logo fillide

il sublime rovesciato: comico umorismo e affini

Copertina Numero 19

 ottobre 2019

Saggi e rassegne

Barbara Ricci

Teorie del comico: rilettura di Almansi

Una vita senza la dimensione tragica è intollerabile;
una vita senza la dimensione comica è, a mio avviso, invivibile.
Guido Almansi

 Il saggio di Guido Almansi La ragion comica esce nel 1986 presso la casa editrice Feltrinelli e non viene più ristampato, nonostante sia molto citato ancora oggi. L’incipit dell’introduzione è perentorio: insieme alla ragion pura e alla ragion pratica deve esistere anche una ragion comica, anche se «il colossale processo ipocrita di sublimazione che si chiama cultura» tende a privilegiare il serio sul comico e a farne l’aspetto determinante.

Il tragico non esiste più perché la morte è stata esclusa dal discorso culturale dell’Occidente americanizzato e senza la morte il tragico diventa solenne e sussiegoso. Di conseguenza non esiste nemmeno il comico, se non nella sua accezione di satira politica o sociale, considerato quindi solo se in qualche modo utile e moralmente accettabile. Almansi dichiara invece di volersi occupare del comico disimpegnato, gratuito, che gode del gioco della lingua e del pensiero. Per farlo analizza alcuni scrittori molto diversi, ma significativi per un loro specifico modo di scrivere e di essere umoristi. La via è in parte quella seguita da illustri predecessori: Il n’y a pas d’humour, il n’y a que des humouristes dice il signor Baldensperger, citato da Croce, da Pirandello e da molti altri. I singoli capitoli sono dedicati ognuno a un autore diverso e i titoli richiamano un tipo di umorismo, una modalità della risata che è specifica e nello stesso tempo può diventare più generale. Si tratta insomma di un’approssimazione di interessanti categorie interpretative.

1. Lo stereotipo originale

Lasciatemi divertire.
Aldo Palazzeschi

 Il primo capitolo è dedicato a Sir Pelham Grenville Wodehouse (1881-1975), maestro riconosciuto della lingua e dell’umorismo inglese. Il titolo sottolinea il meccanismo comico messo in atto dall’autore. Partendo da un’osservazione di Roland Barthes sulle vignette di Saul Steinberg e cioè che nella processione interminabile di tipi sociali «ogni tipo è perfettamente stereotipo e assolutamente originale», Almansi identifica proprio in questo apparente paradosso la caratteristica dominante della scrittura e dell’umorismo di Wodehouse. Le scene farsesche e improbabili, affollate di eventi dettagliati, gli equivoci che si moltiplicano per creare la trama, i personaggi dalla psicologia elementare e prevedibile, fanno il comico di Wodehouse.

Si può aggiungere alle considerazioni di Almansi che il meccanismo è essenzialmente combinatorio e funziona come funzionava quello della commedia antica di Plauto e Terenzio e di tutti i loro eredi. Anche in Wodehouse tra l’altro si trova spesso la figura del servo intelligente e dalla spiccata personalità, con l’aggiunta di un eloquio colto e preciso, quello «di una cultura un po’ fossile ma sempre molto dignitosa» quella dei grandi colleges inglesi «roccaforti di sapienze moribonde».

Il gioco si regge essenzialmente sulla qualità della scrittura di Wodehouse, sempre precisa, brillante, sapiente soprattutto nel reggere il ritmo rapido della narrazione. In questo modo il lettore accetta serenamente ogni forzatura grottesca come ovvia e naturale. Un esempio fra tutti è il ciclo di romanzi che ruotano intorno al castello di Blandings e ai suoi svagati e divertentissimi abitanti. La protagonista assoluta di tutti gli intrighi, l’imperatrice di Blandings, è una scrofa enorme e curatissima, la più decorata d’Inghilterra alle fiere dell’orgoglio suino. È lei il centro affettivo del nobile padrone di casa. Nonostante tutte le delicate attenzioni, l’imperatrice finisce ubriaca e sofferente dopo aver bevuto da una fiaschetta caduta per errore nel suo trogolo. Sam, uno dei protagonisti che la ritrova vuota, è ora in grado di rassicurare il padrone sull’origine del suo inspiegabile malessere.

