[Barbara Garlaschelli è nata a Milano nel 1965, vive con il marito Giampaolo Poli a Piacenza, dove lavora e ama disegnare. Scrittrice tradotta in diversi Paesi (Francia, Spagna, Portogallo, Olanda, Serbia e Messico), ha esordito nel 1995 con O ridere o morire; è autrice di numerosi racconti e romanzi, tra cui Sorelle (2004), vincitore del Premio Scerbanenco e Non ti voglio vicino (2010), vincitore di numerosi premi e finalista al Premio Strega. Nel longseller Sirena – Mezzo pesante in movimento (2001) e in Non volevo morire vergine (2017), che ha presentato con un reading musicale calorosamente apprezzato dalla critica e dal pubblico, la Garlaschelli ha ripercorso le sue dolorose vicende autobiografiche con lucidità e ironia. L’ultimo libro Il cielo non è per tutti (2019) è “una storia di amicizia, di amore, di dolore, di violenza, di desiderio, di riscatto, di fatica, di sogni”, come ricorda la narratrice su Sdiario.com, il suo aggiornatissimo blog, dove si possono trovare ulteriori informazioni e approfondimenti.]
Nella “mappatura” della narrativa italiana breve del secondo Novecento si scopre il microcosmo umoristico di O ridere o morire, popolato dall’insolita geografia umana creata dalla penna di Barbara Garlaschelli. La scrittrice milanese nel suo libro d’esordio (ormai introvabile, è stato recentemente ristampato con numerosi racconti inediti in GARLASCHELLI 2005) coinvolge il lettore con personaggi stravaganti, delineati con perizia psicologica. La tuttologa insopportabile, la scrittrice impazzita, la cugina ingombrante, il neosposo assassino, il professore depresso, la madre troppo bella e la figlia bruttina travolgono polifonicamente il lettore, stupiscono e divertono con finali inaspettati.
Nei racconti brevi, talvolta brevissimi perché di poche righe o addirittura di poche parole, i rapporti umani viaggiano in direzioni disparate, i valori sono zittiti dagli istinti e le relazioni soffocate dall’egoismo. Tuttavia leggendo con acribia si evince come le ordinarie regole borghesi, che imbavagliano e schiavizzano l’uomo contemporaneo, vengano inevitabilmente condannate attraverso la morte violenta dei personaggi, che diventano quindi una metafora della ribellione alla squallida convenzionalità del quotidiano, suscitando il plauso del pubblico, divertito dalle reazioni inattese dei protagonisti. Trasformandosi in capri espiatori, le vittime – e talora gli stessi carnefici – veicolano spesso pesanti colpe collettive, pur essendo totalmente o parzialmente innocenti.
La sensazione dei personaggi di essere stati accidentalmente gettati in un mondo crudele, che rappresenta emblematicamente la crisi dell’uomo moderno e contemporaneo, fa i conti con la mortalità e la sensazione di finitezza, un problema essenziale che riguarda l’essere e l’esistenza, il bene e il male, la storia e la società nella radicalità della loro essenza. Per l’uomo questo problema ha sempre costituito un bivio che chiede risposte in termini di comprensione e decisione; nel XX secolo l’umanità ha vissuto forme di esperienze della finitezza molto significative, che hanno acutizzato il problema; infatti molti pensatori, tra i quali Nietzsche e Heidegger, hanno riflettuto su questo argomento. Assimilare la finitezza significa per entrambi fare i conti con il nulla, la temporalità e la decisione, poiché l’uomo è rivestito di mortalità; tuttavia la sua identità si realizza nel tempo e deve raggiungere il suo stato di pienezza nel fine, dove acquista la sua perfezione. Solo essendo cosciente del ricevere, l’uomo avrà la possibilità di assimilare la finitezza in modo positivo e ottimista (ROMERA OÑATE 1995). Una consapevolezza che i personaggi garlaschelliani difficilmente acquisiscono, risultando incapaci di realizzare la loro identità perché travolti da eventi esterni e imprevedibili, spesso violenti. La società ammalata diviene la protagonista dei racconti, che sullo sfondo di una realtà impietosa mette in scena burattini con tratti comici, travolti da situazioni paradossali, ma al tempo stesso divertenti, che diventano insostenibili per i personaggi, filosoficamente consapevoli della loro finitezza.
