sarebbero scambi concreti. Resterebbe solo la possibilità di un’interazione basata sulle intenzioni. Ma queste, non potendo mai pervenire a realtà se non grazie alla autoattività di ogni io assoluto sarebbero assimilabili piuttosto a un sogno che non alla realtà stessa. «L. (cioè io), che vive fuori da ogni oggettiva connessione con i settanta ragazzi, come deve comunicare e apprendere se lui e loro si incontrano nello spazio e nel tempo e nel sogno? […] Posto che mi pongo a sedere, e per di più postulo […] la simultaneità dei sognatori e del sogno: non vedo purtroppo attorno a me nessun potere esecutivo, che sia capace di intervenire dal di fuori e procurare […] una sorta di parallelismo e sensorio comune dei sogni, tra noi Io divini e venerabili – non vedo e non sento nessuno» (CF, 75-76). Una simile conseguenza implica immediatamente il politeismo: se ogni io ha il suo Dio ed è per se stesso anche il suo Dio, allora o Dio viene negato, oppure moltiplicato e destituito della sua essenza. L’esito è quello prefigurato nella Lamentazione di Shakespeare morto e portato alla sua massima espressione poetica nel celebre Discorso del Cristo morto, allorché alla domanda “abbiamo un padre?” Cristo risponde: «siamo tutti orfani, io e voi, siamo tutti senza padre», poco dopo aver affermato: «ho attraversato i mondi, sono salito fino ai soli e ho percorso a volo, lungo le vie lattee, i deserti del cielo; ma non c’è Dio alcuno. Sono disceso fin dove l’essere proietta le sue ombre e ho scrutato nell’abisso gridando: dove sei tu padre? Ma ho udito solamente l’eterna tempesta che nessuno governa […] Continuate a risuonare, o note dissonanti, stridete fino a dissolvere le ombre; poiché Egli non c’è» (RICHTER 1997, 26-27).
Dunque, secondo Jean Paul la Wissenschaftslehre è espressione di un nichilismo, riduce tutto all’attività di un supposto io assoluto, elimina il rapporto dell’io con il mondo, quello con gli altri esseri umani e, infine, dissolve anche la relazione dell’individuo con un’entità trascendente che conferisce senso alla sua vita concreta. Questo il nucleo filosofico della satira jeanpauliana o, sfruttando la termologia musicale di cui lo stesso Jean Paul si serve nella Clavis, la tonalità di questa sua partitura.
Ora, se lo si contestualizza, questo impianto teorico potrebbe apparire persino banale. La Clavis esce quando l’Atheismusstreit si è già consumata. E, soprattutto, quando l’immagine nichilistica della dottrina della scienza si è già imposta al pubblico filosofico. Nel 1799 il ben più famoso Nihilismusbrief di Jacobi ha affondato definitivamente il progetto fichtiano e lo ha bollato come nichilistico. Fichte stesso è stato descritto da Jacobi come il messia di una ragione speculativa e autoreferenziale che, come un lavoro a maglia, si annoda su se stessa e si sfila da se stessa, incurante del bisogno di un accesso effettivo e percettivo dell’individuo alla trascendenza. Per Jacobi non si tratta di salvare Dio dal riduzionismo e dal razionalismo implicito nelle rielaborazioni della filosofia critica, ma l’uomo come essere in grado di rivendicare un rapporto concreto e tangibile con l’altro da sé (OLIVETTI 1978).
I motivi filosofici che percorrono il breve scritto di Jean Paul non sono, in effetti, molto diversi da quelli sviluppati da Jacobi. A Jacobi è dedicata la Clavis e grazie al complesso scambio intervenuto tra i due autori Jean Paul recupera il tema dell’individualità come strumento per sfondare ogni filosofia pura e assoluta, di cui la dottrina della scienza di Fichte rappresenta l’estremo (CF, 24; cfr. IACOVACCI 1992, 37-48). Comune ai due autori, insomma, è il tentativo di portare l’argomentazione della filosofia trascendentale al parossismo, di evidenziarne gli esiti assurdi, grotteschi e inaccettabili sul piano assiologico, da una prospettiva forte dell’atteggiamento in parte scettico e in parte satirico/umoristico radicato nella visione del mondo protestante e, particolarmente, in quella pietistica (BAINTON 1958, 79; POPKIN 1960; STÄUDLIN 1794). Jacobi supera senz’altro Jean Paul per la fecondità filosofica delle sue tesi. Jean Paul supera indubbiamente Jacobi per il pregio letterario della sua satira.
