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il sublime rovesciato: comico umorismo e affini

Copertina Numero 04

 aprile 2012

Testi

Alberto Fortuzzi

Memorie e inutili messe in scena per umiltà – atto secondo (con la collaborazione di Carlo Lazzerini)

atto secondo

Scena Prima

GOZZI: Ho la fortuna di non essere né scrignuto né zoppo né cieco né guercio. Questo è quanto credo di sapere e di poter dire della mia macchina corporea, avendo lasciato la briga alle femmine di dirmi bello per lusingarmi e di dirmi brutto per farmi rabbia. Escluso sempre il suicidio da me aborrito, se ho in dosso qualche vestito di taglio moderno, è opera del sartore e non mai della mia ordinazione. L’acconciatura dei miei capelli è sempre della forma desiderata con una costanza eroica e non voglio giammai sviato un pelo della mia solita pettinatura. I poco parlatori e assai pensatori, come verbigrazia son io, se concentrati nei loro pensieri, prendono il vizio di incrocicchiare le ciglia per maturarli, il che da loro un’aria brusca e spesso anche truce. Bench’io abbia l’animo sempre allegro, come si può rilevare da’ scritti miei, il vizio del corrugare la fronte, dell’aggrottare e incrocicchiare le ciglia, unito alla mia taciturnità, al mio passo lento e al mio cercare passeggi solitari, mi fa giudicare da molti un uomo serio, burbero, impraticabile e forse anche cattivo. Non sono avaro perch’ho a schifo il peccato dell’avarizia, e non sono prodigo, forse soltanto perché non sono ricco. Forse potrei trarre qualche utilità pecuniaria dal diluvio degli scritti miei, ma li dono ognora a comici, a librai o a coloro che facendoli uscire dalle stampe al pubblico sperano di far quel guadagno ch’io sempre ricusai di fare per me. Oltre a ciò non v’è peggior avvilimento in Italia per gli scrittori di quello dello scrivere prezzolato per i teatri dei nostri miserabili comici. Apollo guardi un poeta, e voi sapete di chi parlo, dal ridursi a scrivere prezzolato per una truppa de’ nostri comici. Non v’è forzato alla galera più schiavo di lui, non v’è facchino che porti il peso ch’egli porta e non v’è asino che soffra maggiori punzecchiate e villanie grossolane di lui. Io non ho rimorsi di aver macchiata mai la sublime immagine che io conservo della letteratura col prezzolarla vilmente, mentre il signor Goldoni trascinato dalla necessità di scrivere servilmente troppe opere, espone sul teatro tutte quelle verità che gli si parano dinanzi, ricopiate materialmente e trivialmente e non imitate dalla natura, né coll’eleganza necessaria ad uno scrittore. Moltissime sue commedie non sono che un ammasso di scene, le quali contengono delle verità tanto vili goffe e fangose, che quantunque abbiano divertito anche me medesimo, non seppi mai accomodare nella mia mente che uno scrittore dovesse umiliarsi a ricopiarle nelle più basse pozzanghere del volgo, ne’ come potesse aver l’ardire d’innalzarle alla decorazione di un teatro, e soprattutto come potesse aver fronte di porre alle stampe per esemplari delle vere pidocchierie. Narraci, amatissimo Goldoni, perché vuoi tu, che si rispettino le tue commedie che uscirono da quei torchi. Per beare e insegnare ai futuri scrittori? O perché elle chiamarono gran folla al teatro, il plauso fu grande, e furono richieste co’ fischi, e col rombazzo del picchiare? Mal ti lusinghi Fegeio se a ciò ti puntelli.

O putti da buon tempo o compagnoni,

metti il Goldoni al naturale in scena,

e, per Bacco, ti fai ricco per la piena.