Ora capiva perché mai fin dal primo sguardo l’aspetto dell’Imperatrice gli era riuscito stranamente familiare. Aveva visto molti uomini fare il loro ingresso nella sala fumatori del Drones Club all’indomani della Regata, ed erano tutti esattamente come lei. Oofy Prosser era praticamente sempre in quello stato. Così, quando Lord Emsworth ebbe fatto ritorno sui suoi passi, fu lieto di poter sedare i suoi timori. (WODEHOUSE 1997, pp.121-122)

2. Il pensiero a retromarcia

E che fa la tale?
Si dice che seduce sedici sudici sadici.
Achille Campanile

 Fin dalle prime righe Almansi esclude che Campanile sia uno scrittore: i suoi libri non sono né romanzi né antiromanzi, sono pretesti per diffondere il dono dell’umorismo. «Uno scrittore, diceva Roland Barthes, è un uomo per cui la lingua è un problema; ne deriva per conseguenza che un non-scrittore è un uomo per cui la lingua non è un problema: come per Campanile». Ma allora qual è, secondo Almansi, lo specifico dell’umorismo di Campanile, dopo aver liquidato come presenti, ma non essenziali: le assonanze futuriste e surrealiste, il romanzo del frammentario, il romanzo senza soggetto, l’estetica del discontinuo, l’opera strutturata sul caos, la patafisica e la cifra parodica, essenziale nella cultura del Novecento?

Campanile per Almansi è un esperto di topsyturviness, del mondo alla rovescia e del pensiero che avanza all’incontrario, con la retromarcia, manifestando così il suo senso del ludico e il suo gusto del paradosso. E a questo punto introduce una interessante osservazione di Foucault su un testo di Borges e la amplia per elaborare una possibile categoria interpretativa del comico. Dice Foucault:

Questo testo di Borges mi ha fatto ridere a lungo, non senza un certo malessere difficile da superare. Forse perché sulla sua scia spuntava il sospetto di un disordine peggiore che non l’incongruo e l’accostamento di ciò che non concorda; sarebbe il disordine che fa scintillare i frammenti di un gran numero di ordini possibili nella dimensione senza legge e senza geometria dell’eteroclito. (ALMANSI 1986, pp. 35-36; d’ora in poi indicheremo solo il numero di pagina del libro di Almansi)

Almansi integra e prosegue così:

Foucault insiste sul carattere negativo del disordine eteroclito, sull’oltranza anarchica delle sue inquietanti alternative (quelle che lui chiama eterotopie) le quali non procedono contro la logica ma mirano alla fondazione di un‘eterologica. Calando verso zone meno stratosferiche, sarebbe forse possibile ritagliare un’area del comico in cui trionfa, gioiosamente anche se con nuvole minacciose, l’assurdo dell’eteroclito invece dell’assurdo dell’incongruo. Si potrebbe, per esempio, immaginare un’opposizione, o addirittura uno scontro fra il mondo di Eugène Ionesco e il mondo dei fratelli Marx: l’incongruo di Ionesco e l’eteroclito dei fratelli Marx. (pp. 35-36)

In Campanile possiamo trovare non l’eteroclito sublime (assoluto) suggerito da Foucault, ma un eteroclito umile (relativo), un eteroclito formato famiglia. In sostanza, pur avvicinandosi inconsapevolmente, Campanile non arriva mai alla satira, al sarcasmo, all’umorismo in qualche modo rivoluzionario. La sua comicità è diretta, bonaria e innocente, almeno nella lettura di Almansi. La ricerca di significati più profondi va attribuita alla scarsa abitudine che hanno i lettori a godersi semplicemente il comico integrale. Ecco uno degli esempi di comico alla Campanile raccontato da Almansi:

Lo scrittore deve scrivere un romanzo, ma non trova un soggetto. Finalmente gli viene in mente qualcosa, ma eccessivamente breve:
Si trattava, per interderci, d’un episodio della mia vita. Eccolo: un giorno, trovandomi con una signora, le avevo detto: “Dimmi che m’ami”.
E lei mi aveva risposto: “T’amo”.
Per allungare questa scena, che non era sufficientemente complessa per riempire di sé tutto un romanzo, lo scrittore prima si finge balbuziente: “Di…di…di…mmi…mi che…che m’a…m’a…m’ami…”. Poi finge che la sua amata sia dura d’orecchi:
Un giorno, trovandomi con una signora, le dissi:
Di…di…di…”
Come?” mi chiese lei.
Di…di…di…”
Non ho capito bene l’ultima parola. Ripeti, per favore…”
Di…di…di…mmi che m’a…mi!”
Figli di cani?”
N…n…n…”
Gl’inni dei nani?”
Ma n…n…n…o! Di…di…mmi che m’ami!”
Ma ci voleva ben altro per riempire tante pagine; ed è a quel punto che l’autore ha un’idea luminosa. In fondo al racconto fa una piccola aggiunta: “Ripetimelo mille volte.” (p. 38)