Jean Paul mette a nudo i nervi scoperti della Wissenschaftslehre fichtiana. Certo, la dottrina della scienza, soprattutto nella forma assunta tra il 1794 e il 1799, può sembrare una filosofia dell’io che stenta a lasciare spazio alla comunicazione intersoggettiva e fatica a piegare le astrattezze di una legge morale modellata su toni kantiani alla concretezza e alla particolarità della vita individuale. La Clavis fichtiana può ben essere, in questo senso, una critica all’egoismo filosofico (HARICH 1968). E proprio per via dell’aspetto morale che vi è connesso, costituisce uno scritto satirico e non comico. Come Jean Paul mostra anche nella Vorschuhle über Ästhetik, il comico è amorale (o estraneo alla morale). La satira si nutre invece di un moralissimo sentimento di indignazione che sferza il malcostume e i vizi collettivi. Uno scritto satirico non ci fa ridere serenamente e spensieratamente. Non si limita a rovesciare il reale, ma la posizione che pretende di dischiuderne il senso senza mettere a fuoco l’autoinganno di cui è vittima. La satira è accompagnata da un sentimento di superiorità e di orgoglio, è costituita da un tono edificante che non induce alla simpatia verso la posizione derisa (SPEDICATO 1996). Il riso della Clavis espelle il suo oggetto, lo classifica come deforme, ne fa vibrare le dissonanze.
Sì, nella Clavis domina la dissonanza della Wissenschaftslehre (RASCH 1973, 26-27). La filosofia di Fichte viene compresa come un accordo che è espressione «di tre toni» (JPSW, I, 7, 447). Nel leggere queste parole non può non venire in mente l’ultimo movimento della Sinfonia n. 1 “Titan” di Gustav Mahler, ispirata proprio al Titan, di cui la Clavis non solo è appendice comica, ma vera e propria «coda» (CF, 21). Il lungo accordo con cui si apre l’ultimo movimento della sinfonia mahleriana è un “tritono” (Do, Mi, Fa#), costruito cioè su un intervallo di IV aumentata che, proibito nella armonia scolastica per via del suo carattere profondamente dissonante, già nel Medioevo veniva definito diabolus in musica. Secondo Jean Paul diabolica sarebbe anche la filosofia fichtiana, perché i suoi tre toni non risolvono la loro tensione riconciliandosi in un’armonia superiore. Il diabolico fichtismo di Leibgeber è, però, anche goffo e macchinoso. Travestito da scienza filosofica rigorosa e pura è in realtà una filosofia da fanfara, simile a quella di cui Mahler si serve per sviluppare il suo tritono nello stürmisch bewegt che avvia il IV movimento della sua sinfonia.
La sinfonia di Mahler è forse il migliore strumento per accostarsi ad un autore come Jean Paul, la cui prosa non è plastica, ma ritmica, i cui intrecci cedono il passo ad una frammentazione poco attenta all’unità della narrazione la quale, come nel Melodramma, non è nulla più di un meccanismo che ha la funzione di contenere sentimenti e passioni informi e perverse e non l’espressione di una vicenda organica in cui si deposita il lineare e progressivo decorso dell’esistenza umana, come avviene ad esempio in Goethe (cfr. ad es. STERN 1974 e STEIGER 1974).
Ora, alla luce di tutte queste considerazioni si ha buon gioco nel constatare l’originalità e la complessità letteraria dell’opera di Jean Paul e della Clavis fichtiana. Altrettanto facile è mostrare in che modo Jean Paul tradisca lo spirito della dottrina della scienza di Fichte inchiodandolo alla sua lettera. Quello che per Fichte è un pensiero da produrre e riprodurre in forma sempre nuova e diversa sotto ogni diversa condizione del tempo e della comunicazione, viene cristallizzato da Jean Paul in una gabbia autoreferenziale che tocca solo la forma espositiva della dottrina della scienza, senza tuttavia coglierne il valore di progetto filosofico globale. Fichte, di fatto, non mira ad una negazione della realtà in un «filosofico sogno di onnipotenza» (DE CONCILIIS 2003, 119), ma alla ricerca delle condizioni per modificarla razionalmente (LAUTH 1984).
È sulla via di una sbrigativa contrapposizione tra il poeta del nichilismo (Jean Paul) e il suo Messia (Fichte) che la fecondità filosofica del progetto trascendentale fichtiano e l’ampiezza della visione di Jean Paul vengono schiacciate in una lettura unilaterale che assolutizza il dato della satira senza considerarne il motivo morale – e filosofico – di fondo. Al di là degli stereotipi interpretativi – che investono tanto Fichte quanto Jean Paul (MINTER 2002, 113) – si deve tener presente che la Clavis è una sintesi formidabile della ricezione della prima dottrina della scienza di Fichte e che, forse, la satira jeanpauliana, più che Fichte, tocca il fichtismo tipico di quei «magistri che fanno lezione o hanno seguito lezioni all’università» e che «sono andati a lavorare a giornata, come i forzati, all’impianto idraulico e ai cunicoli di miniera della filosofia critica» (RICHTER 1997, 24). È il fichtismo degli Schlegel o di Novalis, che si risolve presto in una filosofia panteistica ed estetizzante, la cui fortuna è stata più letteraria che non filosofica e sul quale una parte importate della letteratura critica jeanpauliana si è già soffermata (cfr. su tutti HARICH 1968).
