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il sublime rovesciato: comico umorismo e affini

Copertina Numero 15

 ottobre 2017

Testi

Aldo Palazzeschi

Pompona (1938)

 

da Tutte le novelle, a cura di Luciano De Maria, Prefazione di Giansiro Ferrata, Milano, Mondadori, 1975

Dopo aver dichiarato che la massaia era ricca di compia­cenza per quella femmina che non era sua figliola, e di­mostrava per lei vera e propria tenerezza, mi preme ag­giungere che si tratta di una gallina: una grossa, roton­da, matura, fiorente gallina.

A seconda dello slancio e del momento la chiamava Signora, Papessa, Badessa, Regina, Principessa, Pompo­na, Pompona mia, Pompona bella ; e a perdita di memoria (in tal caso la massaia aveva la memoria ferrea), non ricordava una bestia tanto fiera e altrettanto pro­duttiva. Incominciava a far le uova qualche giorno pri­ma delle altre e seguitava quando tutte avevano smes­so da un pezzetto e si riposavano; e le faceva sempre più grosse del normale. Sapeva portare a bene certe covate di ventiquattro pulcini senza che un uovo an­dasse disperso. Tale esuberanza la bestia manifestava in ogni fenomeno della vita.

Dal canto suo Pompona ricambiava assai male tanto affetto e tanta simpatia: detestava la massaia in manie­ra netta. Ne odiava la figura sbilenca e impresciuttita, dalla schiena ricurva, la faccia solcata da rughe nere, il naso grifagno e le grinfie d’arpia; i cernecchi che le sbu­cavano dal fazzoletto nero sopra gli orecchi, come gra­natini di scopa. Al solo vederla si sentiva salire una vampa alla testa. Nulla al mondo la irritava quanto i sorrisi e le carezze di quella megèra; sapeva che il più vile interesse li alimentava, ciò che l’aveva per così lun­go tempo risparmiata dalla pentola. Un giorno che s’era provata a fare l’uovo più piccolo, già aveva storto la bocca:

– Be’? Che lavori son questi – le aveva detto accigliata e dura: – incominceresti anche te a battere la fiacca, a fare la carogna? – (Vedi pentola.) E Pompona: dai a farli grossi. Avrebbe voluto potersi avvelenare il becco e pungerla come la vipera, fulminarla, vederla ri­gida, stecchita.

Pompona non voleva morire. Il pensiero della morte la rabbrividiva tutta, le faceva rintuzzare il collo dentro il petto e chiudere gli occhiolini dalla paura. Sentiva le sue povere ossa scricchiolare sotto le zanne della vec­chia, quale fine abominevole l’aspettava: diventava una palla.

Pompona amava la vita, la vita che il Signore le ave­va donata, ma che era nel dominio assoluto di una stre­ga. E per quanto in piena maturità, per la sua esube­ranza si sentiva affascinata e attratta dalla gioventù, dalla prima gioventù, quella in erba, quasi fosse stata giovane ancora: una tenera pollastra. Per questo suo trasporto fra lei e il vecchio Tuba non c’era da spartire proprio nulla, nulla alla lettera. Tuba, il gallo che la massaia considerava quale amico, un alleato, il confiden­te, (la spia), autorità suprema del pollaio dopo la vec­chia, il solo rispettato da quella cisposa; specie di sul­tano, unico maschio adulto fra tante femmine anziane e giovinette. Era diventato tanto meccanico nella sua at­tività e privo di fantasia, e cosi ampolloso per la sicu­mera, che nemmeno si accorgeva come Pompona gli sfuggisse scaltra, e lo prendesse per il bavero in maniera sopraffina. Oltre l’avversione smisurata che nutriva per la massaia, doveva subire la ripugnanza per quel rudero di vanagloria al quale non intendeva concedere un mi­lionesimo di sé. Quando si decideva a tirargli il collo, la compiacente padrona? Avrebbe avuto di che arrotar­si le ganasce con la sua ciccia, dopo averlo fatto bollire per una settimana. Se li vedeva insieme in dottrinale conciliabolo esclamava: «Abbasso l’antichità!».

Ma c’era un’ora nella giornata che la ripagava di tan­ta amarezza e per cui la vita ritornava bella. La sera, quando il sole incominciava la sua discesa ardente so­pra la montagna, Pompona indugiava sola sotto un oli­vo, sempre lo stesso; un olivo grande, ricco di fronda, di biblica regalità, che si ciondolava dalla balza carico di frutti i quali nell’incipiente autunno incominciavano a fare la pelle viola. Sotto la pianta pareva ferma in am­mirazione del fenomeno maestoso, ma la verità è un’al­tra: ella sapeva nascondere con civetteria mondana un palpito che le agitava il petto in quell’ora, ogni sera prima di coricarsi, appartata, in vena di poesia. Pompo­na là sotto aspettava qualcosa, osservandola bene si ca­piva, e ogni tanto, distogliendo il capo dalla luce, dava delle occhiatine in giro con astuzia, rapidissima, affet­tando indifferenza e il più completo disinteresse per quanto la circondava sulla terra, e di essere lì soltanto per quella luce divina di cui voleva godersi fino all’ul­timo istante l’intima gioia; e fingendo addirittura di partire distratta e frettolosa non appena era alle viste l’oggetto dell’attesa. ‘