Era do carnovale, e il freddo metteva il battito alle polpe, faceva arricciar nasi, e ravviluppare mantelli. I Granelleschi, faceti accademici, si erano radunati alla Osteria del Pellegrino in buon numero. Essi stavano in parte sorseggiando, parte riaccendendo il fuoco, parte stuccicandosi co’ steccadenti tra le gengive, parte affacciati con le pipe alle finestre che guardano la piazza S. Marco, discorrendo de casi degli uomini e delle bestie. Come dalle cavicche sturate l’acqua sgorgava il popolo nella piazza. Infinite erano le maschere. Assordavano gl’invitanti a’ ballerini di corda, le pive de’ fracurradi, gli strumenti della Mora e della Rossa, canterine di quel teatro. Quand’ecco giungere nella piazza un mostro, che dalle torme fu tenuto per una addottrinata maschera, ma da’ Granelleschi fu tenuto per quello che egli era veramente, ed eccovi la pittura. Il corpo era d’uomo. La statura bassa, e grossa, e goffa oltremodo. Le vestimenta erano cangianti. Nuova e strana cosa era il capo, poiché aveva quattro facce, con quattro bocche, quattro nasi e otto occhi, uno di vista certa, tre cispi, quattro arrovesciati, e per tutte le quattro bocche ragionava. I discorsi venivano da un cervello solo e picciolino, come che la zucca fosse assai grande, e tale che si sarebbe potuta chiamare zuccone, e quanto agli orecchi erano due soli, lunghissimi e pengiglianti. Non vi direi in tre anni i discorsi che faceva al popolo che gli si affollava d’intorno con quelle sue quattro bocche. Con una contraffaceva il Pantalone, il Dottore, il Brighella e il Truffaldino con poca grazia e con molta disonestà. Il popolo faceva, nel principio un gran picchiare di mani a tanta novità, ma perché nel costume i popoli si cambiano, a poco a poco cominciava la noia e lo sbadigliare, ed era abbandonato. E così, all’apparire della noia, riapriva la prima bocca, la quale riusciva come nuova, poi la seconda, poi la terza, poi la quarta, e con questa dottrina, la quale nulla concludeva, insegnava scostumatezze, teneva le persone intronate e meravigliate come ipnotico mostro o chimera. L’uomo picciolo e grosso, dalle quattro bocche ridenti, s’avviò all’Osteria, ed entrò nella stanza de’ Granelleschi, non senza gran difficoltà per l’inondazione di popolo che volea seguitarlo. Gli Accademici non erano avvinazzati ma allegri. Il mostro ci salutò.

MOSTRO: Compagnia brillante, io vi son servo.

GOZZI: Sospettammo chi fosse, e più si sospettò quando il mostro veggendo il Solitario Accademico, ossia me, impallidì nelle labbra di tuttequattro le bocche, e volta la schiena volle andarsene dond’era venuto.

Scena Seconda

GOZZI: Non la passerete liscia, Messere! !

MOSTRO: Aita! Aita! Accorruomo! O mi lasciate andare o mi appellerò al popolo!

GOZZI: Chi se’ tu nella malora?

MOSTRO: Io sono il Teatro Comico.

GOZZI: Di qual clima?

MOSTRO: Dell’Italia.

GOZZI: Di chi sei tu figliuolo?

MOSTRO: Io sono figliuolo di quel terribile Polisseno Fegeio, nuovo Terenzio de’ tempi nostri, del Molière dell’Italia, del riformatore delle commedie, di quel fertilissimo ingegno, regolato scrittore e poeta nell’uno e nell’altro sesso.

GOZZI: Che vogliano noi fare di questa chimera?

MOSTRO: Che chimera o non chimera? Io sono persona da rendere pan per focaccia. Sosterrò la dottrina, le massime e l’opere mie, contro te, autorello affettato da pochi fogli.

GOZZI: Deh, va’ in pace va’, aprite l’uscio, deh va’! Non meriti più che una risoluta beffa colle fischiate.

MOSTRO: Or bene dappoche personcine, scrittorelli di frascherie da bambini, stiticucci, componitori di sonettini, intendenti delle poesie rancide e muffate e stantie. Chi è che voglia convincermi nella mia dottrina impareggiabile trionfante per tutte l’orbe? Chi è?