Ma «l’ambiente letterario è una vegetazione superficiale che trae vita da un terreno culturale più profondo, fatto di esperienze vissute e di idee riflesse e programmatiche» (PUPI 1966, 3). In una prospettiva filosofica, dunque, la Clavis può essere letta con lenti diverse. Non solo come un episodio della ricezione della Wissenschaftslehre, ma anche come un importante documento relativo ai condizionamenti filosofici che la hanno determinata. E, in particolare, come espressione di una sostanziale e inconsapevole torsione nell’immagine della Wissenschaftslehre, vista sempre meno come ripetizione e riconfigurazione della domanda, kantiana e per nulla nichilistica, “che cos’è l’uomo?”, ma come filosofia mistica che decapita il legame fattuale e personale con Dio quale condizione per operare un conferimento di senso nei confronti della vita concreta (HENRICH 1991).
Fatte queste premesse, è ora possibile volgersi a tre passaggi della Clavis che permettono di far luce su alcune fonti del testo jeanpauliano e rappresentano altrettanti punti critici per lo sviluppo della visione di Fichte e delle linee della sua ricezione: la formazione linguistica della dottrina della scienza, il suo essere “metastasi” dello spinozismo e la relazione tra feticismo e politeismo che la qualifica come nichilismo. Da qui potranno forse emergere alcuni elementi di originalità, non solo letteraria, del testo jeanpauliano.
Uno dei passaggi più rilevanti della Clavis fichtiana è il Protektorium per il curatore, cioè il «salvacondotto» che Jean Paul premette al testo vero e proprio per non essere frainteso, a cui si uniscono le exercitationes filosofiche condotte con l’obiettivo di mostrare la distanza della filosofia di Fichte, e di Leibgeber, dal sano intelletto umano che «tormenta incessantemente» i «veri filosofi […] essendo capace di trasformare un così solido edificio dottrinale in un manicomio» (CF, 41). Il sano intelletto umano, infatti, può essere inteso come «negativa istanza di prova per i sistemi» (CF, 41) attraverso un’esplicitazione della sua natura linguistica. La dinamica che caratterizza l’intelletto riflette quella della costituzione del linguaggio a partire da una generalizzazione di dati empirici operata per mezzo della percezione interna. La filosofia fichtiana – e, si potrebbe dire, l’impianto complessivo della filosofia trascendentale kantiana e postkantiana – non è altro che il prodotto di una perversione e di una sublimazione di questa dinamica in tre direzioni.
La prima è definita da un’inversione delle determinazioni qualitative derivanti dalla percezione di un corpo esterno in determinazioni quantitative. In questo modo è possibile, secondo Jean Paul, prescindere dall’individualità del dato percettivo (o, che è lo stesso, dalle qualità primarie dell’oggetto percepito), annientarne la particolarità e «sommare e sottrarre questi corpi e sostrati delle forze» (CF, 46). Si origina, così, una sorta di “matematizzazione dell’universo” che permette di definire la costituzione del reale senza volgersi effettivamente ad esso, cioè senza tener conto del dato della percezione empirica (CF, 46).
La seconda direzione, al contrario, porta a «distillare le quantità fino a farle diventare qualità», a «sollevare il corpo fino a farlo diventare spirito» (CF, 46). Nella dottrina della scienza «parole come restringimento, recinzione, arginare, incatenare, comprimere, concentrare, ecc.» (CF, 46n), non indicano il rapporto dell’io concreto con il mondo esterno, ma la natura e l’essenza dell’io stesso prima dell’incontro con un oggetto e, piuttosto, lo condizionano. Anche qui la considerazione filosofica si sente legittimata a dissolvere il rapporto vivente con un dato e a ridurlo ad espressione di un pensiero che non può esserne vincolato.
L’ultima direzione concerne la progressiva generalizzazione operata dal linguaggio della filosofia. Nella Wissenschaftslehre la designazione arbitraria di un oggetto perde ogni contatto con l’oggetto designato, diventandone dapprima riproduzione e rappresentazione e svuotandosi, poi, «di ogni specifica differenza per poter accomunare un maggior numero di oggetti e definire, ad esempio, il gusto come un odorato più fine o il suo contrario»; fino a produrre un «intero universo che se ne sta lì, con tutte le sue forze e i suoi colori, trasparente come un vuoto e arioso Non-Io» (CF, 48).
La prospettiva di Jean Paul oscilla evidentemente tra Herder e Jacobi, interlocutori con i quali l’autore intrattenne sempre un vivace contatto. Anche lo Herder della Metacritica propone una riflessione che muove dalle lingue storico-naturali e si presenta come correzione e riforma della filosofia esistente e della filosofia critica in particolare. Per Herder la filosofia deve partire ed attenersi al linguaggio dato, senza commettere lo stesso errore di Kant, il cui gergo filosofico ne deforma senso e significato, generando quel totale e maligno fraintendimento che caratterizza la metafisica come scienza (HERDER 1968, 62). Alla ragione kantiana, perennemente protesa verso l’infinito, Herder contrappone un modello che si radica nel finito e nell’esperienza umana (HERDER 1968, 128). Diversamente dalla generalizzazione operata dalla Wissenschaftslehre, il linguaggio e la conoscenza umane devono esibire una dinamica di progressiva particolarizzazione, che si estrinseca in un processo storico il quale, dalla costituzione dei nomi comuni porta ai nomi propri e, infine, alle parole-indice abbreviative (io, tu, egli, ecc.) (HERDER 1968, 237). Proprio per via di questo processo, comune tanto all’attività conoscitiva quanto a quella linguistica, non è mai possibile parlare, per Herder, di una “ragione pura”. La ragione, piuttosto, dipende strutturalmente dalle particolari forme linguistiche che mediano il formarsi, il fissarsi e il trasmettersi del patrimonio esperienziale dell’essere umano (HERDER 1968, 295).
