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il sublime rovesciato: comico umorismo e affini

Copertina Numero 03

 settembre 2011

Testi

Alberto Fortuzzi

Memorie e inutili messe in scena per umiltà – atto primo (con la collaborazione di Carlo Lazzerini)

[ Pubblichiamo volentieri in questo numero e nel prossimo il testo teatrale scritto da Alberto Fortuzzi con la consulenza del prof. Carlo Lazzerini, recentemente scomparso. Ringraziamo l’autore e il Teatro Stabile di Bolzano. Segnaliamo il sito di Alberto Fortuzzi: http://albertofortuzzi.wordpress.com/ ]

Memorie inutili messe in scena per umiltà

di Alberto Fortuzzi
con la collaborazione di Carlo Lazzerini

Commedia storico-faceta in due atti
scritta con la tecnica del “puzzle”
usando solo frasi e battute dagli scritti e dalle opere teatrali di Carlo Goldoni
(e rubando qualcosa anche dal Gozzi)

per la messa in scena al Teatro Stabile di Bolzano furono prese in prestito le musiche
de Il maestro di cappella di Domenico Cimarosa

Scena Prima

GOZZI: Ah! L’umana fragilità sempre farfalla! Parecchi nel nostro secolo si credono di gran mente, di grand’anima e di gran cuore; ma se bene si esaminassero, troverebbero che cotesti loro gran mente, gran cuore e grande anima non sono che una perdita de’ sentimenti salubri del rossore e della vergogna, a’ quali sentimenti han posto il nome di pregiudizio.

GOLDONI: Mi permetta una quistione. Può la poesia, poiché canta i grandi sentimenti del cuore e dell’anima, essere di pregiudizio?

GOZZI: Sì. Ogni qual volta che per attendere ad essa, si ruba il tempo dovuto alla carica, al ministero, alla economia della casa, alla educazione de’ figliuoli. Ma, mi dica di grazia, acciò ch’io non mancassi al mio dovere: con chi abbiano l’onor di parlare?

GOLDONI: Umilissino, obbligatissimo, devotissimo servidore, dottor avvocato signor Carlo Goldoni, poeta arcade di Roma sotto il nome di Polisseno Fegeio. Servitore ossequiosissimo, Signore.

GOZZI: Conte Carlo Gozzi, sozio e fondatore della faceta Accadenia Granellesca, sorta a difesa della purità del nostro litterale linguaggio, e a cui appartengo con il nome di Solitario.

GOLDONI: Servo del Signor Conte.

GOZZI: Dunque, signor Polisseno, voi siete poeta!

GOLDONI: Questa è la mia professione. Ma cossa vorla dir per questo?

GOZZI: Siete avvezzo a fingere.

GOLDONI: Signor conte, perdonatemi, siete un poco pungente.

GOZZI: In oggi, chi non critica, non reca piacere.

GOLDONI: Criticare, ma non satirizzare.

GOZZI: La critica e la satira sono sorelle.

GOLDONI: Si, ma una è legittima, e l’altra è bastarda.

GOZZI: I legittimi e i bastardi si confondono facilmente.

GOLDONI: Orsù, non voglio stuzzicarvi. Riflettete che i satirici finiscono male. Del resto anche voi siete poeta.

GOZZI: Ah, purtroppo la poesia non è oggi in quel pregio in cui esser dovrebbe. Spero, per altro, che non passerà molto che risorgerà il regno delle muse e non anderà senza premio chi avrà il merito di una così bella virtù.

GOLDONI: Questo è il merito delle fatiche di noi poeti. Leggere le nostre composizioni, e sentirci dir bravi. (canta)

La povera cicala,
Che d’aria solamente si nutrisce
Canta, crepa, e finisce.
È un cantar poco grato,
Il compor versi e non aver mangiato.

GOZZI: Me consolo con vu, compare caro,
Che savé poetar all’ improvviso.

GOLDONI: Ogni mattina a poetar imparo,
E, se volete, ve poeterò sul viso.

GOZZI: Prego el ciel, che ve soffoca el cataro
Avanti che ne de’ sto bel avviso.

GOLDONI: Caro poeta mio, scusa domando,
E ve mando ben ben, e ve stramando. (parte)

GOZZI: Una razza d’uomini, che s’appellano poeti, parte mossi dalla cupidigia di lode popolare e parte da quella del guadagno pretese che comici dovessero dipendere dall’arte loro. L’ignoranza dei comici ha creduta indispensabile una tal soggezzione. La ragione di tali indecenti spropositi è chiarissima. Cotesti impostori non potendo ridurre tributari i comici improvvisatori, vorrebbero annichilare e ridurre il teatro italiano a rappresentazioni premeditate, onde tutti i comici dovessero dipendere dalle loro cupidigia e circuizione. Ma la commedia improvvisa detta Commedia dell’Arte, fu sempre la più utile alle comiche italiane compagnie. Da trecent’anni ella sussiste. Fu combattuta in ogni tempo e non perì mai. Io vi prego spettatori miei, a non voler per qualunque scaramuccia sia per nascere, abbandonare del tutto il teatro del povero Goldoni. Perchè s’egli non si muore dalla angoscia veggendo posta in ridicolo la sua dottrina, non se ne muoia poi di quell’altra morte crudele… la fame.