GOZZI: Or ti sta e mi rispondi! Di su: è poeta tuo padre?

MOSTRO: Oh ve, dimanda sciocca!

GOZZI: Sta fermo. L’uomo poeta qual è?

MOSTRO: O matto. Colui che scrive Poemetti, canzoni, sonetti, capitoli e commedie come il padre mio.

GOZZI: L’educazione e lo studio fanno il poeta di conto e io son certo, che infiniti uomini nati poeti son morti senz’essere poeti per mancanza di scola, essendo questa nostra macchina corporea infruttuosa se non è dirozzata, ammaestrata, battuta, e se non ranca e suda.

MOSTRO: Tu vorresti entrare nel sottile confondermi ma non ne sarà nulla. Il padre mio è nato poeta, ed è stato alla scola, scrive poesie a sacca, onde i tuoi raggiri non valgono un pistacchio.

GOZZI: Se tu lo vuoi, io ti farò fare un attestato con giuramento da’ migliori scrittori d’Italia, che il padre tuo è uno scrittore da bandi. Egli medesimo ha pubblicato volontariamente la sua magagna nel bel poema La tavola rotonda con quei due versacci:

Purtroppo io so che buon scrittore non sono

e che ai fonti miglior non ho bevuto.

Or non è bella questa, che vuol far poemi ed è cattivo scrittore? Egli ci ammorba poiché non fu mai poeta ma medico, assessore, avvocato, console onorario…

MOSTRO: Basta, basta, io non voglio ora ingolfarmi a difendere il padre mio quanto alla poesia. Io sono il teatro comico, antemurale, prefazione, massima, riforma, regola infallibile di tutte le opere da me esposte e che esporrò sulle scene d’Italia, e intendo essere maestro a tutti coloro che vorranno da ora innanzi scrivere per il teatro italiano.

GOZZI: Se’ il più bel matto che viva! E ti dico di più, che anche l’idea che hai degli autori drammatici è così vigliacca che ci fa chiara fede della tua grandezza.

MOSTRO : Perché mi di’ tu questo, impertinentissimo?

GOZZI: Proprio nell’omonima tua commedia “Il teatro comico“ vai rinvilendo quel Lelio poeta fino al punto che, essendo invitato dal Capocomico a pranzo, per carità, gli fai dire: “Riceverò le sue grazie, perché questi appunto sono gli incerti dei poeti”.

MOSTRO: Vorrei che tu intendessi che quel Lelio poeta l’ho posto per un componitore delle vecchie commedie che io intendo sopprimere colle mie della nuova riforma, come per grazia di Apollo ho fatto con universale applauso.

GOZZI: Di’ piuttosto che ti sei posto innanzi un nimico da vincere per poterti imporre e menar tonda la mazza a tuo beneplacito. Eccoti un dialogo di commedia che gli metti nella penna per farlo comparire un cattivo poeta di commedie.

Uomo: Tu sorda più del vento

non odi il mio lamento

Donna: Già vammi lontano

insolente qual mosca e qual tafano.

Uomo: Idolo mio diletto

abbiate compassione.

Donna: Quanto più voi mi amate

tanto più mi seccate,

Uomo: Barbaro core ingrato…

Donna: Va pur amante insano,

già tu mi preghi invano.

Uomo: Sentimi o donna o dea.

Uomo: Fermati, o cruda Arpia;

non far di me strapazzo.

Donna: Non sperar da me pietà,

che pietà di te non ho.

Uomo: Se pietà da me non ho

disperato morirò.

Parti questo un dialogo da commedia? Tel nego, e solamente so che tu t’affatichi a far credere nuove le cose tue a’ sciocchi, perché sai che il popolo corre dietro alle novità.

MOSTRO: Oh, questa sarebbe da ridere, che tu dicessi che le mie commedie non son nuove di colpo.

GOZZI: : E io sostengo che in moltissime delle tue commedie ci stanno inchiodate delle commediacce dell’arte vecchie che tu vuoi morte, rovesciate come un paio di vecchie brache.