Una simile visione del linguaggio doveva rappresentare per Fichte un elemento critico decisivo. Tanto più che questioni simili, in evidente armonia con la posizione di Herder, tornano nella lettera sul nichilismo (JACOBI 1962, 154) e, ancora prima, nella VII appendice degli Spinozabriefe, che Jean Paul considera come l’antidoto contro la critica di Kant e come l’ancora di salvezza da tutti i «gorghi critici e fichtiani» (JPSW, III, 3, 130). In questo contesto, e soprattutto nelle prime due Beylage della lettera, Jacobi intende il linguaggio come frutto del bisogno di una percezione e di una comprensione piena della realtà (JACOBI 1962, 255). La scomposizione del reale che si ottiene mediante l’astrazione e la formazione di una lingua non deve però coincidere, secondo Jacobi, con il «meccanismo» che caratterizza la costruzione concettuale delle filosofie trascendentali (JACOBI 1962, 256-257). L’attività astraente dell’intelletto confonde e uniforma l’equazione fra parola e mondo, da un lato, e quella fra immagine e idea, dall’altro (JACOBI 1962, 255). Il Begreifen perde di vista il potere espressivo del linguaggio e ne svilisce il carattere di forma in cui la realtà si costituisce come discorso significante (OLIVETTI 1970, 90-91). Il presunto nichilismo della filosofia trascendentale non consiste in una riduzione al nulla, ma in una caduta nell’assurdo: non – o non solo – l’annullamento della realtà, ma la perdita di ogni corrispondenza sensata fra conoscenza e mondo (OLIVETTI 1980).
Non è questa la sede per mostrare in che modo il punto di vista della Wissenschaftslehre sia lontano da critiche di questo tipo, fondate su una confusione tra filosofia e vita, tra punto di vista dell’intelletto comune e punto di vista trascendentale (FERRAGUTO 2010). Vale però la pena sottolineare che la dottrina della scienza, in quanto analisi della struttura della coscienza concreta, configura la riflessione sul linguaggio, non tanto come definizione delle condizioni del detto, quanto di quelle del dire, e le ritrova grazie alla descrizione della dinamica della concreta interazione intersoggettiva (OLIVETTI 1992). Questa si presenta, fin dagli anni in cui Jean Paul matura la sua critica, come orizzonte in cui si rende possibile, non solo la comunicazione effettiva tra gli esseri umani, ma anche la produzione stessa del discorso filosofico il quale, in questo senso, si rivela essere un mero esercizio di pensiero che si risolve – e si dissolve – in un agire concreto all’interno di un mondo dato.
Forte delle posizioni jacobiane, Jean Paul ne riprende le coordinate anche per accusare la Wissenschaftslehre di spinozismo. In Jacobi, però, la dottrina della scienza è un rovesciamento della posizione di Spinoza (JACOBI 1948, 174). In Jean Paul sarebbe una sua «metastasi» (CF, 64). Già nella VII appendice agli Spinozabriefe Jacobi aveva mostrato come a monte della tesi spinoziana che fa di Dio il principio genuino del reale «senza individualità e assolutamente infinito» (JACOBI 1914, 211), vi fosse la tendenza ad assorbire la realtà dell’oggetto esterno nella sua fenomenicità. Da qui il trasferimento, tipico di Spinoza, delle determinazioni soggettive e ideali legate alla comprensione fenomenica dell’esistente nella struttura stessa del reale (JACOBI 1914, 213-215, 217). Così «noi ci impadroniamo dell’universo, quando lo smembriamo e creiamo un mondo proporzionato alle nostre attitudini, un mondo d’immagini, d’idee, di parole, affatto dissimile dal reale» (JACOBI 1914, 213). Ogni tentativo di dimostrare l’esistenza di un principio originario dell’universo deve sottostare alle leggi dell’intelletto. Ma siccome il nostro intelletto può agire solo in riferimento alle leggi della natura, una simile dimostrazione non è altro che una naturalizzazione del sovrannaturale (JACOBI 1914, 211). In Fichte, all’inverso, il «cubo» della sostanza spinoziana verrebbe sostituito da «una fiamma pura, capace di ardere per forza propria, non bisognosa di essere localizzata né alimentata: l’idealismo trascendentale» (JACOBI 1948, 174). Così, mentre in Spinoza si assiste ad un indebito trasferimento degli schemi validi per comprendere la natura alla spiegazione di Dio, in Fichte sarebbe la natura di Dio ad essere indebitamente trasferita negli schemi necessari per comprendere la natura. L’intelletto soggettivo verrebbe divinizzato ed eretto a strumento per comprendere ciò che non può essere sussunto sotto le sue categorie. Si tratta di una posizione molto vicina allo stereotipo, ben sintetizzato da Baggesen, secondo cui tanto Spinoza quanto Fichte sarebbero autori di una filosofia dell’hèn kaì pân, con l’unica differenza che se «secondo Spinoza il pân è la madre dell’hén, secondo Fichte l’hén è il padre del pân» (BAGGESEN 1831, 214).