Scena Seconda

GOLDONI: (canta, vestendosi da Argentina)

Il nobil conte che affetta esser cruscante,
col riso in bocca e col veleno in petto,
ergesi intorno con aria di pedante
e favella così senza rispetto:
“Vada prima a studiar Petrarca e Dante
chi vuol far canzona oivvero sonetto,
e chi vuol schieccherar brillanti ottave
degli antichi poeti nostri abbia la chiave.”

(terminando il cambio costume)

ARGENTINA: Non sempre le donne, a quei tempi erano tollerate sulla scena. Ero giovane, non ero brutto. Mi fu assegnato un ruolo da donna. Mi fu data financo la parte principale e fui incaricato del prologo:

Di Polisseno Fegeio sono io la musa
Benignissimo cielo!
Ai rai del vostro splendidissino sole,
eccoci quali farfalle
che, spiegando le deboli ali de’ nostri concetti
portiamo a sì bel lume il volo …

Questo grazioso prologo mi guadagnò uno staio di confetti da cui il teatro fu inondato ed io quasi accecata. Perché ridete? Recito tanto male?

SMERALDINA: (Gozzi vestito da Smeraldina) In un teatro della Corte si recitavano tutto il carnevale tragedie e drammi e commedie all’improvviso da dilettanti di comica e io m’ero scelto di rappresentar la parte di servetta. I miei capelli erano divisi, intrecciati con delle fettucce di zendado color rosa. (declama) “La musa io son del Solitario.” Sono riuscita a far la mia parte con loquacissimo coraggio e fui accolta con giubilo da’ miei spettatori e vinsi gli animi di tutti generalmente. (a parte) Tio ‘suso!

ARGENTINA: (a parte) Frascomazza! Ti me le pagherà tutte!

SMERALDINA: (a parte) Lassa pur che la diga, me voggio dar una sfogada come che va.

ARGENTINA: Se femo delle burle, save’, de quando in quando con la mia amiga musa. Scherzemo cussì per devertemento. Me vorle ben?

SMERALDINA: Assae. (a parte) Se la savesse quanto ben ghe voggio.

ARGENTINA: (a parte) Tra le altre so virtu la gh’ha anca quella dell’nvidia.

SMERALDINA: (a parte) Oh che martuffa!

ARGENTINA.: (a parte) Oh, che spuzzetta!

SMERALDINA: Sentela come che la parla!

ARGENTINA: Parlo come ghe voggio parlar, cara la mia maga ciarlatana! Non mi pungere perch’io ti darò una rabbuffata in versi martelliani, che ti farò morire sbadigliando.

SMERALDINA: A me? Strega temeraria! Accetto la sfida in versi martelliani. Ti renderò pan per focaccia! (canta)

Io sto piangendo pel teatro morto
e singhiozzando al buco dell’acquaio,
poiché disse l’escremento del Moliere:
io con arte dipingo il vizio espresso…

ARGENTINA: Chi dice mal senza ragione alcuna,
chi non prova gli assunti e gli argomenti
fa come il cane che abbaia alla luna.

SMERALDINA: Che si decida, s’io dissi il vero!
Sto facendo un commento
che proverà l’assunto e l’argomento.

ARGENTINA: Desta la veritade il mio pensiero
debole è il mio cantar ma canto il vero.

SMERALDINA: Musa di scrittor che non usa grammatica
E caca versi e mai rifina. Sei stitica!

ARGENTINA: … Perdono volentieri l’insulto a me dovuto
musa di buon servitor forse non sono
e ai fonti miglior non ho bevuto.

SMERALDINA: A conto de’ gran debiti che tiene
con chi s’intende di letteratura
la musa del Fegeio qui ci giura
che non ha mai studiato a scriver bene.
Fuggiti come cagna
e grida a gola per tuo disonore
ch’egli non è poeta né scrittore.
Carlo Goldoni poeta universale,
ci fa saper che compone sonetti,
capitoli canzoni e poemetti,
che sono buoni per qualunque male.
E locandiere
Serve amorose,
Villeggiature,
Vedove scaltre,
Con tutte l’altre,
Farse, commedie,
Tragicommedie,
Dissertazioni,
E prefazioni,
De’ gran dottori
Riformatori,
Di un rogo in mezzo
Trovin lor prezzo. (parte)

ARGENTINA: Di Polisseno mio no parlo; el soffre, el tase,
perché a lu no i ghe fa né ben né mal;
el pubblico el respetta, el se compiase,
che dei discreti il numero preval.
Goldoni sol se lagna, e ghe despiase
che se diga che el guasta la moral,
e che penne lo scriva venerande
con parole sporchissime e nefande.
Ma conceder si può questa licenza
a chi in collera va con la fortuna
che per lui non ha molta compiacenza.