MOSTRO: Mala lingua ti piglierò alle strette, e ti farò diventare piccino piccino. Vuoi tu, che le commedie, le quali si facevano prima delle mie fossero peggiori, o migliori di quelle che fo io? Rispondi.

GOZZI: Per le regole che tu le componi, e per le regole che erano composte quelle stanno tutte a una bilancia.

MOSTRO: Per quali regole erano composte le prime?

GOZZI: Per quelle di chiamar la gente, e per ingravidare la cassetta della porta.

MOSTRO: E le mie?

GOZZI: Per le medesime, e non per altro.

MOSTRO: E tu non concedi miglioramento dunque?

GOZZI: A ragionarti sincero, piuttosto intendo, che ci sia un peggioramento.

MOSTRO: Eh, va via matto! E io ti dico, che questo mio è studiare la natura e che più bello studio non può fare per fare buone commedie.

GOZZI: So benissimo che vai cantando esser poeta della natura, ma sappi che nelle tue minestre c’è solo la natura carnale e materiale, e non la natura dello spirito elevato e le dai a rappresentare e vuoi che le consideriamo come esatte commedie, e buone composizioni poetiche, e sono gagliofferie, mentre quelli che ci rappresentano le commedia dell’arte, confessano, che sono fanfaluche per divertirci, e così l’umiltà in confronto alla matta prosunzione ci fa gradite più quelle dell’arte che le tue.

MOSTRO: Tu m’hai stracco, e non mi lasci mai ragionare ma io ti voglio dire che ho lette tutte le commedie che furono scritte da Adamo in qua.

GOZZI: L’ha lette per disprezzare le buone e le cattive, per rubare da quelle e da queste delle imbeccate e per predicare che le tue sono migliori di tutte.

MOSTRO: È verissimo e dissi bene!

GOZZI: Sino a che cercherai di appagare solamente il popolo come fai, con dialoghi sfasciati raccolti per le vie, per le botteghe, per campielli, pe’ bordelli, per le osterie, a Venezia, a Napoli, a Roma, a Turino, a Bologna, in Turchia, nella Cina, innestandoli con le cene, con le barche, con le feste da ballo, non ripurgandoli dalla lascivie, dalle bassezze, dalle lordaggini e dal costume corrotto, tu, battezzale commedie quanto vuoi, io t’appellerò sempre impostore, innovatore di buffonerie, sconcacatore d’immondezze ammassate, e sosterrò quello che dissi, che tu componi, anzi, impiastricci per le regole delle Commedie dell’Arte, che sono quelle di chiamare la gente a teatro, e d’ingravidare la cassetta dell’uscio .

MOSTRO: Io non dissi solo: “Il pubblico italiano vuole molto di più”, ma soggiunsi: “vuole che il carattere principale sia forte e orig….”

GOZZI: Lo sappiamo, lo sappiamo. Lo abbiano già udito nello sproloquio del padre tuo nel primo atto.

MOSTRO: E allora? Io sono giunto ad eseguire tutte quelle gran cose che dissi, ed a piacere agli Italiani.

GOZZI: Per le tue salate arguzie e pepate facezie ti dico solo che lascio che si mangino in pace le lasagne sciocche, chi le trova saporite, e del tuo fine inaspettato e ben originato dalla condotta della commedia, mi vergogno a parlartene perché questo si vede, normalmente, dal calar del sipario.

MOSTRO: Questo tuo non è convincere, ma sopraffazione, maldicenza e strapazzo.