Per Jean Paul, invece, la Wissenschaftslehre non si limita a rovesciare lo spinozismo. Il non-io, infatti, non è solo una creazione dell’io, ma vi si contrappone come qualcosa di autonomo, generando situazioni assurde come lo “sdoppiamento” di Fichte e di Leibgeber o il conseguente annientamento di Fichte stesso nel fichtismo del suo epigono: «se Fichte trova soddisfacenti i miei principi […] allora egli è certamente l’uomo che per primo riconosce di non esistere» (CF, 83). Spinoza sarebbe il primo grande fautore del monismo. E Fichte, nell’estenderlo, si farebbe carico della sua ipertrofia: dall’ammissione di una sostanza si passerebbe ad infinite sostanze e, per altro verso, a una serie infinita di negazioni della sostanza, che si rivelerebbero sostanze a loro volta, e così via.
La satira di Jean Paul riprende una questione filosofica diffusa nella prima ricezione della Wissenschaftslehre, vale a dire quella relativa al rapporto tra io assoluto e io finito. In Fichte l’io assoluto è una nozione che esibisce un’istanza pratico-teoretica la quale, da una parte tutela il discorso filosofico di fronte ai condizionamenti empirici, dall’altra esprime la purezza etica della motivazione che spinge alla filosofia. Nella Prima introduzione alla dottrina della scienza Fichte non parla più di io assoluto, ma di postulato. Non si tratta di un principio indimostrabile, ma di una regola che ciascun individuo filosofante deve ammettere per poter filosofare e la cui legittimità trova una verifica nell’azione che esso stesso rende possibile. E tale regola è: pensa te stesso e guarda come fai. In questo senso l’io assoluto è un concetto che ha un intrinseco riferimento ad un’esperienza individuale, ha un valore funzionale solo al procedere del discorso filosofico e tocca e condiziona la vita concreta dell’individuo filosofante solo per via indiretta. Lo stesso discorso vale per il processo relativo alla deduzione della legge etica nella Sittenlehre del 1798. Anche in questo testo Fichte trova in una dimensione puramente egologica il suolo ultimo per la spiegazione della legge morale. Ma un conto è una spiegazione della legge morale entro i limiti della filosofia, un conto è scambiare il processo di deduzione della legge con quello relativo alla sua produzione, che nella Sittenlehre non trova spazio alcuno. Per Fichte, dunque, non sarebbe possibile sovrapporre il piano del discorso filosofico a quello della vita concreta: «il vivere è, in verità, il non-filosofare; il filosofare è, in realtà, il non vivere » (FICHTE 1989, 192).
Diversa è la posizione di alcuni interpreti di Fichte, come ad esempio quella assunta da Hölderlin in una lettera a Hegel del novembre 1795: Fichte «vorrebbe […] oltrepassare nella teoria il fatto, ed è comunque certo […] che nel suo Io assoluto (= alla sostanza di Spinoza) […] non è pensabile alcuna coscienza» (HÖLDERLIN 1943, 155). La coscienza, come attività riflessiva e discorsiva, può darsi solo in funzione di una limitazione dell’io stesso. E l’io assoluto, in quanto tale, non ne tollera. Così, delle due l’una: o l’io assoluto è veramente assoluto, e allora la filosofia di Fichte si riduce al nulla; oppure è identico all’io concreto il quale, come nella Clavis, dovendo contenere ogni realtà non sarebbe altro che un “atomo” (o una monade) completamente chiuso in sé e isolato da tutti gli altri. Il rapporto tra io assoluto e io finito potrebbe allora essere pensato solo a partire da una intuizione immediata che rende accessibile una dimensione di senso impersonale di cui la coscienza non sarebbe altro che una sorta di differimento originario, come sostiene lo Hölderlin di Urteil und Sein, o, come sostiene lo Schelling delle Lettere sul dogmatismo e criticismo, un non meglio giustificabile «potere misterioso, meraviglioso, […] di ritrarci dal mutamento del tempo, dopo esserci spogiati di tutto ciò che ci venne dall’esterno, nella nostra interiorità e qui contemplare l’eterno in noi sotto la forma dell’immutabilità» (SCHELLING 1995, 52).