La riduzione della spontaneità e della fluidità della vita al funzionamento di un semplice meccanismo, richiama le riflessioni sul riso di Henri Bergson, altro grande protagonista della storia della filosofia. La goffaggine nei comportamenti, la rigidità, l’automatismo a vivere e relazionarsi con gli altri sono il comico, che il teorico definisce meccanicità placcata sulla vita; alcuni esempi di tale insocievole rigidità, evidenziata dall’atto del ridere, sono i fissati, che fraintendono con scientifica sistematicità il mondo che li circonda, comportandosi come se dovesse adattarsi ai loro pensieri e ragionamenti, senza umanità. Basti pensare al racconto Profondità, dove «il verme» Fabio Bignami, amante della compagna di Claudio, con «un sorriso da iena» fa visitare a quest’ultimo la splendida villa, che a breve diverrà l’alcova della nuova coppia; oppure l’autoreferenziale Cristina del racconto La tuttologa che «conosce ogni cosa», «niente la stupisce, nessuno riesce a raccontarle qualcosa che lei già non sappia» (a questo racconto è dedicata l’immagine di copertina della prima edizione: «Il baule chiuso con un pesante lucchetto e gettato in fondo al lago, che intrappola la protagonista»;
infine gli idealisti come Umberto, il professore di Un tipo tranquillo, che aspira a modelli di vita idealizzati e non è in grado di affrontare la realtà effettuale.
Secondo Bergson la vita e la società richiedono quell’elasticità del corpo e dello spirito che permetta di adattarsi alla situazione presente. Un personaggio appare comico quando esibisce una certa rigidità psicologica, etica e comportamentale; agisce secondo schemi fissi, secondo automatismi che lo portano a cozzare con il mondo circostante, arrivando all’insocievolezza e talora assumendo un carattere tragico. Si pensi a Giuditta di Adelaide Breme e figlia, bruttina, scipita, inetta, indolente, introversa, insipida e imbarazzante, incapace di adattarsi alla raffinatezza dell’universo materno (GARLASCHELLI 1995, pp. 9-34).
Ciò che la vita e la società esigono da ciascuno di noi, è un’attenzione costantemente sveglia, che discerna i contorni della situazione presente, e anche una certa elasticità del corpo e dello spirito che ci metta in grado di adattarci ad essa. Tensione ed elasticità: ecco due forze complementari l’una all’altra che la vita mette in ballo. Ne è privo il corpo? Si hanno gli accidenti di ogni genere, le infermità, la malattia. Ne è privo lo spirito? Si hanno tutti i gradi della povertà psicologica, tutte le varietà della follia. Ne è privo il carattere? Si hanno i profondi inadattamenti alla vita sociale, sorgenti di miseria, a volte occasioni di delitto. (BERGSON 1961, p. 47)
Quando al carattere mancano tensione ed elasticità, l’individuo degenera e si manifestano inadeguatezze nelle relazioni sociali che possono portare l’esperienza del male. L’ambivalenza di questa umanità, posta nella possibilità costitutiva del bene e del male, inquieta profondamente perché offre una reale possibilità al male. L’incapacità di stare in equilibrio nella contraddizione, cedendo e flettendosi in base alle circostanze, catapulta i personaggi di O ridere o morire in situazioni dolorose, con epiloghi tragici. Basti pensare a Sandra de Il primo uomo sulla luna (GARLASCHELLI 1995, pp. 31-33) che, desiderosa di ripristinare l’ordine nella sua vita amorosa, finirà per perdere violentemente quanto possedeva di più caro.
La Garlaschelli sposa la tesi bergsoniana correggendo le forme d’irrigidimento della vita sociale del fantoccio articolato con il riso, poiché gli schemi di comportamento predefinito trasformano i personaggi in stereotipi, giocati su automatismi meccanici, in balia di vizi, idee o individui più astuti. Approfondendo la conoscenza del mondo, si va oltre alla semplice vita quotidiana, con lo scopo di correggere gli irrigidimenti della società e gli automatismi sclerotizzati dell’agire (ARIANO 2011); la costruzione dei “tipi” di O ridere o morire persegue quindi una forma di utilità. La scrittrice sorprende e grazie alla sua particolare capacità di osservazione affascina e coinvolge; tra le parole dei racconti alza la sua voce contro il degrado del mondo contemporaneo, porta nelle pagine prototipi di ferina umanità e ingigantisce l’immorale, sussurrando che c’è ancora salvezza per mezzo dell’umorismo e della risata. Il riso diviene allora lo strumento del riscatto, un’arma autentica e viva che riabilita gli abitanti di questo microcosmo letterario. La ribellione di una sonora sghignazzata e talvolta di un silenzioso sorriso disegnano nuovi confini intorno ai personaggi e dentro le loro inclinazioni; le sfumature tragiche vengono cancellate dall’umorismo, riabilitando i viaggi ridicoli e pericolosi delle loro esistenze, che culminano in situazioni surrealistiche, morti violente e situazioni grottesche. Tale aspetto permette all’opera di sfoderare «un sano, raro quanto solido humour nero», come si legge nella quarta di copertina della prima edizione del libro.