(musica)

Scena Terza

GOLDONI: (solo) 1731. Quando il professor Radi mi credette in condizione di potermi presentare andammo insiene a Padova. La sorte mi aveva favorito nell’uscita dei temi: li sapevo a memoria e mi feci onore senza limite alcuno. ‘Si viene ai voti. Il cancelliere ne pubblica il risultato: ho la laurea, nemine penitus, penitusque discrepante, vale a dire senza un voto contrario.’

1733. lettura agli attori dela mia prima opera “Amalasunta”.

VOCE: Amalasunta!

GOLDONI: Il primo attore gorgheggiò la parola.

VOCE: È lunga e ridicola. (ride)

GOLDONI: Tutti risero io no. Lessi i nomi dei personaggi. Ce n’erano nove nel mio dramma.

VOCE: Troppi, troppi! Ci sono almeno due personaggi di troppo!

GOLDONI: Disse un vecchio castrato che cantava nei cori con una vocina miagolante. Il signor Prata, impresario, fece tacere l’insolente.

VOCE: Abbiate la compiacenza di continuar la lettura, di grazia, signor Goldoni.

GOLDONI: Ripresi la lettura: Atto primo scena prima, Clodesilo e Arpagone.

VOCE: E qual’è il primo tenore della vostra opera?

GOLDONI: Signore Eccolo: è Clodesilo.

VOCE: Come, fate aprire la scena al primo attore e lo fate conparire mentre la gente viene, si siede e fa dello strepito? Signore, io non sarò il vostro personaggio! Che pazienza! Signor Impresario.

IMPRESARIO: Vi prego di dar lettura del vostro dramma a me solo.

GOLDONI: Lui mi ascoltò con attenzione e pazienza…

IMPRESARIO: Sssh! Mi pare che non abbiate studiato male l’arte poetica di Aristotele e quella di Orazio, ma qui bisogna cominciare col piacere agli attori e alle attrici, bisogna accontentare il compositore della musica, bisogna consultare il pittore decoratore. Vi sono regole per ogni cosa e sarebbe un delitto di lesa drammaturgia se si osasse infrangerle, se non si volesse osservarle. I tre attori principali del dramma devono cantare cinque arie ciascuno. La seconda donna e il secondo soprano non possono averne che tre, e gli ultimi ruoli debbono accontentarsi di una o tutt’al più di due. Bisogna distribuire con la stessa precauzione le arie di bravura, le arie d’azione, le arie di mezzo carattere, i minuetti e i rondò. Soprattutto bisogna stare attenti di non dare arie di passione né di bravura né rondò ai ruoli secondari. Bisogna che quei poveretti si contentino di quello che gli vien dato, ed è loro proibito farsi onore. Bisogna….

GOLDONI: “Mi basta così signore, non datevi la pena di istruirmi più oltre. Maledette regole! Il mio dramma è buono ne sono sicuro, è buono. Ma il teatro è cattivo. Gli attori, le attrici, i compositori, i decoratori… Che il diavolo se li porti, e porti anche te disgraziata opera, che mi sei costata tanta pene, m’hai deluso nelle mie speranze. La fiamma ti divori!” Mangiai bene, bevvi meglio, andai a coricarmi e dormii tranquillamente.

(musica)

Scena Quarta

GOLDONI: Dal 1734 al 1744 esercitai contemporaneamente la professione di avvocato e quella di autore drammatico per il capocomico Giuseppe Imer. Nel corso della quaresima del 1738 arrivò e diede il massimo pregio alla compagnia il famoso arlecchino Antonio Sacchi.

“Eccomi, eccomi a mio agio. Posso lasciar libero sfogo alla mia immaginazione, ho lavorato abbastanza su vecchi soggetti: bisogna creare, bisogna inventare! Ho degli attori che promettono molto ma non posso impiegarli solo con la maschera, che nasconde la fisionomia e impedisce all’attore sensibile di lasciar trasparire dal viso la passione da cui è agitato. Orsù, ecco forse il momento di far la prova di questa riforma, che da tanto tempo ho nelle mie intenzioni. Sì, bisogna trattare dei soggetti di carattere; qui è la fonte della buona commedia; è di qui che il grande Molière ha preso l’avvio per arrivare poi a quel grado di perfezione che gli antichi ci hanno soltanto additato e che i moderni non hanno ancora raggiunto”.