GOZZI: Eccellentissimo pubblico, consolazione nostra io vi dico essere tanto indanaiato e incrostato il teatro ch’io veggio ormai impossibile il risanarlo. Un solo rimedio vi scorgo e sarebbe questo. Di bandire le commedie dell’arte e le nuove ugualmente, e chiudere i teatri per tre o quattro anni, per far venire una gran fame al popolo di vedere il teatro di nuovo apporto. Ma voi vedete che questa mia è ricetta impossibile e temo che averemo a soffrire sempre maggiormente che dove la commedia dovrebb’essere un’utile insegnamento, e correttrice de’ mali costumi, ella allettando gli spettatori con perniciosi esempi, riduca il mondo un bosco di ladroni, di traditori, di sfrenati, di miscredenti, di lussuriosi, i quali usciti appena dal teatro, riscaldati dalle cose udite, e vedute, vadino ad isfogare con brutalità la loro natura, per se medesima inclinata al male, solleticata, e spinta al peggiore. (parte)

Scena Terza

MOSTRO: Io cercavo delle critiche e non mi imbatto che nella ignoranza e nell’animosità. Ma ascoltami eccellente pubblico. Noi gente di teatro, per vendicarci non abbiamo altro mezzo che gli applausi meritarci. E per mettere in atto la mia vendetta e per scordarci anche un poco di questa noiosa polemica, di queste Memorie inutili messe in scena per umiltà, vi parlerò d’amore e mi direte voi se Goldoni predica il vizio e la lussuria e se non è anche lui, ingenuamente, di tanto in tanto, un fiantinin poeta.

Dai dies’anni sin ai disdotto

ho fatto l’amor co fa i colombini,

girando intorno la colombina,

ruzando pian piano sotto ose,

e dandoghe qualche volta una beccadina innocente.

Dai disdotto sin i vinti quattro

ho fatto l’amor co fa i gatti

a forza de’ sgraffoni e de morsegotti.

De vintiquattro me son maridà,

e ho fatto come i cavai da posta:

una corsa d’un ora, e una reposada d’un zorno.

Adesso che son vecio

me tocca a far come i cani,

una snasadina e tiro de longo.

Scena Quarta

GOLDONI: E chi ha preso il gusto del teatro una volta non può staccarsene finché vive. Ma il tempo è pericoloso. Ahimé! In questo momento mi prende una violenta palpitazione… è ormai un mio incomodo abituale. Non mi è possibile continuare..

GOZZI: Cosa avete, non vi sentite bene?

GOLDONI: Continuate voi di grazia, a me non è possibile.

GOZZI: Ma perché forse cento consimili mie composizioni di argomenti scherzevoli, come quella che avete appena veduto rappresentata che si intitola Il teatro comico all’osteria del Pellegrino, tra le mani degli Accademici Granelleschi con le quali sono un vero martirio a quel buon uomo, sono pur chiamate con disprezzo da lui frivole e incurabili maldicenze, uscite dall’animo di un uomo torbido invidioso e cattivo, e perché egli citava sempre il concorso del pubblico per autenticità del merito delle sue teatrali produzioni, espressi un giorno che il concorso di pubblico in un teatro non decideva che le opere sceniche sue fossero buone, e che io mi impegnavo e di cagionare maggior concorso delle sue orditure con la fiaba del L’Amore alle tre Melaranze, racconto delle nonne a lor nipotini, ridotta a scenica rappresentazione. Ridete increduli beffeggiatori, io donai e non vendetti il mio tentativo di nobile vendetta, cagionando un’allegra rivoluzione strepitosa e una diversione cosi grande nel pubblico, che Goldoni vide, come in uno specchio la sua decadenza…

GOLDONI: Conte!

GOZZI: Cosa c’è?

GOLDONI: Ma basta!

GOZZI: Cossa xe questo basta?

GOLDONI: Mo vardé ben, che sie vecio anca vu.

GOZZI: Mi? Eh, già. Son vecio anca mi. Colto da improvviso malore punta al petto, mi sento finire. Sono pronto a tutto. Ma disime, sior Carlo, quella volta famosa delle sedese commedie tutte in un carnevale, come la xe finia?

GOLDONI: La xe finia che commedie com’el patto, tutte sedese g’ho fatto. E vu, con le vostre fiabe sceniche?

GOZZI: Ah, il pubblico sempre pianse e rise a modo mio, e corse in folla ad infinite repliche in enormi calche acclamatrici.

GOLDONI: Esagerato !

GOZZI: A mi?

GOLDONI: A ti.

