Strutturato «non senza ironia» (p. 17) come un trattato sistematico, diviso in capitoli che indicano le principali partizioni del pensiero filosofico, il nuovo libro di Tagliapietra racconta e analizza i cartoni animati, un tema a prima vista lontano dall’astrattezza della speculazione, relegato al mondo dell’infanzia e del gioco. Del resto proprio l’immaginario infantile, il gioco, la dimensione magica del mondo degli animali e delle piante, che ripropongono i racconti del mito antico, sono da sempre stati oggetto della curiosità teoretica.
Il punto di partenza è lo sguardo: la visione del film al cinema – sostiene Tagliapietra – non è solo qualitativamente diversa dalla fruizione sul tablet o sullo schermo TV o sul computer, per la diversa qualità della percezione (grandezza dello schermo, fedeltà dei colori, nitidezza, definizione, audio ecc.), ma «è ermeneuticamente diversa» perché collettiva (p. 23). Nella sala cinematografica ci immergiamo nel fluire delle immagini e del racconto: questa visione diventa simile allo sguardo del bambino, alla sua capacità di meravigliarsi o di concentrarsi su dettagli per noi insignificanti: nulla è dato per scontato, nulla è ovvio. Il bambino, accostato all’ospite di un passo dei Minima moralia di Adorno, «guardando le forme colorate che si succedono sullo schermo, ride accanto a noi» (p. 50), ricordandoci un mondo altro, quello in cui, in modo diverso, vivono Peter Pan e Pinocchio.
Il libro prende in considerazione anche le diverse tecniche dei cartoons, disegni animati che anche noi chiamiamo cartoni, e le diverse tipologie della narrazione: il disneyano, l’antidisneyano, come quello della Pixar (che ha origine dalla LucasFilm, poi rilevata da Steve Jobs e, nel 2006, acquistata dalla Disney, ma con progetto autonomo, cfr. p. 52), e l’anime, il cartone giapponese. Nel primo Tagliapietra individua «il modello zuccheroso dell’eroe povero di spirito, […] idealista, pragmatista e disciplinato», di contro presenta «il modello cinico-scettico e conflittuale del ribelle antidisneyano», che viola le leggi della fisica, cammina nel vuoto e precipita sui propri piedi, dialoga con il pubblico mediante cartelli che distruggono ogni illusione di realtà (p. 66). Il cartone giapponese introduce invece, secondo l’autore, la dimensione del gruppo, del noi (cfr. p. 67), presente, nel Giappone umiliato dalla seconda guerra, come un aspetto positivo dell’identificazione, pur totalizzante, dell’individuo con il suo ruolo sociale (la distinzione riprende le categorie del libro di Luca Raffaelli, Le anime disegnate. Il pensiero nei cartoon da Disney ai giapponesi e oltre, minimum fax, Roma 2005).
Il capitolo, a mio parere, più interessante ha come titolo l’ Antropologia del cartone animato. Animare l’inanimato: vi troviamo le ragioni stesse che hanno spinto Tagliapietra a scrivere questo libro, a pensare una filosofia dei cartoni animati. Trovare un’anima nelle cose, dare una voce agli animali è l’essenza del pensiero magico, risale a «quando ogni albero può avere l’occasione di parlare, nascondendo una ninfa», come scrive Nietzsche in Wahrheit und Lüge: è caratteristica della tradizione favolistica, ma forse è ancora qualcosa di più, è caratteristica dello stesso linguaggio umano. «La mente umana – scrive l’autore, richiamando la teoria di Sapir e Whorf – e la stessa forma della coscienza […] hanno una struttura narrativa», le parole indicano le cose nel senso che danno forma al caleidoscopio delle sensazioni attraverso la lingua (p. 114). Del resto animare l’inanimato è un concetto che possiamo far risalire addirittura ad Aristotele e alla sua teoria della metafora: la metafora-ἀστείον consiste infatti – ce lo spiega nel modo più chiaro Morpurgo-Tagliabue – nel mettere sotto gli occhi (πρὸ ὀμμάτων ποιεῖν) le cose in atto, il che può voler dire che esse devono essere viste come presenti o in procinto di accadere, ma può anche significare che esse sono animate, ἔμψυχα, personificate (Linguistica e stilistica in Aristotele, Edizioni dell’Ateneo, Roma 1967, p. 252). La teoria della parola come metafora, da Jean Paul Richter a Wahrheit und Lüge di Nietzsche, riprende questa antica intuizione e giunge fino a Benjamin e oltre, individuando il principio della creazione artistica nella metamorfosi, nella trasmutazione e nella trasfigurazione che, ci dice Tagliapietra, inducono Ėizenštejn all’ammirazione verso i cartoons di Disney. La metafora è quindi costitutiva di tutta l’attività simbolica e mitopoietica degli uomini (cfr. p. 182) e, in particolare, «il motivo arcaico e profondo di quell’animazione dell’inanimato che costituisce la ragione simbolica fondamentale di tutto il cinema che viene detto, appunto, di animazione» (p. 72).
