logo fillide

il sublime rovesciato: comico umorismo e affini

Copertina Numero 19

 ottobre 2019

Tourbillon

Emanuela Scicchitano

«Et in Arcadia ego». Riflessioni in margine a Con in bocca il sapore del mondo di Fabio Stassi

Guercino Et in Arcadia ego

Giovan Francesco Barbieri detto il Guercino, Et in Arcadia Ego, 1618-1622, olio su tela, Gallerie nazionali d’arte antica, Roma

Spuntano dagli alberi di una selva per affacciarsi come due attori sul loro proscenio, al di là del quale occhi incuriositi li spiano. Uno è pallido, efebico e con lo sguardo vitreo; le sue vesti sono logore e le mani aggrappate al legno che lo separa dalle sorprese del mondo e dall’uomo che sembra stargli accanto e quasi proseguire la linea del suo corpo, ampliandone i contorni fisici e temporali. La barba, l’ispessimento della pelle, gli occhi torvi sono i segnali dell’età adulta che il ragazzo potrebbe presto raggiungere. Ma se la giovinezza traghetta verso la vecchiaia, questa scivola verso la morte che sta in fronte a loro. È lì: è il teschio appoggiato su un rudere in pietra, su cui è incisa l’epigrafe: ET IN ARCADIA EGO, «anche io in Arcadia».

Chi è (stato) in Arcadia? È difficile rispondere a una domanda che non sappiamo collocare temporalmente. Possiamo provare ad avanzare delle ipotesi a partire dal paesaggio che avvolge gli uomini: tempestoso, boschivo, aspro come quello della regione greca dove Teocrito e Virgilio hanno immaginato vivessero i pastori ritratti nelle loro ecloghe e impegnati a pascolare le greggi e intonare canti. Dunque quegli uomini potrebbero essere due pastori e poeti che si trovano in Arcadia come un tempo, in vita, lo era stato anche l’uomo a cui quel teschio è appartenuto. Forse anche lui pastore che, per consacrarsi poeta, è giunto in quel luogo dell’anima dove si può incontrare la vita e la morte. Ma se la frase riportata da Guercino in calce significasse altro? Se, ispirati da questo quadro dipinto attorno al 1618, ci spingessimo oltre e provassimo a ribaltare i termini della frase? Ne risulterebbe, più arditamente, che «anche nell’Arcadia c’è l’Io» e che persino nel luogo più antico e sacro, dove è mai avvenuta la formazione poetica, può insinuarsi la forza novecentesca ed entropica dell’Io. Sì, l’Io può inoltrarsi nel territorio dove si sono consumati e infranti i sogni dei poeti e può raccontarceli. Può farlo sotto forma di finta autobiografia e rivelarci nella menzogna molte cose che somigliano al vero. Può dunque saldare la profezia che le Muse fecero a Esiodo ai tormenti psicologici dell’uomo moderno.
Su questo sentiero che conduce l’Io verso l’Arcadia si è inoltrato Fabio Stassi nel suo ultimo libro: Con in bocca il sapore del mondo (Minimum Fax, 2018): una raccolta antologica di dieci racconti pseudo-autobiografici in cui dieci poeti del Novecento raccontano post mortem il loro accidentato incedere verso l’Arcadia, ora simile nei tratti a Spoon River. In questa galleria sono ospitati i ritratti di: Dino Campana, Gabriele d’Annunzio, Guido Gozzano, Umberto Saba, Aldo Palazzeschi, Vincenzo Cardarelli, Giuseppe Ungaretti, Eugenio Montale, Salvatore Quasimodo, Alda Merini. Ad accomunarli è il desiderio di assaporare il mondo con intensità, senza negarsi nulla dell’esperienza umana e del suo racconto. Ecco perché questi racconti possono definirsi confessiones metaletterarie: in esse sono incastrati stralci di lettere, poesie, illuminazioni d’autore che come tessere di un mosaico riflettono una luce lontana e delimitano uno spazio biofinzionale, in cui l’autore dimostra di muoversi con naturalezza.
Una naturalezza che deriva da un lungo allenamento autoriale con il gioco delle «imposture letterarie […] già osato con trecento personaggi di romanzi e con il più celebre attore del cinema muto» (pp. 152-3); la mimesi dell’io autoriale con quello biografico dei personaggi era stata infatti già sperimentata da Stassi nella biografia romanzataL’ultimo ballo di Charlot (Sellerio, 2012) e ne Il libro dei personaggi letterari. Dal dopoguerra a oggi (Minimum fax, 2015), nella cui prefazione lo scrittore rivela:

Siamo fatti dei libri che abbiamo letto quanto delle persone che abbiamo incontrato. […] Leggere, in fondo, è uno degli atti più privati e solitari che possiamo fare, e dichiarare il modo in cui si legge equivale a mettersi a nudo. Il mio è infantile e adolescenziale: finisco sempre per indossare i panni di un altro e immedesimarmi con lui fino a sovrapporre la mia voce alla sua e a non riuscire più a distinguerla. Un ritratto, a saperlo interpretare, ci rivela chi lo ha dipinto assai più di chi raffigura. (STASSI 2015, pp. 5-6)

Ne Il libro dei personaggi letterari così come in Con in bocca il sapore del mondo i ritratti metaletterari e bio-finzionali raccolti confermano un’ispirazione di scrittura “leggera”, capace di saltare da una vita all’altra, da un testo all’altro con la stessa rapidità con cui Cosimo Piovasco di Rondò balzava da un ramo all’altro alla ricerca di un rifugio o di una avventura o di un incontro che potesse addentrarlo nei segreti del mondo.
Ed è sempre fra i boschi che si aggira il primo dei poeti che incontriamo: è Dino Campana e pare sussurrarci anch’egli «Et in Arcadia Ego». Si definisce «l’uomo dei boschi» (p. 9), urla i versi nelle forre, mastica le parole come se fossero radici e cammina per gli Appennini come se questi appartenessero al Regno delle Ombre e lui fosse uno dei personaggi ritratti dal Guercino mentre ammira spaventato il teschio, conteso da un topo e da una mosca: gli animali che trasformano la morte da tragedia in dramma satiresco. Perché anche la morte può essere comica:

volete sapere come finì? In un modo quasi comico. Quando tutti dicevano che ero un uomo ormai guarito, una quindicina di anni dopo, mi presi una infezione agli inguini cercando di scavalcare un filo spinato. Non è questo, forse, quello che cercano di fare i poeti? (p. 22).

La risata può riecheggiare sonora pure fra le tombe di Spoon River, verso le quali Stassi coltiva una foscoliana «corrispondenza di amorosi sensi» che lo incita a scrivere di letteratura portando:

della terra, per tanti anni, sotto una piccola collina, registrando tutti i nomi che ho impersonato in questo cimitero dove nessuno muore per sempre. […] e senza accorgermene mi sono ritrovato a parlare attraverso di loro in una inesauribile sfida mimetica. (STASSI 2015, p. 6)

Un gioco di specchi che fa sì che l’io sia un altro e che l’uomo dei boschi schivo e frastornato dalla vita si evolvi metamorficamente nel d’Annunzio sacerdote della parola e pronto a celebrare il «mercoledì delle sue ceneri» (p. 23) in una giravolta esistenziale che dissolve le differenza fra il memento audere semper, che ha guidato le azioni di guerra, e il memento mori che incombe su di loro: «sapevo ormai che era più facile convivere con i morti che con i vivi» (p. 50) dichiara Guido Gozzano, «la figura che sta sempre di profilo» (p. 36). Ma perché non distanziarsene ironicamente dalla fine? Umberto Saba, il «figlio del vento» (p. 51), nel raccontare la sua vita lavorativa nella sua libreria antiquaria ricorda che:

Venivano in molti, da noi, anche Italo Svevo, che era una bella e amabile persona, e la sera gli piaceva raccontare le sue avventure di uomo di commercio. Lui era un narratore nato, qualsiasi fosse l’argomento. Non gli mancava mai la battuta: pensate che la sera in cui il suo cuore precipitò, dopo un incidente automobilistico, nel momento in cui capì che l’ultima sigaretta era stata davvero fumata, disse: Tutto qui? Morire non è che questo? Ma è facile, è molto più facile che scrivere un romanzo.
Sì, morire è più facile che scrivere anche una sola poesia, adesso lo so pure io. (p. 52)

Scrivere poesie può persino richiedere di indossare maschere, sfilare a Carnevale, fare rumore, essere sonnambuli della vita: ce lo insegna Alda Merini, la cui voce racchiude tutte quelle che l’hanno preceduta e pone il sigillo a un’antologia, la cui chiusura spetta però al lettore, invitato a contaminare il proprio Io con quello dei poeti-personaggi e dell’autore che li ha fatti nuovamente parlare. Il lettore può salire sulla giostra poetica, iconicamente rappresentata in copertina, e giocare con la farfalla di Alda Merini o con l’albero di Dino Campana. Oppure può fare come la mosca del Guercino: dire anch’essa di essere stata in Arcadia a trarre linfa vitale dalla morte.

Bibliografia

STASSI F. (2012), L’ultimo ballo di Charlot, Sellerio, Palermo.
STASSI F. (2015), Il libro dei personaggi lettarari. Dal dopoguerra a oggi, Minimum Fax, Roma.
STASSI F. (2018), Con in bocca il sapore del mondo, Minimum Fax, Roma.