Si tratta di un genere letterario che si oppone alla tradizione, come ha evidenziato André Breton che ha coniato l’espressione “umor nero” nel 1935, quando aveva iniziato a dedicarsi all’Anthologie de l’humour noir (BRETON 1939). Secondo le riflessioni del teorico, l’umorismo rappresenta un mezzo straordinario per far affiorare i più profondi contenuti psichici, i sogni, gli stati ipnagogici, cioè quegli stati di coscienza che portano al sonno, la scrittura automatica, i discorsi dei bambini e quelli dei malati mentali. A questo proposito in Amore eterno (GARLASCHELLI 1995, pp. 47-48), il novello sposo durante la terza notte di nozze coglie un messaggio del suo inconscio, un automatismo psichico, privo dei filtri della ragione, che va oltre ogni preoccupazione estetica o morale e che trasformerà la sua vita. L’aspetto nascosto della personalità del protagonista ribalta anche il significato del titolo del racconto che da un’accezione romantica sbanda verso l’infinitezza della morte.
Dalla sua pubblicazione, l’Anthologie ha indicato un nuovo modo di fare critica letteraria e una moderna letteratura, opposta a quelle tradizionali: una sensibilità estremamente soggettiva che esprime l’universalità della “sete spirituale”, spingendo Breton verso gli emarginati e gli eretici della letteratura. Inoltre, come già anticipato, il curatore ha avuto il merito di inserire nell’opera le donne, che fino a quel momento avevano avuto poca visibilità in ambito letterario: pur essendo esaltate come motivo poetico erano presenti solo sporadicamente come soggetti creativi (DÈCINA LOMBARDI 1996, p. XIX).
Gisèle Prassinos e Leonora Carrington sono state due artiste surrealiste, eccentriche e indomabili, soprattutto la seconda, musa inquietante del Surrealismo, presente nell’Anthologie con La debuttante, un racconto che richiama l’ambientazione alto borghese de La nonna di O ridere o morire: entrambi i testi introducono un legame conflittuale tra madre e figlia con esiti “feroci”. Anche la Garlaschelli diviene quindi, come le antesignane francesi, promotrice di una scrittura intuitiva e anticonvenzionale, capace di squarciare il velo dell’apparenza per vedere oltre la convenzionalità. Grazie all’umorismo nero la narratrice riporta a galla argomenti ancora oggi considerati tabù nella nostra società: la violenza, la morte e la malattia psichica. Secondo Breton la nevrosi e la follia sono possibilità d’approdo alla libertà assoluta e all’immagine poetica già nel primo manifesto del Surrealismo, pubblicato nel 1924: i mezzi espressivi dell’arte e della poesia venivano trasformati in strumenti per cambiare la vita alla maniera di Arthur Rimbaud, con il sostegno delle coeve fondamentali scoperte di Sigmund Freud (DÈCINA LOMBARDI 1996, pp. X-XI). Si dava estrema rilevanza alla dimensione inconscia, al sogno e allo stato onirico, visto come luogo dell’attività “reale” del pensiero dell’uomo; inoltre la lettura psicoanalitica freudiana del sogno offriva ai surrealisti la possibilità di indagare un’altra dimensione, creando immagini libere, svincolate dalla ragione e dalla logica.