Gli esempi di animazione degli oggetti nei cartoni sono moltissimi; basti pensare alle fatine della Bella addormentata nel bosco, a Fantasia, a Pinocchio della Disney, ad Astroboy di Osamu Tezuka, a Toy Story, a Lou e a molti altri. Nell’analisi di questi film l’autore indaga anche il rapporto tra queste figure e il mondo dei giocattoli e dei giochi.
I giocattoli di Andy – scrive a proposito di Toy Story 3 – sono come i cartoni animati, oggetti inanimati che prendono vita non in virtù di una tecnica – questa serve solo a conferire loro il movimento -, bensì di uno sguardo. Uno sguardo che passa dagli adulti ai bambini e dai bambini agli adulti, diventando quello sguardo duale con cui guardiamo i cartoni animati (p. 71).
A questo sguardo duale si aggiunge la capacità di guardare degli oggetti stessi che si sono animati e ci guardano in un’inversione paradossale che Tagliapietra associa all’aura delineata da Benjamin negli scritti sulle figure dell’infanzia.
In una filosofia dei cartoni animati non poteva poi mancare una riflessione sulla dimensione dello spazio, del tempo, del colore e sullo statuto dell’immagine. A proposito di quest’ultimo tema l’autore riprende un’osservazione di Deleuze sulla Pantera Rosa, che non è immagine di qualcosa d’altro, «non imita nulla, non riproduce nulla, dipinge il mondo del suo colore, rosa su rosa» (cit. p. 150). Così i cartoni non fotografano nulla, non sono immagini di altro, sono «simulacri, ossia immagini-cose senza originale» (p. 151), sono sottratti alle leggi della fisica, possono estendersi o restringersi, esplodere e ricomporsi, interagire con attori in carne e ossa, come nel film diretto da Zemeckis, Chi ha incastrato Roger Rabbit.
Tagliapietra prosegue nell’analisi delle figure della collezione e della ripetizione, riprendendo le riflessioni di Benjamin e Caillois sui caratteri del gioco infantile. Passa poi alla politica del cartone animato che rivendica il ruolo dell’individuo, della «singolarità», a partire dalle ribellioni nel mondo degli insetti e dal rovesciamento attuato nel film Ratatouille della Pixar, in cui il topo chef Remy anima, nascosto nel cappello da cuoco, l’azione del maldestro Linguini. Il libro si conclude con una rassegna del diverso, dell’altro, del monstrum, che può assumere le fattezze della regina di Biancaneve, la bella Uta di cui ci ha raccontato la storia Stefano Poggi (La vera storia della Regina di Biancaneve. Dalla Selva Turingia a Hollywood, Raffaello Cortina Editore, Milano 2007), che si trasforma in strega, oppure la fata Malefica della Bella addormentata, che diventa sì un terribile drago, ma può rappresentare anche, scrive l’autore, una «diversità da includere», che caratterizza molti dei Super-eroi con i loro lati di fragilità e debolezza (p. 382ss.), e il mostro gentile E.T. L’etica della mitezza, del dono, dell’amico ritrovato e, aggiungerei, dell’amore, rappresentato poeticamente nel film La tartaruga rossa, prodotto in Francia e Belgio con la collaborazione dello studio Ghibli, è capace di affrontare con delicatezza orientale il tema della morte, la morte che bussa anche a casa Simpson e viene trattata da Homer con acida ironia gialla.
Accanto ad altre numerosissime narrazioni e osservazioni – molte importanti, altre forse troppo lontane dal tema in oggetto – vorrei ricordare i passaggi sui luoghi dimenticati (la soffitta e la cantina) e sulla discarica in cui finiscono i giocattoli di Toy Story 3 e che ci ricorda il finale di Cosa sono le nuvole di Pasolini. Il tema dell’abbandono, della dimenticanza e della fine viene riscattato dallo sguardo infantile, dalla leggerezza, dalla capacità di distanziarsi da sé, dalla capacità di ridere. «Non ci resta che ridere» è il titolo di un altro libro di Andrea Tagliapietra (Il Mulino 2013, cfr. anche il suo articolo Tipologia del riso nel n. 5 di questa rivista e la recensione di Non ci resta che ridere di Silvana Castelli nel n. 8).