3. Il letamaio di Babele

La poesia e la fogna, due problemi mai disgiunti.
Eugenio Montale

Prima di affrontare la disamina della produzione di Celati, Almansi dedica ampio spazio alla critica della bella scrittura, una trappola particolarmente pervicace nella cultura italiana. Scrive Almansi:

La tradizione delle terze pagine dei quotidiani, agone convenzionale di gare bellettristiche, non è ancora morta (anche se si sentono in giro i rantoli dell’agonia); e ci sono sacche di bella scrittura nella scuola italiana, ferma su una precettistica e su una normatività gloriosamente out of date, che continua imperterrita a fornire modelli di correttezza, indirizzando verso il mercato dell’insegnamento e della bassa editoria scrittori e soprattutto lettori di belle cose e perpetuando così una situazione che avrebbe anche potuto (dovuto?) morire nella grande rivoluzione dialettale del primo Ottocento. Il risultato è quello che Céline chiamava una cloaca: Un cloaque à verbe bien filé, à phrases bien conduites. Da questa problematica nasce gran parte dell’avanguardia letteraria italiana degli anni sessanta: il barocco di Manganelli; il balbettio iterativo di Sanguineti; il discorso balordo di Luigi Malerba; il récit brut di Gianni Celati, a partire dal suo primo romanzo, Comiche. (pp. 45-46)

L’ammicco delle Comiche, il guizzo di Guizzardi, l’eroe fetente della Banda dei sospiri rendono protagonista il linguaggio, ma si tratta di un linguaggio clandestino, vivo, illegittimo, non codificato. Almansi afferma di essere lui stesso affascinato da questa lingua stratificata e complessa e racconta di quando un vecchio contadino, un po’ pazzo e un po’ megalomane, gli disse: «Io per me mi apparaggio a Iesu Cristo Lazzareno». Come vorrei saper scrivere così, conclude Almansi.

L’esempio è particolarmente chiarificatore dell’uso della lingua che fa Celati e del pensiero embrionale, per certi aspetti angosciante, a cui si abbandona: «Perché poi un cappello è meno di un ombrello per via del manico che non ce l’ha». Fin qui la Babele, ma poi comincia il letamaio. L’epopea del calcio in culo e della polpetta, l’apocalisse dell’immondizia non rendono sempre facile la lettura di Celati, che in qualche momento si esprime visivamente, come in un film muto.

Ma è nella Banda dei sospiri che il letamaio raggiunge una sua dimensione epica e il protagonista si difende dall’ostilità del mondo in forma anale, con scariche di peti e di diarrea. Non ultime sono le presenze olfattive disturbanti, le puzze, usate come vere e proprie armi offensive e controffensive. Almansi richiama qui la tradizione scatofiliaca della letteratura europea, da Rabelais a Celine, da Swift a Beckett. Ci sono libri di pancia (contrapposti a quelli di testa) che tendono a scendere verso le profondità del corpo, sono i fognaroli, i lavoratori delle cloache, come i protagonisti del romanzo di Thomas Pynchon, V. E il cuore? Non c’è, per fortuna.

Sempre più giù, verso il basso ventre, durante quei momenti intensi di illuminazione carnale dove, nelle parole di Henry Miller, è il pene che si occupa di pensare. O in precipitosa discesa lungo il sistema digestivo, attraverso stomaco e intestino, in modo che il rumore letterario che emerge nella pagina venga ad assomigliare sempre più a un rumoreggiare addominale o ventrale a cui l’autore avrebbe concesso un significato. […] Sono dei momenti letterari che tendono idealmente a trasformare il dolore fisico e in alcuni casi più rari il piacere fisico, non nel signifié, nel significato, bensì nel signifiant, nel significante della prosa: là dove la carne stessa si trascrive nella scrittura e canta il proprio destino. […] Non c’è pensiero, non c’è emozione, non c’è sentimento: solo un tentativo verbale e musicale di offrire una trascrizione diretta di una sensazione fisica. […] Celati e Malerba sono nella letteratura italiana contemporanea quanto di più vicino abbiamo a un romanzo carnalista. (pp. 59-60)