GOZZI: Esagerato ti, che se’ andà fino a Parigi per far rifiorire il teatro italiano, e riformarlo anche là.

GOLDONI: Temerario, non esagerato, caro conte. Sono arrivà in Francia a cinquantatre anni e in capo a nove anni ho scritto una commedia per il primo teatro della nazione.

GOZZI: Ah, vu parlé del Bourru Bienfaisant! La me piase moltissimo, ma non la me piase miga perché la piacque a Parigi, la me piase perché la trovo ottima. Caro sior Carlo, non doletevi di quanto uscì dalla mia ingenuità frutto forse di un giudizio fallace. Scordatevi i sali e i tratti satirici…

GOLDONI: Ma io non son mica offeso.

GOZZI: Via, via non fate cosi. Ricordatevi che la satira, faceta e ragionevole, non fa che far noto, che quella persona, contro alla quale è diretta, fu un ingegno che ha meritato l’occupazione di un altro ingegno.

GOLDONI: Vi ringrazio umilmente.

GOZZI: Siete un vero galantuomo, sior Carlo, de quei della bona stampa.

GOLDONI: Ora non li stampano più così.

GOZZI: Come quelli dell’Accademia Granellesca, vecchi, cari amici. Oh, se la savesse che compagnia xe quella! Che sincerità! Che schiettezza! Che belle conversazion che s’ha fatto. Siei benedetti. Sette o otto galantuomeni, che no ghe xe i so compagni a sto mondo.

GOLDONI: Avete goduto molto con questi?

GOZZI: L’è che spero de goder ancora!

GOLDONI: Anca mi. Sior Conte, mi permetta. Quanti denti gh’aveu?

GOZZI: Cinque, tra sotto e sora.

GOLDONI: Eh, mi no ghe n’ho più.

GOZZI: No gh’ho miga gnancora i anni che gh’ave vu.

GOLDONI: Quanti xeli, compare?

GOZZI : Mi ghe n’ho sulla schena… squasi cinquantacinque.

GOLDONI: E con la coda.

GOZZI: Mi no me ne voi sconder.

GOLDONI: Presto el conto ve fazzo. Ve recordeu compare de quell’anno de la “Tartana”?

GOZZI: Si ben, me l’arecordo.

GOLDONI: No gierimo puteli.

GOZZI: Gierimo grandi e grossi.

GOLDONI: Fe el conto, quanti xeli?

GOZZI: Mi no voi far sti conti. Stago ben, magno ben, me cavo qualche voggia, quando che la me vien. Gh’ho dei anni xe vero, ma tanto ben li porto che no li sento gnanca. Xe vecchio chi xe morto.

GOLDONI: Anca mi son cussi. No sarà gnanca un mese, che i settanta ho fenio. Ne la lo crede Agnese.

GOZZI: Chi xela me sta Gnese? qualche vostra parente?

GOLDONI: No, la xe la mia serva. Una donna valente, che per el so paron se farave desfar, amorosa, paziente, che de tutto sa far. E no credess miga che la fusse avanzada. La xe zevene e bella. Cussi me l’ho trovada.

GOZZI: Son vegnu’ tante volte da vu, no l’ho mai vista.

GOLDONI: Vedeu? La xe modesta. No la se mette in vista.

GOZZI: Anca mi ghe n’ho una che, per Diana de dia, se i me dasse un tesoro, no la la baratteria. E la scuode, ela paga, ela fa alto e basso. Mi magno, bevo e dormo, vado se voggio a spasso. Ela me fa da mare, la me fa da sorella.

GOLDONI: Xela mo la vecchia assae?

GOZZI: La xe zevene e bella.

GOLDONI: La mia la dise che ghe paro un uomo de quaranta, e sì la se n’intende, per quel che la se vanta.

GOZZI: Senti’ la mia. La dise: mio caro sior paron – co me fazzo la barba – mo come che el par bon. El ciel lo benediga, el xe là fresco e bello, rosso co fa una riosa, lesto co fa un putello.

