logo fillide

il sublime rovesciato: comico umorismo e affini

Copertina Numero 04

 aprile 2012

Interviste

Benno Simma

A dog’s dream

Intervista di Thomas Callegaro

 

Benno Simma è l’autore del logo di Fillide.

Ma non solo. Il suo Open Space nella periferia di Bolzano racconta la sua poliedricità: disegni, progetti, modelli e strumenti musicali si alternano negli spazi del suo ambiente di lavoro. Sedie che si trasformano in panche, un pianoforte, una lampada, una maraca, un separé, un banjo. Mi ha raccontato del suo lavoro di designer e della sua ultima opera musicale, A dog’s dream. Ci siamo interrotti solo per ammirare uno stormo di rondini che si agitava sullo sfondo di un cielo coperto, bianco, luminosissimo. Uno spettacolo che si integrava perfettamente con l’ambiente che ci circondava.

Come nasce il logo di Fillide?

 Ho conosciuto Fillide tramite Edi Rabini, che conoscevo fin dalle lotte del ‘68. Circa 15 anni fa proprio per lui avevo ideato un logotipo disegnato a pennello per l’associazione BZ1999. E’ stato proprio Edi a chiamarmi dicendo che Barbara Ricci e Luisa Bertolini cercavano un simbolo per la rivista. Sono venute qui e mi hanno portato un po’ di materiale. L’immagine di Aristotele cavalcato da Fillide mi ha subito divertito, e ho deciso di farne una sorta di storpiatura grafica, includendolo in una forma circolare con uno sfondo rosso, provocando un effetto di straniamento. Trovo che il tema della rivista sia importante, mi ha sorpreso, a dire la verità. La cultura italiana ha un grande problema con la classicità, che spesso non lascia molto spazio all’ironia. Io posso dire di essermi divertito anche a fare questo lavoro.

Mi pare di capire che il divertimento abbia un grande ruolo in quello che fai.

Spesso musicisti con cui ho lavorato rimangono colpiti dalla parola “designer”. Io cerco di spiegare loro che non lo faccio seriamente, non disegno phon, per esempio. E’ un lavoro che faccio divertendomi, mi definisco un designer ironico. Non sono una star, non vado sulle riviste, non faccio molti pezzi. Per me la distanza, l’ironia sono cose importanti. Il mio lavoro è improntato sull’artigianato, io disegno, costruisco i modelli, poi lascio il resto del lavoro a un falegname o un altro artigiano. Sono contento così, facendo pochi pezzi posso occuparmi anche della musica. In passato ho lavorato anche come architetto, ora preferisco lavorare da solo e avere la possibilità di fare cose diverse.

Quindi design e musica sono entrambi il tuo lavoro?

Mi piacerebbe fare ancora più musica, ma entra in gioco l’eterno conflitto: con la musica non potrei vivere. Ma non voglio degradarla a livello di hobby. Voglio creare il mio piccolo campo musicale con le capacità che ho. So che non sarò mai un virtuoso, ma so anche che ho qualcosa da dire e cerco di integrare questo con il mio lavoro. È comunque necessario condividere spazio e tempo con altre attività. Quando ero architetto avevo molte più responsabilità era più difficile “difendere” la musica. In quell’ambiente era considerata un’attività “poco seria”. Ora posso viverla in modo più spontaneo.

Il tuo percorso musicale?

Quando mi sono iscritto all’università a Venezia, nel ‘67, il mio strumento era la chitarra, i miei punti di riferimento erano i Beatles e i folk-singer americani: Bob Dylan, Pete Seeger, Woody e Arlo Guthrie. Proprio a Venezia sono entrato nel Nuovo Canzoniere Veneto con Gualtiero Bertelli. Ricordo che mi prendevano in giro per la mia pronuncia altoatesina del dialetto veneto, ma grazie a questa esperienza ho imparato molto e ho avuto l’occasione di suonare in giro per l’Italia e l’Europa. Poi però ho dovuto finire gli studi e ho iniziato l’attività di architetto. Tornato a Bolzano ho tentato l’esperimento del canzoniere popolare con l’Arbeiter Singgruppe Bozen. Uno dei brani creati durante questa esperienza, Tod im Bergwerk, si è diffuso in Alto Adige come un brano popolare. Dopo un periodo rock con gli Zot all’inizio degli anni ‘80 ho smesso di suonare per motivi di lavoro. Ma poi la musica doveva tornare, e così è stato.

In A Dog’s Dream traspaiono tutte queste esperienze, sia musicalmente che linguisticamente.

Sì, torna la musica popolare e uso diverse lingue. Ho sempre voluto integrare le diverse culture, che sono poi quelle dell’arco alpino. C’è un bellissimo lavoro pubblicato dalla rivista Arunda in cui sono raccolte registrazioni sul campo dei canti popolari dalle Alpi Liguri fino a Tarvisio, su tutti e due i versanti. C’è una multiculturalità insita in queste zone.

La canzone che dà il titolo all’album è cantata in inglese con un ostentato accento tedesco. Come nasce la canzone e che ruolo ha il titolo nel lavoro complessivo?

La canzone è nata un paio di anni fa in occasione di una performance effettuata in una sala dell’hotel Jarolim a Bressanone. L’ho usata per accompagnare un filmato in cui i disegni di una ventina di artisti si alternavano creando un effetto di stop-motion. L’ho scritta in seguito a un sopralluogo nell’albergo, durante il quale ho incontrato un cane che stava nella reception su un divano liso e osservava le persone che andavano e venivano. Questo cane sembrava raccontare la sua storia. Conosceva molto bene gli esseri umani e ne aveva una brutta opinione: sono litigiosi e hanno un brutto rapporto con gli animali. Nella canzone il cane fa un sogno, in cui tutte le cose negative che lo circondano diventano ossa. Può essere interessante per un cane, ma nel complesso è un sogno macabro.

L’idea dell’album nasce dopo. C’è un programma, ma non un filo logico: è appunto come un sogno. E ci sono molti temi, come appunto la cattiveria, o l’amore litigioso – l’amore che funziona non va cantato -. Anche l’uso di lingue diverse mi riporta alla dimensione onirica, non si mantiene un’identità precisa. In particolare nella canzone A dog’s dream mi sono fatto influenzare dal cabaret. Dopo l’Arbeiter Singgruppe Bozen mi sono avvicinato a Brecht, e soprattutto ai musicisti che lo affiancavano, principalmente Kurt Weill che nell’ultima parte della sua vita ha vissuto negli Stati Uniti. Questo mi ha anche portato verso il jazz.

Per il blog “poetically correct” di Benno: bsimma.blogspot.com/.webloc