Per quanto riguarda la psicanalisi, come noto Freud si è occupato della tematica del riso nei saggi Il motto di spirito e la sua relazione con l’inconscio e L’umorismo; secondo questi studi l’umorismo è un fenomeno comunicativo che permette di esprimere contenuti inibiti e relegati nell’inconscio, solitamente repressi: la censura del super-io viene elusa inconsciamente dal soggetto proprio tramite il motto di spirito. Anche da un punto di vista letterario si nota nei luoghi psichici dei personaggi un tributo del Super-io al comico, quando il Super-io osserva l’Io da una posizione di predominanza e l’Io si sminuisce, quindi grazie all’umorismo anche molti dei protagonisti dei racconti di O ridere o morire si sentono ridicoli e accettano la loro situazione con una risata o con un sorriso: l’umorismo è allora semplicemente auto-umorismo (CRITCHELY 2008, p. 95). Come Alessio in Drastica decisione, che si crede un fallito, «come scrittore non valeva niente, il suo matrimonio era un disastro e i suoi figli lo compativano. Persino il cane aveva sviluppato una sorta di diffidenza nei suoi confronti» (GARLASCHELLI 1995, pp. 91-93). Tuttavia egli troverà la forza per ribaltare la difficile situazione. Infatti secondo Freud lo humour è una cosciente strategia difensiva rispetto al dolore, la risata scarica un eccesso di energia pulsionale repressa, dovuta agli impulsi sessuali e aggressivi: similmente alla protagonista del racconto intitolato Anna, quando sorride alla fine della predica pensando alle intenzioni dell’uomo dagli «occhi irresistibili» (GARLASCHELLI 1995, pp. 54-60).
Nell’universo di O ridere o morire l’umorismo attua un rovesciamento che raddrizza, rifonda e recupera l’equilibrio: come suggerisce il titolo non c’è scampo davanti alla risata perché l’alternativa è inaccettabile. I personaggi si riscattano ridendo, illuminandosi e trovando nuove scappatoie alle loro condizioni: il lutto diviene consolabile, l’abbandono si ridimensiona, la disperazione rinviene stimoli per reagire, l’insicurezza scopre nuove e solide risorse, l’arrendevolezza reagisce con determinazione. Nel volume l’humour noir incide sui diversi piani della narrazione, come già evidenziato nelle forme e nei gesti, sino ad arrivare alla parola: paradossi, iperboli, eufemismi, antifrasi, allusioni e invettive. Si pensi all’uso della figura retorica della diafora nel racconto Incomprensioni (in cui il titolo è parola chiave), quando il protagonista, rinchiuso in una cella di isolamento, adopera l’aggettivo polisemico “buono” per ironizzare su uno dei tabù che fondano la società civile contemporanea: il cannibalismo.
Era un uomo così buono, dicono e mi fissano pieni di odio.
Buono, lo so bene io.
Era buono, un boccone dopo l’altro. (GARLASCHELLI 1995, p. 136)
Nella complessità del testo le figure retoriche appaiono come vere e proprie liberazioni del represso, che premettono all’ironia di coniugarsi con il sarcasmo sino ad arrivare alla parodia. «Chi non sa ridere non è una persona seria» (GARLASCHELLI 2017), sostiene la Garlaschelli, evidenziando come umorismo e ironia, anche se concetti multiformi e difficilmente afferrabili, siano estremamente importanti e forieri di solennità. Elemento che si ritrova in Un tipo tranquillo, quando la scrittrice riporta una citazione di C’era una volta in America (1984), celeberrimo film di Sergio Leone.
«Cosa hai fatto in tutti questi anni Noodles» «Sono andato a letto presto». (GARLASCHELLI 1995, p. 9)
Un chiaro riferimento alla Ricerca del tempo perduto di Marcel Proust, quasi una chiave di interpretazione della pellicola, narrativamente strutturata su diversi piani temporali, in una dimensione di incertezza, in cui si fatica a distinguere tra realtà e sogno. Il peso della memoria è notevole sia nel romanzo, sia per la stessa Garlaschelli, come ha ribadito in una intervista di qualche anno fa.
Noi siamo la somma di tutto ciò che è venuto e avvenuto prima di noi. Sia da un punto di vista storico e sociale sia personale. Siamo la somma anche di ciò che non è avvenuto. E la memoria è uno dei doni più preziosi che abbiamo e una delle maggiori responsabilità. (SHAMMEI 2010)
Similmente a Noodles, il protagonista del racconto, Umberto Lari, vive tra ricordi, sogni e un presente mortificante e mortifero; nonostante la sua vocazione letteraria, le circostanze della vita lo porteranno a rinunciare al suo sogno di poeta, tuttavia egli si aggrapperà ai versi negli ultimi istanti di libertà. Inizialmente egli cita il Triumphus Mortis di Francesco Petrarca («Pallida ma non più che neve bianca» GARLASCHELLI 1995, p. 18), anticipando le imminenti intenzioni, quindi prosegue con Alveare di Federico Garcia Lorca, il quale sosteneva che «i ricordi, fino a quelli della mia più lontana infanzia, sono in me un appassionato tempo presente» (GARCIA LORCA, 1934). Dai versi emerge un senso di angoscia profonda, tipico dello scrittore spagnolo, causato dai numerosi desideri inappagati e dall’inquietudine dell’amore impossibile; ne scaturisce una condizione di vita autenticamente sofferta e continue avvisaglie di morte (RENDINA 1993, p. VIII).