Proprio la figura di Schelling doveva essere decisiva per l’imporsi al pubblico filosofico di una certa immagine di Fichte come filosofo dell’assoluto. Schelling, infatti, viene inizialmente considerato da Fichte come uno dei suoi interpreti più attendibili e, più in generale, etichettato dai contemporanei come Ich-Marktschreier, imbonitore dell’io di Fichte e divulgatore attendibile della sua filosofia. Non è un caso che sia lo stesso Jean Paul a confessare, in una lettera a Jacobi del 4 giugno 1799, di aver mutuato la sua conoscenza della filosofia fichtiana da Schelling e non solo dalla Prima e seconda introduzione alla dottrina della scienza, dal Sistema di etica e dal Diritto naturale fichtiani. Una valutazione di questo campo testuale chiarisce anche le fonti che motivano la sua accusa di spinozismo. Nei testi di Fichte, che Jean Paul sostiene di conoscere direttamente, la presenza di Spinoza è assai modesta e, comunque, il suo pensiero viene considerato come espressione della «più diretta contraddizione con i convincimenti che lo riguardavano nella vita» (FICHTE 1999, 95). Più rilevante è il confronto con Spinoza nella Grundlage der gesammten Wissenschaftslehre, dove però il filosofo olandese viene aspramente criticato come esponente di una forma di realismo che assolutizza la cosa in sé a tutto svantaggio del compiuto sviluppo dell’argomentazione filosofica. È invece Schelling a riabilitarlo e a renderlo nume tutelare di un trascendentalismo che trova in un «incondizionato» io assoluto tanto il principio dell’essere, quanto quello del conoscere (SCHELLING 1980, 90) e che pone l’ identità tra io e Dio come presupposto per tale identificazione (SCHELLING 1980, 91, 2n). Schelling arriva addirittura a trovare nell’intuizione intellettuale la «verità del sistema di Spinoza», avviando, in questo modo, il graduale processo che porterà sia alla rottura dei suoi rapporti con Fichte, sia a quel totale fraintendimento della posizione fichtiana che motiva anche le critiche di Jean Paul.
Viene allora da pensare che il disprezzo satirico di Jean Paul vada nella stessa direzione indicata dall’ironia di Reinhold che qualifica la filosofia di Schelling come una «geschriebene Transzendentalphilosophie» (REINHOLD 1801, 61), (cioè una filosofia trascendentale scritta e, in questo senso, vittima della sua stessa lettera), che non all’umorismo autentico di cui Fichte parla nella V lezione dei Grundzüge des gegenwärtigen Zeitalters. Sembra di leggere una risposta tardiva – nel metodo e non nel merito – alla Clavis fichtiana quando si legge che: «la verità può essere provata anche indirettamente, col mostrare la follia e l’insensatezza del suo contrario […] è la battuta di spirito come fonte del ridicolo, perché l’assurdità, nella sua intuizione immediata, è ridicola» (FICHTE 1999b, 161). Solo che per Fichte questa forma di riso che nasce dall’assurdo, è espressione di un’epoca in cui domina l’egoismo e la norma di «non accordare […] validità che a quanto essa concepisce […] immediatamente con il sano intelletto dell’uomo, già esistente ed ereditato senza sforzo» (FICHTE 1999b, 151).
A questa forma di umorismo vittima della noia (e annoiato è anche Leibgeber) Fichte contrappone il sorriso che nasce dalla comprensione immediata e totale della verità che «appaga e vivifica l’animo» (FICHTE 1999, 160). La risposta di Fichte, più che a confutare la Clavis, mira allora a neutralizzarla suscitando una riflessione sui limiti entro i quali la satira possa effettivamente criticare una posizione filosofica data o dischiudere la stessa dimensione di verità della filosofia: «come i pretendenti di Penelope, già avvolti dalla fine che era stata loro preparata, imperversavano nei palazzi oscuri e ridevano d’un riso inconsulto, così anche costoro ridono avventatamente, perché nel loro riso è l’arguzia eterna dello spirito che ride di loro stessi. Noi tutti vogliamo concedere loro questo piacere, e ci guardiamo dal togliere la benda dai loro occhi» (FICHTE 1999b, 163).
La conseguenza della metastasi dello spinozismo è, secondo Jean Paul, una forma di politeismo. La condizione di possibilità per questo passaggio è, come in parte già visto, l’appiattimento dell’io assoluto sull’io concreto. Ne consegue che gli io assoluti sono tanti quanti sono gli io concreti: «milioni, trilioni di Io assoluti, cause prime, causae sui aliorumque, realtà ed aseità incondizionate, oppure divinità» (CF, 71). Questo politeismo non è però una forma di paganesimo. Non ci troviamo di fronte ad una molteplicità di dei coscienti della loro particolarità. Piuttosto ciascuna divinità pretende di imporsi come unica. Il politeismo della Wissenschaftslehre è in realtà un poli-egoismo: non una moltiplicazione del rapporto tra uomo e Dio, ma una reiterazione infinita del legame, mistificato e mistificante, dell’io con se stesso (CF, 71). Anche qui il rinvio al Nihilismusbrief è immediato: «o Dio è – ed è al di fuori di me – un essere vivente e per sé stante» scrive Jacobi «o io sono Dio. Tertium non datur» (JACOBI 1948, 193). La naturalizzazione del sovrannaturale connessa allo spinozismo spinge Fichte verso la seconda alternativa e comporta, secondo Jacobi, un’idolatria nei confronti di se stessi. Assunti nel loro rigore, i principi della Wissenschaftslehre implicano che «non devo avere altri dei all’infuori di me o della mia egoità» (JACOBI 1948, 193).