BRIGHELLA: Caro sior Goldoni, buttemo le burle da banda e parlemo sul sodo. Le commedie di carattere le ha buttà sottossora el nostro mistier. Un povero commediante che ha fatto el so studio secondo l’arte de dir allo improvviso, trovandose in necessità de dover dir el premedità, bisogna che el ghe pensa, bisogna che el se sfatiga a studiar e che el trema ogni volta, che se fa una commedia nova dubitando de no saverla quanto basta, o de no sostegnir el carattere come xe necessario.

GOLDONI: Siamo d’accordo che questa maniera di recitare esiga maggior fatica e maggior attenzione, ma quanta maggior riputazione ai comici acquista?

BRIGHELLA: Ma quanta maggior riputazione ai comici acquista?

GOLDONI: Alle corte. Signor Brighella domani sera bisogna andar in scena colla commedia nova.

BRIGHELLA: Son qua! Muso duro, fazza tosta, gnente paura.

GOLDONI: Ricordatevi che non si recita più all’antica.

BRIGHELLA: E nu recitereno alla moderna.

GOLDONI: Ora si è rinnovato il buon gusto.

BRIGHELLA: El bon piase anca ai bergamaschi.

GOLDONI: Gli uditori non si contentano di poco.

BRIGHELLA: Vu fe’ de tutto per metterme in suggezion, e no fare’ gnente. Mi fazzo un personaggio che ha da far ridere. Se ho da far rider gli altri, bisogna prima, che rida mi, onde no ghe voi pensar. La sarà come la sarà, d’una cossa sola pregherò supplicherò la mia carissina, la mia pietosissima udienza: (al pubblico) Per carità per cortesia che se i me vol onorar de qualche dozena de pomi, invece che crudi, che i li toga cotti. (fischi e ortaggi in scena)

GOLDONI: In simili circostanze io non mi ribello mai contro gli spettarori, né contro i comici. Comincio sempre con l’esaminare a sangue freddo me stesso, e anche questa volta mi sono convinto che il torto è dalla mia parte.

(musica)

Scena Quinta

GOLDONI: Mortificato dalla caduta della mia commedia, mi proponevo di non rivedere più i comici, di non pensare più al teatro. Raddoppiai l’ardore delle mie occupazioni forensi e vinsi tre processi nello stesso mese. Eccomi comunque sempre più legato a una professione che mi procura al tempo stesso molto onore, molto piacere e un ragionevole profitto. Ma nel bel mezzo dei miei lavori e delle mie cure, una lettera da Venezia sopravviene a distrarmi e a mettere in agitazione tutto il mio sangue e tutto il mio spirito.

ARLECCHINO: So che Lei è a Pisa. So che la commedia è sempre stata la sua passione. Le domando comunque una commedia nuova di cui mi permetto di indicarle l’argomento ma sulla quale la lascerò libero di lavorare secondo il suo gusto. Il soggetto che le propongo è Il servitore di due padroni. Suo umilissimo amico Antonio Sacchi, detto Arlecchino. Post scriptum: rifletta sul partito che potrà trarre da un simile argomento…

GOLDONI: …E dall’attore che dovrà rappresentare la parte principale. Muoio dalla voglia di fare ancora prova di me stesso, ma non so come fare… Le cause, i clienti crescono a dismisura… Ma il povero Sacchi… Ma Il servitore di due padroni… Orsú, solo per questa volta… Ma no… Ma sì… infine rispondo, mi impegno, mi metto a scrivere.

Scena Sesta

ARLECCHINO: Fazzo umilssima reverenza a tutti i lor siori. Oh che bella compagnia! Oh, che bella conversazion!

GOLDONI: Chi seu amigo? Cossa comandeu?

ARLECCHINO: Chi ela sta garbata signora?

GOLDONI: La xe mia fia.

ARLECCHINO: Me ne ralegher.

GOLDONI: E per di più è sposa.

ARLECCHINO: Me ne consolo. E ella chi ela?

GOLDONI: (con voce femminile) Sono la sua cameriera, signore.

ARLECCHINO: Me ne congratulo.

GOLDONI: Oh via, sior, a monte le cerimonie. Cossa voleu da mi? Chi seu? Chi ve manda?

ARLECCHINO: Adasio, adasio, colle bone. Tre interrogazion in t’una volta l’è troppo per un poveromo.

GOLDONI: Voleu dir chi seu o voleu andar a far i fatti vostri?

ARLECCHINO: Co no la vol altro che che saver chi son mi in do parole me sbrigo. Son servitor del me padron. E cussi tornando al nostro proposito…

GOLDONI: Mo chi xelo el vostro padron?

ARLECCHINO: L’è un forestier che vorave vegnir a farghe una visita. Sul proposito dei sposi, discorreremo.

GOLDONI: Sto forester chi xelo? Come se chiamelo?

ARLECCHINO: Oh, l’è longa….

GOLDONI: Arlecchino!