Viviamo in celle
di cristallo,
in alveari d’aria!
Ci baciamo attraverso un cristallo.
Prigione meravigliosa,
la cui porta
è la luna.
(GARCIA LORCA in GARLASCHELLI 1995, pp. 23-24)
Il professor Lari consapevole di essersi privato del futuro, vittima e carnefice di sé stesso, travolto dalla disperazione pensa in conclusione del racconto che «non esistevano celle di cristallo, solo gabbie di piombo». Anche la protagonista di Sentite condoglianze è incapace di vivere in una gabbia, la sua libertà è il bene più prezioso ed è intenzionata a preservarla, infatti «dentro, scoppiava dal ridere», perché era convinta di aver raggiunto quello stato di grazia a cui tanto anelava (GARLASCHELLI 1995, pp. 85-90). Una sensazione simile alla «gioia» della stessa scrittrice, che si appropria delle pagine della Prefazione, firmandosi con le sole iniziali, B.G., in una lettera destinata all’editore del volume. «Mai in vita mia ho raggiunto vette di tale intensità» scrive la narratrice esprimendo i suoi sentimenti per l’imminente pubblicazione dello stesso libro (GARLASCHELLI 1995, pp. 7-8); basteranno poche righe per comprendere che si tratta di uno dei racconti più esilaranti, in cui l’ humour noir è l’indiscutibile protagonista.
Avviandoci verso la conclusione è significativo ricordare Il senso dell’umorismo, penultimo racconto della raccolta, in cui in una coppia il marito si sente ripetere continuamente dalla consorte che è privo del senso dell’umorismo.
Diceva che non avevo il senso dell’umorismo.
Lo sosteneva pervicace.
Me lo sbatteva davanti come un assegno a vuoto, un treno mancato, un amante tradito, una macchina senza ruota di scorta, un’anguria senza semi. […]
Me lo ha ripetuto persino durante un terremoto. Sbagliava.
Quando le ho infilato la testa nell’acqua, non riuscivo a smettere di ridere.
Proprio non riuscivo. (GARLASCHELLI 1995, p. 137)
Dal testo emergono sia la capacità di sintesi della narratrice lombarda che in poche righe e talvolta in poche parole riesce a delineare le dinamiche riscontrate nelle situazioni più disparate, sia il talento di sciogliere con chirurgica precisione ironica i nodi irrisolti della società contemporanea. Emerge un’osservazione attenta e profonda della psiche umana in cui i valori sono spesso zittiti dagli istinti; in questa situazione il senso dell’umorismo – spesso nero – è un salvagente sempre disponibile nel mare magnum della vita in tempesta, a cui la Garlaschelli fa ancora ricorso. Infatti a distanza di quasi cinque lustri dalla sua pubblicazione, la scrittrice si sente ancora molto legata e riconoscente a questa raccolta, perché le ha fatto «cambiare vita».
A distanza di tempo continuo a riconoscermi in quella scrittura che ho asciugato in modo ulteriore. Penso che sia stato un bel modo per esordire ed è stato un libro molto amato dai lettori oltre che da me. Da un punto di vista professionale è stato il trampolino di lancio, e da quello umano la realizzazione del mio sogno di essere una scrittrice. Da quel libro tutta la mia vita ha preso una piega diversa e molto bella. (GARLASCHELLI 2019)
O ridere o morire va oltre l’alternativa dello stesso titolo perché i fatti di questo mondo sono spesso nefasti e si è tentati di implodere di silenzi, tuttavia la risata è l’ultima salvifica e fragorosa reazione: prorompendo sulle labbra, riscatta, diviene una provocazione in grado di liberare dalle false illusioni e capace di accompagnare sulla strada della realizzazione. Non resta che morire dal ridere.
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