4. Il silenzio rumoroso

Per i bambini la storia più bella
è quando un uomo è fritto in padella.
Ogden Nash

Il quarto capitolo è dedicato a Luigi Malerba. Prima però di affrontare l’analisi degli scritti di questo autore, Almansi dedica un paio di pagine alla critica letteraria, deridendone le modalità. Ogni critica che si rispetti sembra destinata a porsi il problema dello ‘sviluppo’ e quindi della conseguente ‘decadenza’ di un autore. A tale scopo Almansi dichiara di aver costruito un kit con i tipi di sviluppo letterario possibile per venire incontro alle esigenze di ogni lettore (e qualche volta di ogni scrittore) smaliziato. Un modello è quello alpinistico (o di alta montagna) che nei confronti di Malerba potrebbe funzionare così:

Dalla piccola cronaca della Scoperta dell’alfabeto dove lo spunto di ogni singolo racconto è sempre un’aneddotica rusticale e quotidiana, da un’altitudine terragna, al livello della prassi e sul filo della realtà, si risale attraverso il cerebralismo e la strategia della sottrazione (sottrazione di fatti, di avvenimenti, di personaggi, di azioni, che vengono negate e affermate a un tempo) nel Serpente fino all’epica rarefatta di Salto mortale dove solo si celebra un’assenza di eventi, una vacanza di atti. (p. 66)

Divertendosi non poco, questa è l’impressione, Almansi prosegue con il secondo kit e cioè il modello speleologico, quello della profondità:

Il punto di partenza di Malerba è rasoterra, il qui e l’oggi della vita di campagna: ma è allo stesso tempo altissimo, vertiginoso. Nel racconto eponimo che apre la raccolta La scoperta dell’alfabeto si dibatte la questione quasi talmudista della priorità delle varie lettere dell’alfabeto, e in particolare delle prime due, la A e la B, in un gioco nominalista che finge di essere svagato. […] Il racconto finge di parlare di contadini, di analfabetismo, dell’ingenua volontà didattica del giovane scolaro/maestro: ma sotto c’è un buco che dà il capogiro. (p. 66)

Altri modelli di sviluppo (il girotondo, il progresso geometrico, il nodo scorsoio, l’anello di Moebius, lo sviluppo matematico, la navette, il nodo sabaudo, l’approfondimento semiotico, l’acuirsi della coscienza sociale, l’incalzare delle preoccupazioni filosofiche, la pressione dell’impegno e il richiamo della realtà) saranno messi a disposizione da Almansi solo dietro congruo anticipo. I modelli precedenti non affermano cose fondamentalmente errate, ma ogni sviluppo prevede la fede in un paradigma diacronico, sistematizzante ed escludente. Ed è un modo di procedere particolarmente inutile per comprendere un autore come Malerba che non ha mai scritto un libro con la stessa vena. Almansi decide quindi di parlare dei libri di Malerba come se fossero venuti al mondo da un parto plurigemellare, in sincronia assoluta. Da tenere presente che comunque Almansi parla dei libri pubblicati prima del 1986, data di uscita della Ragion comica.

Come abbiamo già visto al capitolo n. 3, esistono romanzi di testa e romanzi di budella. Malerba sembra propendere per il secondo tipo e arriva ad affermare che la sua ispirazione non gli viene dall’interiorità, ma dalle interiora. E utilizzando categorie già analizzate nei capitoli precedenti, Malerba sembra ondeggiare fra l’incongruo e l’eteroclito, fra Ionesco e i fratelli Marx, pur dentro l’universo dell’assurdo.

Il gioco che concede maggiore libertà di movimento al favolismo malerbiano è il letteralismo dove sparisce la linea divisoria fra la parola e la cosa. Si prenda l’esempio più banale: un guercio “vede tutto a metà”; quindi vedrà mezza mela, mezza donna, mezzo porco. Ma ci sono anche dei vantaggi: perché vedrà solo mezzo brigante che gli corre dietro, mezzo lupo che lo vuol mangiare e così via. […] Il letteralismo porta al paralogismo. […] Vacilla così la linea divisoria che nella cultura occidentale ha tenuto separato il segno da ciò che è segnato. (pp. 75 e 77)