Jacobi e Jean Paul muovono dunque da un’identica premessa, ma la svolgono in due diverse direzioni. Leibgeber, che ha abbracciato il fichtismo innanzitutto sotto il suo profilo teoretico, spiega che dall’equazione tra io e Dio non consegue la negazione della religione o l’ateismo. Anzi: «il decalogo mosaico proibisce, tanto duramente quanto quello fichtiano l’impone, di avere altre divinità o Io all’infuori del mio» (CF, 71). Solo che le altre divinità imposte dai comandamenti fichtiani non sono che «araldiche figure nel dipinto del non-io» (CF, 73). Ogni io (o ogni Dio) sarebbe creatore di un mondo e degli altri. Questi, in quanto io, sarebbero però nello stesso tempo creati (dall’io/Dio che li pone) e creatori (perché ciascuno sarebbe un io/Dio). In ogni creazione vi sarebbe dunque un Dio creatore e una molteplicità di spiriti che, pur non essendo Dio, ne avrebbero tutte le caratteristiche. La terra diviene così, agli occhi di Jean Paul, un «cimitero divino» molto simile a quello descritto sia nel Lamentazione di Shakespeare morto, sia nel Discorso del Cristo morto. In questi testi, a differenza che nella interpretazione di Jacobi, la negazione di Dio non elimina il desiderio di religiosità, che si manifesta assieme al rimpianto degli spiriti per l’ingenuità della vita concreta e del sano intelletto umano che la caratterizza: «fui così felice anch’io» afferma uno spirito nella Lamentazione «nei miei giorni ormai volati via, perché ancora ascrivevo a Te la dolorosa penitenza, a Te, Dio impossibile!, perché ancora credevo di vivere fra le Tue braccia, sotto i tuoi occhi, in un mondo creato da Te, e sprofondavo infine nelle lacrime della gratitudine finita, per te, Padre inaridito, distaccato, anteriore a ogni lacrima! Ecco perché i morti che dormono continuano a sorridere; nei loro sogni s’immaginano ancora la terra, e il loro cuore, che sta facendosi polvere, ancora prega – sì adoratelo questo Dio che amate, prima che si dissolva con i vostri sogni e i vostri corpi» (RICHTER 1997, 17).
Se Jacobi preferisce «il culto idolatra di un Dio esterno» a quella «religione troppo pura per me che si presenta come idolatria di se stessi» (JACOBI 1948, 194), per Jean Paul l’idolatria è una diretta conseguenza di una inscrizione del legame religioso nel contesto teoretico di una filosofia come scienza rigorosa. Per Jacobi invece l’idolatria, e la conseguente antropomorfizzazione di Dio, avrebbero sempre la facoltà di scardinare il monismo fichtiano. Jacobi è, infatti, interessato a mantenere viva la possibilità di affermare, contro la riduzione di tutto all’io, la possibilità di un accesso all’altro da sé: «di fronte a colui che mi mette innanzi quella tal secca alternativa dell’ateismo: o Tu o Io, affermo il Tu» (JACOBI 1948, 194).
In effetti, le argomentazioni di Jean Paul e quelle di Jacobi fanno riferimento a contesti diversi. Jacobi si riferisce esplicitamente all’Appello al pubblico scritto da Fichte per difendersi dalle accuse di ateismo. I §§ 13 e 14 della Clavis fanno riferimento ai §§ 16-18 della Sittenlehre 1798, dove Fichte sviluppa il rapporto tra libertà e necessità e chiarisce la funzione del regno degli spiriti (o comunità intelligibile) che nella Bestimmung des Menschen diviene espressione di una catena in cui libertà individuale e necessità della volontà divina vengono a coincidere (FICHTE 2000, 104).
Nella Sittenlehre il rapporto tra libertà e predeterminazione è risolto attraverso una comprensione dell’attività dell’io concreto in funzione di una limitazione che proviene sempre da altri. L’io si comprende in quanto tale, nella misura in cui si sente sollecitato ad agire in un certo modo a partire da un appello che un altro essere razionale gli rivolge e la cui esistenza viene inizialmente presupposta come data. Solo nel processo genetico che porta alla spiegazione dell’io Fichte può dedurre la possibilità dell’altro essere razionale – ma mai la sua esistenza effettiva – in funzione della limitazione dell’io stesso. La soluzione del rapporto tra libertà e necessità (o predeterminazione) è data da Fichte attraverso una distinzione tra sfera a priori dell’azione (cioè il fatto che una determinata azione debba effettivamente essere esercitata) e la successione temporale nella quale l’azione concretamente si inserisce (cioè il soggetto e il momento in cui l’azione viene effettivamente esercitata): «è determinato quello che sperimenterò, non da chi. Gli altri fuori di me rimangono liberi» (FICHTE 1962, I, 5, 206).