Zarù era il più bel gallo dell’annata, sapeva scegliere Pompona, in quell’arte era maestra, e una volta caduta così bene la scelta, sapeva concentrarne l’interesse con inimitabile industria. Uscito appena dall’adolescenza, Zarù sprigionava i primi impeti della giovinezza, preco­ci impeti di cui l’astuta femmina, dopo averli indirizza­ti sicura, pareva subirne tutte le conseguenze rassegnata e generosa, più sicura ancora. Fatalità senza risposta.

Zarù aveva certe gamberellone da trampoliere alte e fortissime, sproporzionate ancora al volume del corpo e che denunziavano un ulteriore sviluppo fuor del comu­ne, fino a farlo diventare un campione della razza. La navigata Pompona pareva nata apposta per iniziare gl’inesperti ai misteri della vita.

E qui mi calza di chiarire un dubbio. Ché se Pompo­na non più giovinetta, si sentiva attratta e fiera di quella forza cruda, acerba, la forza cruda e acerba da parte sua, si sentiva attratta e fiera di quella rigogliosa maturità, lusingata, posta in valore da essa; la sua ben nota esperienza rappresentava la misura del proprio or­goglio e della propria vigoria, un non so che di cavalleresco si aggiungeva nella partita a moltiplicare il fa­scino della giovanile esuberanza, come per una superio­re conquista, assai più di una creatura della medesima età ignara ed inesperta: acerba. Il rigoglio si moltipli­cava rapido al contatto di tanta morbidezza; e al contat­to dell’esperienza la curiosità della vita procedeva ful­minea.

Non appena Zarù era in vista, a passo di carica – e con la cresta che sembrava una fiamma, assorta nella solare poesia Pompona da lontano lo guardava avida: com’era bello! Che decisione nell’andatura! Al suo fianco man­cava solamente una spada. Quindi, via via che quello si avvicinava, distogliendone lo sguardo volgeva altrove la propria curiosità, in procinto d’andarsene, e ritirarsi sa­tura di spirituale bellezza. FinchéZarù non l’era accanto e la fermava in tono di padronanza; e a cui Pompona rispondeva sussultando:

– Oh! Sei tu, m’hai fatto paura. Il sole calava:

– Mio Zarù!

Sul collo del robusto galletto Pompona abbandonava morbida la testa:

– Bel guerriero, la tua forza mi spaventa. – Non era vero nulla. Diceva cosi soltanto per provarlo, per met­terlo in efficienza.

Rimaneva a lungo sotto quell’olivo di biblica grandez­za, finché il sole non faceva capolino dalla montagna e mentre dall’aia, davanti a casa, giungeva una voce stri­dula, orrenda:

Pirepire pire pire pire pire pirepire… Faceva finta di non sentirla.

Richiamo senza respiro per parte della massaia impa­ziente di chiudere il pollaio a quell’ora:

Pirepirepirepirepirepirepirepire…

– Ti si seccasse la lingua! – inveiva Pompona non potendone più e voltandosi appena.

La lasciavano strillare, la vecchia. Pire pire pirepire pire pire pire pire

– Gridassi l’ultima!

Zarù nemmeno udiva il richiamo tanto era immerso nella propria baldanza.

Erano sempre ultimi a rientrare. Facevano insieme un tratto della viottola, e non appena s’avvicinavano al­l’aia Zarù si distaccava spiccando passi da struzzo in vi­sta della padrona.

– Quel tristo! Quel tristo! – gli digrignava dietro essa: – Quel tristo! – seguendolo acuta. Sguardo bieco in cui era chi sa quale criminale disegno, chi sa quale minaccia, o chi sa quale promessa.

– Assassino! – gli lanciava dietro un sasso prima di vederlo entrare, incalzandolo verso la porta: – Sciò!

Pompona invece, veniva dietro calma, calma apparen­te che non rappresentava, ormai, se non filosofia della vita. Allungava un pochino il passo, spandendo la pro­pria opulenza, la procace rotondità che le copriva le gambe fino alla caviglia.

– Eccola questa Pompona, come se la prende comoda la Signora, la mia Padrona – diceva scorgendola la vec­chia ipocrita. E non appena l’era davanti, la bestia affettava un trotterellino d’obbedienza, più ipocrita del­l’altra, un trotterellino a gambe larghe, ma solo per fuggirla, per rimanerle davanti il meno che fosse possi­bile.

– Sempre ultima, la comodona.