Come ormai è risaputo, raccontare è sempre l’organizzazione di una menzogna: ogni schema è falso e falsifica gli eventi che ci sono dentro. Non appena comincia la storia, l’oggetto del racconto tende a spostarsi, a trasformarsi, a diventare qualcos’altro. La lingua stessa sfugge e si intravede presto l’aspirazione a un grado zero. Solo il silenzio è davvero perfetto, e Malerba lo ribadisce più volte. Ma quello di Malerba è un silenzio assai rumoroso e Almansi non manca di notarlo, specialmente per il settore della scrittura malerbiana che ama di più e cioè quello carnalista e budellare. Malerba esulta nello sporco e trionfa nella merda, che tratta da grossista, senza particolari raffinatezze, perché gli interessa la distribuzione massiccia e indiscriminata del prodotto. Altro settore in cui eccelle è il cannibalismo: insieme al volo, è uno dei suoi temi dominanti. E dà la possibilità ad Almansi di ribadire e sottolineare l’importanza di una scrittura carnalista che si configura esattamente come un sublime rovesciato:

Il punto su cui voglio insistere è questo: bisogna rifiutare il vecchio pregiudizio idealista che vede nella scrittura carnalista uno scherzo, magari volgare; e nella scrittura psicologica o intimista, o dichiaratamente filosofica uno strumento intellettivo. La carne è strumento di conoscenza tanto quanto gli anfratti della memoria o le angosce della psiche, e non è affatto certo che i reperti provenienti da uno scandaglio ‘fisiologico’ siano meno importanti o meno illuminanti di quelli che emergono dal versante opposto. La chair, oltre che essere triste, è anche estremamente comica ed estremamente seria, e seriamente deve essere considerata anche là dove l’autore si sbizzarrisce nelle più oltraggiose fantasie. Questo è l’insegnamento di Rabelais e, a un livello meno eccelso, di Céline, di Henry Miller, di Malerba. […] Questo è uno degli scopi della scrittura carnalista di Malerba: ottenere una separazione della cerimonia della carne dal suo movente psichico. […] IO L’ANIMA NON ME LA SENTO, dice un titolo maiuscolo di Salto mortale. (pp. 106-108)

5. Il comico inutile

I giochi di parole non sono un gioco.
Alfred Jarry

Sidney Joseph Perelman (1904-1979) è sceneggiatore, insieme a Will Johnstone, di due celebri film dei fratelli Marx, Monkey Business del 1931 e Horse Feathers del 1932. È stato collaboratore al “New Yorker” per alcuni decenni. Difficile da tradurre non solo in una lingua straniera, ma anche nell’inglese che non sia quello di New York, non ha ricevuto molta attenzione. Maestro dell’esagerazione, della trasformazione dei piccoli incidenti del quotidiano in una festa del grottesco, ha come procedimento favorito la beffa della lingua e la lotta all’alienazione simbolica causata dal suo usage routinier.

Se il pattinatore artistico forma una figura di 8 sul ghiaccio, uno più bravo farà un 16, poi un 32, un 64 ecc. fino ad arrivare al pattinatore da 131.072, il quale dovrà affittare la baia di Baffin, l’immenso tratto di mare fra la Groenlandia e i territori del Nord-Ovest, per poter eseguire le sue figure numeriche. […] «Taglia!», dice l’avventore indicando un mazzo di carte; e Harpo Marx estrae dalla capace e cornucopiesca tasca del suo pastrano un’ascia da guerra e taglia il mazzo di carte in due. (pp. 116-117)

La ricchezza delle parole ambigue, ampiamente sfruttata dal surrealismo, si rinnova nel comico verbale di Perelman. Destrutturare la lingua serve anche a sgretolare il discorso culturale americano corrente. Come sottolinea Almansi, molti anni prima delle Mythologies di Roland Barthes e di Diario minimo di Umberto Eco, senza strumenti semiologici, Perelman «ha esposto le mistificazioni della sotto-cultura americana con risultati esilaranti che mi sembrano ineguagliati in quelle aree specifiche». Nello stesso tempo, Almansi tiene a sottolineare come la satira non sia l’aspetto predominante dell’umorismo di Perelman che forse dà il meglio di sé quando scopre i fantasmi dell’orrore quotidiano, come per esempio l’odio, un sentimento fondamentale per l’essere umano e che dice di rispettare (come del resto fa Malerba nel Pianeta azzurro). Le fantasie aggressive si liberano così anche nei confronti di bersagli molto modesti, come il compagno di stanza che mangia il gelato:

Mangiava il gelato con il piccolo cucchiaino di cartone del gelataio, tirando su la sostanza cremosa a piccole mestolate indolenti, posando il cucchiaino sulla lingua e rimanendo in attesa che la crema si disintegrasse, mentre i suoi occhi lievemente bovini non si allontanavano mai dalla pagina che stava leggendo. Questo rituale lutulento […] finì per diventare un’ossessione per me. Ogni volta che sollevava il cucchiaino alle labbra, potevo quasi gustare il sapore rasposo e secco del cartone. Gocce di sudore grosse come acini d’uva si formavano sulla mia fronte, e dovevo infilarmi le unghie nel palmo delle mani per non mettermi a piangere. (p. 125)

Dorothy Parker, amica e ammiratrice di Perelman, scriveva di lui come di un moralista satirico, che non ha paura dei ricchi, dei potenti, degli idioti. In parte è vero, concede Almansi, aggiungendo però che questo è come «leggere Malerba alla Romano Luperini (cioè con una lente contenutista unta di grasso)». Non è questo che conta davvero: tutto il libro di Almansi vuole essere progetto di difesa di un umorismo senza obiettivi prefissati, un umorismo inutile, appunto, che trova in se stesso le sue ragioni.

6. La Divina Commedia del verme

Le nostre virtù non sono che vizi mascherati.
La Rochefoucault

Ambrose Bierce (1842 -1914) combattente nella guerra civile americana, giornalista in California, letterato a Londra, scomparso misteriosamente in Messico durante la rivoluzione, pubblicò Il dizionario del diavolo nel 1906. Il titolo originale era The Cynic’s Word Book, ossia Il vocabolario del cinico, rinominato poi nel 1911 The Devil’s Dictionary. È questo il testo che Almansi definisce alla fine del suo saggio “La Divina Commedia del verme”. Bierce si rivolge alle «anime illuminate che preferiscono i vini secchi a quelli dolci, la sensibilità al sentimento, lo spirito all’umorismo e l’inglese corretto al gergo». Le parole non sono strumenti di comunicazione, ma di mistificazione e di conseguenza vanno riviste e corrette nel loro significato irrigidito dall’uso e dal vocabolario. Anche se a prima vista si potrebbe risalire a La Rochefoucault e alle sue massime, cioè al padre di tutta la tradizione aforistica stravagante e eticamente sovversiva, la filiazione rimane per Almansi piuttosto lontana. Sempre indignato, irato e fremente, Bierce manca del tutto della virtù suprema dell’aristocratico francese e cioè la sprezzatura.

L’antropologia di Bierce è invece piuttosto greve e semplicistica. L’uomo conosce solo l’interesse personale e non è in grado di uscire mai da questo orizzonte, definito spesso in modo sintetico e brillante: l’ammirazione è riconoscere che qualcun altro ci assomiglia; il dovere è ciò che ci spinge verso il profitto; l’aforisma è una saggezza predigerita; l’erudizione è polvere versata in un cranio vuoto; il dizionario è uno stratagemma per arrestare lo sviluppo della lingua; e ci sono solo due strumenti più devastanti di un clarinetto: due clarinetti. Bierce si basa su un meccanismo efficace e ripetitivo, cioè in sostanza sostituisce le voci con il loro contrario: la virtù è vizio; l’umiltà è orgoglio; la sapienza è ignoranza e così via. In conclusione l’uomo è un verme e il Dizionario del diavolo è la sua Divina Commedia. Ne scaturisce una lettura divertita e amena, come «capita a tutti i libri carogneschi». E qualche volta emerge anche una verità latente e scomoda, sorprendentemente attuale.

Patriottismo = combustibile di poco prezzo utilizzato da chiunque sia sufficientemente ambizioso da voler dar lustro al suo nome. Nel famoso dizionario del dottor Johnson, il patriottismo si definisce come l’ultimo rifugio di una canaglia; ma, con tutto il rispetto dovuto a un collega stimabilissimo (ancorché minore), mi permetto di fare osservare che si tratta invece del primo. (p. 134)

Nel complesso però, come sottolinea Almansi, riprendendo le osservazioni di Borges su Oscar Wilde, l’opera di Bierce vive una condizione sconfortante: a distanza di un secolo persino le vecchie zie che abitano in campagna sono d’accordo su molti dei suoi paradossi. E nonostante questo, il dizionario di Bierce è per Almansi «una meraviglia di spudoratezza, un miracolo di cattivo gusto, un capolavoro di indecenza». E quale tipo di comicità possiamo ritenere pertinente per il dizionario di Bierce?