GOLDONI: Ho paura, compare, che la ve burla un poco.

GOZZI: Sì ben! Che la me burla! No so miga un aloco. Caro compare Carlo, chi xe meggio de nu? Mi no paro una spisima, come pare’ vu.

GOLDONI: Sì ben, un bel fagotto vu se’ tra carne e roba. Ma no so se el sia grasso, o pur se la sia boba.

GOZZI: Senti’, save’, sior vecchio…

GOLDONI: Schiavo, sior zovenotto.

GOZZI: Se no fussimo in strada . ..

GOLDONI: Se me secche’, debotto…

GOZZI: Bondì sioria.

GOLDONI: Bon viazo. Stassera a vostre spese, quando che ghe la conto, fazzo rider Agnese.

GOZZI: Anca mi alla mia Chiara ghe la voggio contar.

GOLDONI: Semo vecchi, compare.

GOZZI: Vu se’ ben da brusar.

GOLDONI: (a parte) Porto rispetto ai anni. Meggio è che vada via.

GOZZI: (a parte) Vecchio senza giudizio.

GOLDONI: Schiavo.

GOZZI: Bondì sioria.

(tutti e due vogliono partire)

GOLDONI: Sono quasi trent’anni che litighiamo.

GOZZI: Colpa vostra che volete sempre riformare ogni cosa.

GOLDONI: E vostra che volete, a ogni costo, conservarla com’è.

GOZZI: La colpa morì fanciulla. Non ci resta che salutare.

GOLDONI: Addio, mio amatissimo pubblico.

GOZZI: Cos’è questo mio, non è mica vostro.

GOLDONI: Lo so. È solo un modo di dire.

GOZZI: Che modo di dire e modo di dire. Dovevate dire: addio nostro amatissimo pubblico.

GOLDONI: Addio nostro amatissimo pubblico. Suona male, ma contento voi.

GOZZI: Addio, sofferenti e benevoli spettatori miei.

GOLDONI: Allora anche voi avreste dovuto dire nostri.

GOZZI: Siete meschino, Goldoni, vi attaccate alle piccole cose.

GOLDONI: Fate attenzione a come parlate, sior Conte!

GOZZI: Fate attenzione a come parlate voi, avvocato.

GOLDONI: Parlo come che voggio, sior pampalugo.

GOZZI: Pezzo dun can!

GOLDONI: Martuffo!

GOZZI: Spuzzetta !

GOLDONI: Zavatta senza modelo.

GOZZI: Strambazzo!

GOLDONI: Va in malora!

GOZZI: Va in malora ti!

GOLDONI: Papaga’ maledetto!

GOZZI: Vaghe in malorzega.

GOLDONI : Vaghe in malorzega ti!

GOZZI: Petazzo!

GOLDONI: Strambazzo sbrenao!

GOZZI: Povero sporco!

GOLDONI: Cos’è sto sporco!?

GOZZI: Volio ziogare che ve pettuffo!?

GOLDONI: Mare de Diana! Che te sfrazelo, vara!

Musica

 

Scena Quinta

GOLDONI: Doveva essere intorno al 1780. Si pensava allora di far venire l’opera buffa italiana a Parigi. Questo progetto mi lusingò infinitamente ed ebbi la temerità di credermi necessario alla sua esecuzione. Nessuno conosceva l’opera buffa italiana meglio di me. Sapevo che da anni non si davano più che delle farse, la musica delle quali era eccellente, mentre la poesia era detestabile. Bisognava trovare un nuovo stile e nessuno meglio di me poteva rendersi utile in una simile occasione. Attesi dunque che qualcuno venisse a parlarmi, a impegnare l’opera mia… Ahimé! Nessuno me ne fece parola. Lo spettacolo cadde, come io avevo preveduto, e ne fui veramente afflitto. L’anno successivo mi fecero l’onore di venire da me portandomi uno di quei brutti drammi da accomodare. Era troppo tardi, ormai il male era fatto, questo genere di spettacoli era screditato. Avrei potuto sostenerlo all’esordio. Credetti di non poterlo rialzare, dopo la dura vicenda in cui ero incorso. Ero offeso di essere stato dimenticato nel momento necessario. Non mi ricordo di aver provato da lungo tempo un dispiacere simile. Mi dissero per consolarmi, che i direttori della opera ritenevano troppo al di sotto di me l’impiego che potevano offrirmi. Mi dissero che si temeva che Goldoni fosse troppo caro. Avrei lavorato per l’onore se avessero saputo prendermi e la mia ricompensa, forse, sarebbe stata un poco di gloria.