ARLECCHINO: G’ho capio, parlo troppo. Ma se no i me vol perdonar per amor, i me perdonerà per forza. Perché ghe farò veder che son anca poeta, e qua, all’improviso ghe farò un sonetto:

Do patroni servir l’è un bel impegno.
E pur, per gloria mia, l’ho superà,
e in mezzo alle mazor difficoltà,
m’ho cava con destrezza e con ingegno.

Secondando la sorte el me desegno,
m’ha fatto comparir de qua e de là.
E averia sta cuccagna seguita’,
se per amor mi no passava el segno.

Tutto de far i omeni xe boni,
ma con Amor l’inzegno no val gnente
e i piu bravi i deventa i più poltroni.

Per causa de Cupido impertinente,
no so più servitor de do patroni,
ma sarò servitor de chi me sente.

Scena Settima

GOLDONI: Devo ora rendere conto ai miei spettatori del perché, nel 1748, per un colloquio che ebbi con l’impresario Medebac, rinunciai allo stato di avvocato, che avevo abbracciato per tre anni e ripresi il sentiero abbandonato.

IMPRESARIO: Ci sono a Venezia due teatri di commedia, io mi impegno d’averne un terzo, e di prenderlo in affitto per cinque o sei anni, se volete farmi l’onore di lavorare per me.

GOLDONI: Non ci volevano sforzi per farmi inclinare dalla parte del teatro. Ringraziai il direttore della fiducia che mi accordava e accettai la proposta. Veniamo agli accordi e il contratto fu stipulato senza indugio. “Non me ne rincresce. Forse in qualsiasi altra professione troverei più agi, ma certo meno soddisfazioni. Sono contentissimo del mio stato e degli accordi da me stipulati. Le mie commedie sono accettate prima di essere lette. Sono pagate prima dell’esito. Una sola rappresentazione mi vale per cinquanta. Se impiego più attenzione, più zelo nelle mie opere per farle riuscire, è l’onore che mi incita alla fatica, e la mia ricompensa è la gloria.

Alla fine di luglio diedi all’impresario una terza commedia ma riservai la prina recita dei miei nuovi lavori per Venezia. Non avevo rivali da combattere, ma avevo difficoltà da sormontare. Gli amatori della vecchia commedia, vedendo che la commedia premeditata di carattere faceva dei progressi così rapidi proclamavano dappertutto che era una cosa indegna per un italiano far guerra alla Commedia dell’Arte, un genere di teatro in cui l’Italia si era segnalata e che nessuna nazione aveva saputo imitare.

Ma ciò che faceva ancor più impressione era la soppressione delle maschere che avevano divertito

l’Italia per due secoli e che la mia riforma pareva minacciare.

La maschera finisce sempre per fare molto danno alla recitazione dell’attore, sia nella gioia sia nel dolore. Oggi si vuole che l’attore abbia un’anima, e l’anima sotto la maschera è come il fuoco sotto la cenere.

Ecco perché io avevo concepito il disegno di riformare le maschere della commedia italiana dell’arte e di sostituire le farse con delle commedie.

Scena Ottava

GOZZI: Il signor Goldoni ebbe una sola ragione efficace di abbandonare e perseguitare la Commedia dell’Arte. I soggetti da eseguire all’improvviso dai comici, i cosiddetti canovacci, gli fruttavano tre soli zecchini per ciascheduno. Le commedie interamente scritte gli fruttavano trenta zecchini. Di forse dieci commedie, ch’egli componeva all’anno, due sole avevano fortuna, ma queste due con le altre otto cadute, costavano ai ciechi suoi comici ben trecento zecchini, prezzo desolatore delle umili ricolte di una compagnia. Le sue commedie sono oggidì inutili capitali ai comici, mentre i suoi sopra accennati soggetti all’improvviso sono ancora utilissimi capitali. Ma passiamo oltre.

GOLDONI: I primi anni della mia riforma passarono senza che alcuna critica fosse venuta ad interrompere il mio stato di tranquillità. Poi, i perdigiorno, nei periodi in cui erano privati del divertimento de teatri si scatenarono e diedero alla luce dei libelli contro di me e contro i miei comici.

GOZZI: O vergogna del secol cornuto! Che più si doveva attendere per accendersi d’un onesto sdegno in difesa del secolo, degli studi, e del costume? Io mi recai nel mio stanzino terreno e qui disegnai quella operetta di pochi fogli intitolata La Tartana. Non aveva posto il nome del suo scrittore ma i pesciolini sapevano ch’ella era di Carlo Gozzi. Se ad alcuno mancasse di saperlo, suonisi la tromba, si raduni il popolo. Sappiasi che la Tartana è di Carlo Gozzi, sì, di Carlo Gozzi.

GOLDONI: Per quanto mi riguarda non nominerò mai le persone che hanno cercato di farmi del male.

Ho veduta stampata una Tartana
piena di versi rancidi sciapiti,
versi da spaventare una befana.

GOZZI: Si svelenò, contro la mia Tartana, con una sua schidionata di dozzinali terzine.