Tale soluzione, che evidenzia la strutturale separazione tra fatto e spiegazione del fatto, viene poi rivista nella Bestimung des Menschen, dove la volontà divina o volontà infinita viene intesa come legame spirituale che congiunge la volontà finita con se stesa, essendo il principio che unisce all’intenzione morale sempre la sua conseguenza idonea e meritoria. Nell’ottica di Fichte, la volontà infinita congiunge ogni io a tutti gli altri ed ha la funzione di connettere la legge che determina la natura e la legge sovrasensibile che forma il regno degli spiriti. Il punto di vista dello scritto fichtiano del 1800 è espressione, come lo sono del resto i paragrafi della Sittenlehre, dell’esigenza secondo la quale «la realtà del mondo morale richiede un ordine, sovrasensibile anche se non trascendente, in base al quale le buone azioni, di per sé incapaci di garantire il proprio esito, abbiano le loro adeguate conseguenze». Ciò significa «che la realtà del mondo spirituale suppone l’esistenza d’una volontà superiore e assoluta, d’una vita infinta e originaria, eternamente presente nell’attività e nella vita dell’uomo» (PAREYSON 1976, 406). Ne deriva una quantomeno apparente sovrapposizione tra religione e morale, secondo la quale Dio si esprime e si rivela non nella forma sensibile di un’incarnazione o di una rivelazione, ma nella voce della coscienza di ciascun individuo e nella forma di una determinazione immediata della sua volontà ad agire rettamente.
Questa posizione, che Fichte esprime non solo nella Destinazione dell’uomo, ma anche nello scritto Sul fondamento della nostra fede in un governo divino del mondo (fichte 1989, 79-80) è tipica di ogni filosofia che si pone come indagine della struttura dell’io e che resta entro i limiti dell’io stesso. Solo su questa base Fichte può scartare l’idolatria connaturata a ogni comprensione di Dio in termini antropomorfici, a favore della quale, sebbene con molta ironia, si dispone Jacobi (FICHTE 1989, 110-111).
In questa prospettiva la riflessione sulla religione non si costituisce né come giustificazione dei tratti di una religione determinata, né tantomeno come descrizione della via d’accesso, sempre individuale e particolare, alla religione stessa. La posizione trascendentale fichtiana sposta senz’altro l’asse della riflessione sulla religione da Dio all’uomo, mirando piuttosto a mostrare «come il senso religioso nasca, si sviluppi e si rafforzi nel cuore dell’uomo e come, quindi, l’umanità debba essere educata ad esso non mediante la filosofia, la quale non forma la vita, ma insegna soltanto a vederla, bensì mediate il risveglio dei veri impulsi sovrasensibili della vita» (FICHTE 1989, 194-195). L’accento di Fichte si sofferma sulla descrizione della costituzione antropologica del soggetto concreto e la riflessione sulla trascendenza di Dio viene subordinata all’analisi di fenomeni come la convinzione, il sentimento, la volontà e l’attenzione. Tutti elementi che, ben lungi dall’eliminare la necessità della religione o dall’annichilirla in una comprensione teoretica di Dio, contribuiscono alla descrizione della relazione dell’essere umano a un dato che può essere ammesso come rivelazione divina. Il fatto che questo sia il punto di vista che determina la specificità del pensiero di Fichte (WIDMANN 1982, 229) è evidente se solo si tiene conto del fatto che lo scritto con cui Fichte si impone al pubblico filosofico, il Saggio di una critica di ogni rivelazione, non mira a negare né una religione determinata, né il fatto che una rivelazione si dia, ma solo a mostrare in base a quali strutture della coscienza umana qualcosa come una rivelazione possa e debba essere ammessa.
Così, è vero, come si legge tra le righe della Clavis, che la filosofia di Fichte elimina ogni contatto con Dio che non sia mediato da un rapporto dell’io con se stesso. E, di conseguenza, è vero anche che la necessità del rapporto dell’io con se stesso elimina, nella spiegazione della religione, la necessità di un riferimento diretto ad un Dio trascendente e personale quale fondamento del senso della vita concreta dell’individuo. È lo stesso Fichte, del resto, ad affermare che «il filosofo non ha un Dio e nemmeno può averlo; egli ha soltanto un concetto del concetto o dell’idea di Dio» (FICHTE 1992, 197). Ma pare essere altrettanto vero che tale posizione è, in primo luogo, subordinata ad una riflessione che ha come oggetto la separazione e la ricomposizione di filosofia e vita e che tende a trovare le condizioni in funzione delle quali il filosofo può spiegare, seppure entro certi limiti, fenomeni che nella vita si danno e che la filosofia non produce.
Probabilmente nella Clavis fichtiana non esiste uno scavo teorico che permetta di mettere a fuoco questi elementi essenziali della filosofia di Fichte. Ma la sua complessa struttura, la densità dei riferimenti e la precisione con cui Jean Paul individua gli elementi nodali del pensiero di Fichte consentono di ipotizzare che dietro ad un’interpretazione superficiale della Wissenschaftslehre si nasconda una conoscenza del pensiero fichtiano come cantiere aperto, come lavoro in divenire e non certo giunto ad una conclusione definitiva. In fondo, e con una buona dose di provocazione, la Clavis sembra quasi più una parodia del fichtismo di Jacobi che non di quello di Fichte. E forse, leggendola in questo senso, si comprendono le motivazioni che spinsero Jean Paul a tentare – invano – di combinare un incontro tra i due autori (FG, 3, 337).
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