Il comico sarebbe quindi la verità nascosta, un’illuminazione che ci disturba e dalla quale ci allontaniamo con un minuto trucco strategico: il piccolo orgasmo del riso con il quale evitiamo di prendere responsabilità diretta dell’enunciato. Esisterebbe, forse, oltre a una storia della filosofia, così come la conosciamo attraverso il pensiero dei grandi pensatori, una storia ulteriore scritta dai grandi scrittori comici? A molti è venuto il sospetto che la vera storia del pensiero rinascimentale dovrebbe essere ricostruita attraverso Ariosto, Rabelais, Cervantes e Shakespeare, quattro grandissimi scrittori comici. (pp. 139-140)

7. Il fattore Gnac

La notte durava venti secondi e venti secondi lo Gnac.
Italo Calvino

Secondo Guido Almansi tutta la scrittura di Calvino persegue un ordine a struttura tendenzialmente binaria che opera a tutti i livelli delle possibilità narrative: a livello cosmologico, etico (il manicheismo del Visconte dimezzato) e spaziale (gli alberi e la terra de Il barone rampante). Questo ordine viene però sempre minacciato da elementi esterni: il caos, l’istinto, il mistero, l’imprevedibile dell’esistenza e dell’animo umano. È quello che sinteticamente Almansi chiama il fattore Gnac. Il termine è tratto da uno dei racconti di Marcovaldo, Luna e Gnac. Nel racconto la famiglia di Marcovaldo può vedere il cielo estivo solo ogni venti secondi perché è ostacolata dalla luce intermittente della pubblicità del Cognac Spaak. Non possono vedere nemmeno la scritta pubblicitaria nella sua completezza, perché la visuale è ostacolata dal tetto di un altro palazzo che è più alto e quindi vedono solo Gnac. Questo diventa occasione per immaginare situazioni comiche e conversazioni di un umorismo leggero e lunare. I figli di Marcovaldo rompono l’insegna con la fionda e l’ordine naturale viene momentaneamente ristabilito. Ma la Spaak Cognac fallisce e la ditta rivale la Cognac Tomawak installa una nuova gigantesca insegna luminosa a caratteri alti e spessi il doppio rispetto a prima. La nuova insegna si accende e si spegne ogni due secondi. Non c’è più pausa né respiro, il codice binario è saltato. Che cos’è dunque il fattore Gnac?

Il fattore GNAC è la volontà di una storia di uscire dai codici troppo rigidi di una lingua normalizzata, di una struttura binaria, di una vicenda che si scrive attraverso una sequenza prevedibile di avvenimenti e di parole. Il fattore GNAC anti-ordine, anti-binario, anti-simmetrico è quello che salva Calvino dai suoi miti, dalla sua ossessione, da se stesso. […] Il fattore GNAC preserva gelosamente l’elemento impuro, il granello di polvere che inceppa un organismo troppo ben oliato, lo scarto che salva il racconto dal grigiore di un’arte normalizzata e codificata. (pp. 149-150)

Il saggio di Almansi termina con il capitolo dedicato a Calvino senza il tentativo di una qualche conclusione generale che sarebbe del resto impossibile. Il ragionamento sul comico infatti è impostato in relazione ai singoli autori e dall’analisi delle loro opere scaturiscono alcune categorie interpretative utili per orientarsi nella complessità del tema, ma senza diventare mai troppo rigide e definitive. Molti degli scrittori presentati da Almansi non sono facilmente inquadrabili nella scansione spesso stereotipata della critica letteraria tradizionale e costituiscono delle ‘anomalie’ non sempre classificabili. Almansi è consapevole di queste difficoltà, ci gioca con la sua prosa brillante e ne fa oggetto di scintillante ironia. Possiamo forse concludere riprendendo le ultime parole del primo capitolo, quando Almansi si interroga sulla natura dell’umorismo di Wodehouse e sulla sua appartenenza alla grande letteratura: «Se Benedetto Croce fosse ancora vivo, lo chiederei a lui».

Bibliografia

ALMANSI Guido (1986), La ragion comica, Feltrinelli, Milano

WODEHOUSE Pelham Grenville (1997), Un intrigo a Blandings, Guanda, Parma