GOLDONI: Versi dal saggio imitator conditi
col sale acuto della maldicenza,
pieni di falsi sentimenti arditi.

GOZZI: Se non si fosse degnato di considerarlo, o l’avesse sorpassato, da quello scherzo che era, non avrebbe acceso una controversia che fu certamente dannosa a suoi interessi.

GOLDONI: Vo cercando le rime e i sentimenti
delle oneste persone e gli scrittori
cerco imitar che piacciono alle genti.

GOZZI: Scoperto attentato da parte del signor Goldoni, scrittore di versi in vero il più infelice che avesse l’Italia giamnai.

GOLDONI: Ma conceder si può questa licenza
a chi in collera va colla fortuna,
che per lui non ha molta compiacenza.

GOZZI: Io non voleva che allettare e far ridere alle spalle di quell’onest’uomo, ma cattivo scrittore; così finsi una sua lettera a me diretta, scritta comicamente in caricatura, con tutti i termini e le frasi che accostumano gli avvocatucoli nel loro contestare i litigi, colla quale mi spediva le sue terzine da esaminare. Inventai che egli intitolasse cotesta sua favata Scrittura contestativa al taglio della Tartana e terminava l’operetta mia chiedendo in grazia, per lui, al pubblico l’esenzione di scrivere composizioni poetiche.

GOLDONI: Tu dunque hai degli inimici, dirà taluno. E chi non sa che ne ho purtoppo? E di quelli ne ho, che mossi non sono né da ragione, né da interesse, né da politica, né da soggezione, ma nemici sono o per effetto di antipatia, o per naturale disposizione di un animo portato all’odio.

GOZZI: Le controversie si scaldano, e dal canto mio, certamente sempre ridendo, non mancherò di svelare gli immensi difetti nella condotta, nei caratteri, nei costumi, nella maniera triviale del linguaggio, nell’operare di questo poeta. Monsieur, a plus tard!

Fegeio delle satire si ride!
Fegeio delle satire n’ha rabbia! (parte)

Scena Nona

GOLDONI: Critiche? Frascherie, pane quotidiano non critiche. Fo il mio dovere e aspetto a pie’ fermo nell’arringo il nemico. Ma il pubblico? Il pubblico a volte è ingrato, dimentica facilmente ciò che lo ha divertito e non perdona quando lo si è annoiato. Ed è per questo che negli ultimi giorni di carnevale ci toccò di vedere i palchi disdetti per il prossimo anno. Sentendomi offeso dal cattivo umore del pubblico e avendo ancora la presunzione di valere qualche cosa preparai il complimento di chiusura all’anno comico 1749-1750:

St’ altr’anno seguirà,
e ve zuro, signori , e ve protesto,
st’altr’anno se farà assae più de questo.

Lassemo a lu l’intrigo,
el poeta ha ditto de far gran novità,
e quando che el l’ha ditto, el lo farà.

E osservando da scaltro
ch’el pubblico va drio alle novità
tutte commedie niove el produrrà.

E se ghene farà,
se la fantasia no vien al manco,
una alla settimana per el manco.

M’impegno dunque a dare nel prossimo anno sedici commedie nuove. Otto giorni dopo tutti i palchi furono affittati di nuovo.

Scena Decima

GOLDONI: Da Il Teatro Comico, la prima delle sedici commedie che l’autore si era impegnato a scrivere per l’anno comico 1750-51. Commedia, piuttosto che commedia, prefazione alle mie commedie e teorizzazione scenica di tutta la opera mia. Lungi da me la pretesa di erigermi a maestro, ma signori miei, da piú di un secolo nella nostra Italia il Comico Teatro, si è reso abominevole oggetto di disprezzo alle oltrermontane nazioni. Non corrono sulle pubbliche scene se non sconce arlecchinate, laidi e sconci amoreggianenti e motteggi, favole mal inventate e peggio condotte, senza costume e senza ordine. Io non intesi di dar nuove regole altrui ma solamente di far conoscere, che con le lunghe osservazioni, e con esercizio continuo, son giunto al fine di aprire una nuova via al teatro comico perché questa è la grande arte del comico poeta, attaccarsi e copiar in tutto alla natura, e non iscostarsene giammai. E infin vi dico che:

se il popol ride, e lieto applaude,
il comico sarà degno di laude.

Dimostrerò adesso allo spettabile pubblico come istruii comici propensi a lavorare solo per la cassetta, abituati ad eseguire unicamente cattivi caratteri e intrecci scurrili, i quali anziché correggere il vizio, che è il primario e pur nobile oggetto della commedia, lo fomentavano per riscuotere risa dalla ignorante plebe, dalla gioventú scapestrata e dalle genti piú scostumate, come istruii i comici dunque alla commedia premeditata di carattere.