Scena Sesta

GOZZI: Ricordo che sarà tenuto per una satira senza essere considerato. Si lasci lo sfogo al capriccio morigerato nei scenici spettacoli popolari necessari e al prezzo consueto. Si prenda a proteggere un teatro di cultura. Si faccia una scelta per questo di comici e comiche, tra quelli che realmente abbiamo, di ben disposti a riuscire. Si stipendino in modo che basti al poter vivere senza miseria domestica, e a comparir con fasto e pulitezza nel teatro. Sia pagato e posto loro soprastante un maestro diligente. Questi imponga delle pene pecuniarie a quei comici che mancano alle obbligazioni loro. Si pubblichi una promessa di premio decoroso per gli scrittori italiani ch’esibiranno delle opere tragiche e comiche regolate. Accettatore o ricusatore di queste sia un solo giudice premiato, conoscitore dell’aura teatrale, e non stitico pedante, il quale escluda soltanto le patenti inezie e le stolidaggini che compariranno purtroppo ma facili ad essere scoperte. Del resto il pubblico solo sia giudice, poich’egli solo ha la facoltà di giudicare le opere teatrali fatte per lui. L’esperienza m’ha fatto conoscere che l’effetto della lettura d’un’opera teatrale fatta da un picciol congresso in una stanza, nulla ha a che fare coll’effetto ch’ella fa rappresentata in un teatro in faccia al pubblico, suo vero giudice. Nulla si risparmi di spesa per la decorazione di questo teatro. Ad una tanto colta solennità si metta il prezzo all’uscio e ai sedili che fu posto dai comici francesi. Stiano aperti in Venezia due soli comici teatri. Lo uno di faceti capricci popolari col prezzo accostumato, e l’altro di opere colte col colto prezzo, onde non vada dimembrato l’utile necessario a sostenere una saggia idea, e non sia ella combattuta dalle molte novità, che fanno nascere il fanatismo, formano partiti divisi, e danneggiano le buone massime prese. Nessuno entri in un teatro senza pagare, e s’imiti in ciò il metodo del teatro di Torino. I moltissimi scioperati, che hanno tra noi il privilegio di entrar nei teatri a macca, non sono in quelli che per fare tumulto, e per disturbare la scenica azione. Abbia uffizio nella direzione di questo colto teatro desiderabile il signor Carlo Goldoni. Egli colle osservazioni fatte sull’accurato teatro francese, senza perder l’idea dei teatri nostri, nei quali ebbe tanta parte, deve assolutamente essersi reso l’uomo più opportuno e più utile alla riforma suggerita dal mio ricordo. Si richiami con un premio decente a giovare alla sua patria, abbandonata da lui per l’impossibilità di premio decente, per una naturale decadenza della sua impresa, e non per altro. Una tale idea ben diretta potrà fra noi contribuire alla coltura teatrale, e far risplendere l’Italia, come desiderano i grandi ingegni con ragione, gl’ingegni mediocri per prevenzione, e gli animi piccioli per interesse. Nessuna retta verrà data al mio ricordo, e noi dovremo contentarci del possibile nei nostri spettacoli di teatro. Le commedie improvvise con le maschere, l’opere colte nate dall’accidente o tradotte, l’opere seriofacete e capricciose saranno i nostri divertimenti teatrali, e quelli che avranno lasciato trascorrere il desiderio a voler di più, non avranno fatto che rendersi infelici colla noia.

FINE DELLA COMMEDIA