Perché il pubblico italiano oggi vuole molto di piú. Vuole che il carattere principale sia forte e originale; che quasi tutte le persone, che formano gli episodi, siano altrettanti caratteri; che l’intreccio sia fecondo di accidenti e di novità. Vuole la morale mescolata con i sali delle arguzie e con il pepe delle facezie. Vuole il finale inaspettato ma ben originato dalla condotta della commedia. Vuole tante infinite cose, che troppo lungo sarebbe il dirle, e solamente con l’uso, colla pratica e col tempo si arriva a conoscerle e ad eseguirle. Tempo e pratica che in me divengono esperienza e abitudine che mi hanno fatto acquistare tanta familiarità con l’arte della commedia che, immaginati i soggetti e scelti i caratteri, il resto non è per me che un lavoro meccanico.

Prima di arrivare alla costruzione faccio quattro operazioni. La prima: il piano con la divisione delle tre parti principali: l’esposizione, l’intrigo e lo scioglimento. La seconda: la divisione dell’azione in atti e scene. La terza: il dialogo delle scene più interessanti. La quarta: il dialogo generale di tutta la commedia.

Ma ormai sono arrivato a ridurre le quattro operazioni ad una sola. Quando ho il piano e le tre divisioni in testa comincio subito: “Atto prino, scena prima” e vado fino alla fine, cioè allo scioglimento dell’azione, in genere quando tutti si sposano e vivono felici e contenti.

Raramente mi sono ingannnato negli scioglimenti. Posso dirlo con coraggio, perché tutti me lo hanno detto, e la cosa non mi pare neppure difficile. È facilissimo avere un buon scioglimento quando lo si è preparato bene al principio della commedia, e non lo si è mai perduto di vista nel corso del lavoro.

Ma per mostrare dunque come istruii i miei comici a questa nuova concezione dell’arte della commedia ho bisogno della collaborazione dello spettabile pubblico. Immagino che in sala ci sia sicuramente qualche dolce fanciulla che da grande, per così dire, vorrà entrare in arte, come si dice in gergo, ovverosia intraprendere il mestiere di attrice di prosa. (soggetto, nel gergo del teatro all’antica italiano: breve improvvisazione)

Signorina potete accomodarvi sul palcoscenico. (soggetto) Ora noi vi daremo alcuni semplici consigli per il vostro futuro mestiere.

Scena Undicesima

GOLDONI: Leggete, leggete pure.

ELEONORA: Serva, signor Orazio.

GOLDONI: Riverisco la signora virtuosa.

ELEONORA: Non mi mortificate d’avvantaggio. So benissino che con poco garbo mi sono a voi presentata. Ma vorrei farvi vedere smentita la massima di chi crede che le femmine del teatro siano poco ben costumate.

GOLDONI: Me ne rallegro perché nella nostra conpagnia non solo è bandito qualunque reo costume nelle persone, ma ogni scandalo dalla scena. Più non si sentono parole oscene, equivoci sporchi, dialoghi disonesti. Nel nostro teatro più non si vedono lazzi pericolosi, gesti scorretti, scene lubriche, di mal esempio. Vi possono andar le fanciulle senza timor d’apprendere cose immodeste o maliziose.

ELEONORA: Orsù, io voglio esser comica e mi raccomando alla vostra assistenza.

GOLDONI: Raccomandatevi a voi medesima; vale a dire, studiate, osservate gli altri, imparate bene le parti, e, sopratutto se vi sentite fare un poco di applauso, non vi insuperbite, e non vi date subito a credere di essere una gran donna. Se sentite battere le mani, non ve ne fidate. Molti battono per costume, altri per passione, alcuni per genio, altri per impegno, e altri ancora perché sono pagati dai protettori… Signora Eleonora, le presento il signor impresario.

ELEONORA: Serva umilissimla.

IMPRESARIO: Brava, brava! Vedrai che ti farai onore, continuate, continuate pure. Fate come se io non ci fossi.

GOLDONI: …stavo dicendo: e altri ancora perché sono pagati dai protettori.

ELEONORA: Io protettori non ne ho e mi raccomando a voi.

IMPRESARIO: (interrompendo) Le visite dei maschi che hanno un nome deciso di voluttuosi e di corsari di Venere, sieno palesi od occulte, si sanno sempre, perché le persone teatrali son maliziose, e basta poco a porre una giovine attrice comica in cattiva luce. Ma bravi, bravi, continuate, continuate. Fate come se io non ci fossi.

ELEONORA: Ma non volete nemmeno provarmi se sono capace di sostenere il posto che mi date?

GOLDONI: Prego, affinché io mi assicuri della vosta abilità.

ELEONORA: (declamando) Perfido Amor? Chi è che d’amor favella…

IMPRESARIO: (interrompendo) Il mestiere teatrale è maledetto! Avrete sempre intorno dei diavoli che vi tormenteranno nella vostra debolezza. Viziosi che cercheranno di sbalordirvi promettendovi argenterie, gioie, tavolette magnifiche e di alterarvi il cervello. Ma brava, brava, continuate, continuate. Fate come se io non ci fossi.

GOLDONI: Prego, signora.

ELEONORA: (declamando) Perfido Amor? Chi è che d’amor favella
con sì poco rispetto e ingrato tanto?
Del vero Amor no, non conosce il vanto
chi lui tiranno e menzognero appella.

GOLDONI: Basta cosi, grazie.

ELEONORA: Perché, recito tanto male?

GOLDONI: No, per una principiante siete passabile. La voce non è ferma, ma questa si fa con l’uso di recitare. Badate bene di battere le ultime sillabe, che s’intendano. Recitate adagio ma non troppo, e, nelle parti di forza, caricate la voce e accellerate più del solito le parole. Guardatevi, soprattutto, dalla cantilena e dalla declamazione, ma recitate naturalmente, come se parlaste, mentre, essendo la commedia una imitazione della natura si deve fare tutto quello che è verisimile…

IMPRESARIO: (interrompendo) Bravo, bravo. Perche la maggior parte delle attrici occupano quasi tutto il giorno alla tavoletta, allo specchio, nell’attaccar merletti, rinnovar nastri, cambiar veli, studiare l’armonia dei colori, e simili faccende. Armi utili per la scena ma che, divenendo occupazione principale, vi aiutano solo a desolare il vostro già scarso onorario e vi mettono nella necessità di aver bisogno di protettori liberali e voluttuosi. Ma prego, signor Goldoni, continuate, continuate. Fate come se io non ci fossi.

GOLDONI: Circa al gesto, anche questo deve essere naturale. Muovete le mani secondo il senso delle parole. Gestite per lo più con la dritta, e poche volte con la sinistra, e avvertite di non muoverle tutte e due in una volta, se non quando un impeto di collera, una sorpresa, una esclamazione lo richiedesse.

IMPRESARIO: Bravo, bravo… continuate, continuate. Fate come se…

GOLDONI: D’un’altra cosa voglio avvertirvi. Quando un personaggio fa scena con voi, badategli, e non vi distraete con gli occhi e con la mente. E non guardate qua e là per le scene e per i palchetti, perché da ciò nascono tre pessini effetti. Il primo che l’udienza si sdegna. Secondo, si commette una mala creanza verso il collega. E per ultimo, quando non si bada al filo del ragionamento, arriva inaspettata la parola del suggeritore e si recita con poco garbo e senza naturalezza. Signor Impresario, desiderate dire qualcosa?

IMPRESARIO: (si schernisce)…

GOLDONI: Suvvia, parlate.

IMPRESARIO: Bravo, Goldoni, bravo. I nostri comici non hanno per guida che l’avidità di denaro. Una scuola di finzione che hanno fin da piccolini li ammaestra per modo alla falsità ch’è necessaria una grande acutezza per rinvenire il vero nei cuori loro. Siete sincera, voi?

ELEONORA: Sì.

IMPRESARIO: Brava, brava.

ELEONORA: Vi ringrazio dei buoni consigli che voi mi date; e procurarò di metterli in pratica.

IMPRESARIO: Quando siete in libertà e che non recitate, andate agli altri teatri. Osservate come recitano i buoni comici, mentre questo è un mestiere che s’impara più con la pratica, che colle regole.

ELEONORA: Anche questo non mi dispiace.

GOLDONI: Un altro avvertimento voglio darvi, signora Eleonora. Siate amica di tutti, e non date confidenza a nessuno. Se sentite dir male dei compagni, procurate di metter bene. Se vi riportano qualche cosa che sia contro di voi, non credete e non badate loro. Circa alle parti, prendete quello che vi si dà. Non crediate che sia la parte più lunga quella che fa onore al comico, ma la parte buona. Siate diligente; venite presto al teatro, procurate di dar nel genio a tutti, e se qualcuno vi vede malvolentieri, dissimulate. L’adulazione è vizio, ma una savia dissimulazione è sempre stata virtú.

IMPRESARIO: Bravo, Goldoni, bravo. Sipario.

GOLDONI: Dite pure la vostra ultima battuta, di grazia.

ELEONORA: Il signor impresario e il signor autore drammatico mi hanno dato dei grandi avvertimenti. Sono loro obbligata. Procurerò di valermene al caso, e giacché mi sono eletta questa professione, cercherò di essere, se non delle prime, non delle ultime almeno.

GOLDONI: Vada pure, signora. E non dimentichi di passare dal signor impresario per la firma del contratto.

IMPRESARIO: Brava, brava. È una promessa…

GOLDONI e IMPRESARIO: (insieme) Fine dell’atto primo.

IMPRESARIO: Caro maestro, dopo di voi.

GOLDONI: Non mi permetterei mai.

IMPRESARIO: Bravo Goldoni, bravo.

FINE DELL’ATTO PRIMO