– Cloclocloclo – borbottava incomprensibile Pompona: – Ti si chiudesse l’orifizio. – Via, dunque, sciò! Papessa.

Cloclocloclo … Ti si aprisse la cateratta! Ti si accavallassero le budella!

Una sera Pompona aspettò invano sotto l’olivo.

Il sole calava, lambiva l’orlo della montagna, e Zarù non si vedeva. Pompona guardava sopra, guardava sotto dalla balza, guardava intorno dappertutto. Senza più fin­gere indifferenza o disinteresse nell’attesa, dimostrava chiaramente il suo stato di angoscia. Un triste presenti­mento s’impossessava del suo animo. Quale la ragione del ritardo, in un tramonto di tanta bellezza? E allorché il sole l’ebbe dato l’ultimo addio che parve un’amara ironia nella sua serenità, perduta ogni speranza di ve­der sbucare il bel ritardatario, le uscì dal petto un grido di rivolta: «Belva umana!», una smorfia di disgusto, di amarezza disperata: «Oh! Infilare te, nello spiedo! Vedere te, friggere in padella! Far bollire te, dentro una pentola!». Quindi fissando quella luce rosea, e parendo nel petto placata l’ira, subentrando l’impotente dolore il suo occhiolino lasciò cadere una lacrima silenziosa.

Rientrò di corsa e quasi nell’oscurità, chiuse gli occhi e gli orecchi passando davanti al carnefice in gonnella, per non vedere, per non udirne la voce diabolica.

Il dì seguente lo cercò fino a sera, e la sera rimase sotto l’olivo sfiduciata e malinconica, aspettando inu­tilmente più di un’ora.

Lo cercò il secondo e il terzo giorno. E allorquando erasi in lei estinta ogni speranza e consolidata la cer­tezza della sorte toccata al povero Zarù, e se ne andava affranta dai dolci ricordi, lo scorse da lontano, solo in un campo, che quasi la sfuggiva, sì, faceva finta di non vederla. Non credeva ai propri occhi, Pompona. Gli cor­se incontro con affanno e gli rivolse tutte insieme cento domande per dimostrargli la pena sofferta e al tempo stesso la gioia struggente di rivederlo in vita. Zarù ri­spondeva appena, evasivo, distratto, indifferente, aveva cambiato espressione, e dimessa era divenuta la sua a­ria cosi decisamente aggressiva. Credendo di sognare Pompona batteva e ribatteva gli occhi, scuoteva il capo per sentirsi desta. Pure avendolo davanti non lo riconosceva. Si fece carezzevole, suadente, appassionata, nostalgica; usò quelle profondità nella voce a cui sapeva i maschi non saper resistere, specialmente i più giovani. I suoi fascini al completo e le sue infallibili riserve ca­devano nel vuoto: cosa inusata, mai registrata fino a quel giorno nella sua storia.

Per tagliar corto un discorso che lo infastidiva, Zarù disse che la sera si sarebbe trovato sotto l’olivo alla soli­ta ora.

Non si fece vedere.

Di nuovo interrogato da Pompona finì per invitarla a lasciarlo in pace, dichiarandole che amava passeggiare solo e da tutt’altra parte che la sua.

Oltre a non credere ai propri occhi, Pompona inter­detta incominciava a dubitare di sé e delle sue infallibili risorse.

Si guardò attorno cercando di scoprire una possibile rivale: non fu capace di trovarla. La causa dell’abbandono le rimaneva ignota.

Finché, osservando meglio Zarù nel vuoto dei suoi sguardi e ascoltandone meglio il timbro della voce, un’i­dea come la folgore le attraversò l’anima, e un urlo rau­co parve lacerarne la gola. «Ah!» A quello non aveva pensato, Pompona.

È bene sapere che la massaia, quella ciuffèca lurida e storta, per mezzo di certe sue forbicine dalla punta acu­minata, eseguiva con abilità portentosa operazioni di al­ta chirurgia, e delle quali non soltanto si serviva in casa propria, ma era suo costume recarsi in casa d’altri dove via via, per quelle, dietro compenso venisse richiesta.

Dopo un tale urlo rauco che così spontaneamente le aveva lacerato la gola, una smorfia di ribrezzo ne scosse tutte le fibre al pensiero dell’innominabile donna capace di qualsiasi scelleratezza. Né seppe poi rattenere un in­volontario, istintivo risolino di femmina, alla vista del­la vittima.

Pur non volendo confessare il danno sofferto, Zarù si mostrava sempre più imbarazzato nel rispondere alle proteste e alle domande, infastidito da quella vicinanza e sempre più sollecito nel fuggirla. Evitava di trovarsi vicino a lei e, soprattutto, solo con lei, quasi immemore di un passato di passione e di poesia.

E la femmina oramai non lo fermava, non gli rivol­geva la parola: si limitava ad osservarlo da lontano con lo sguardo in cui era, suo malgrado, una punta d’ironia.

Né seppe frenare il sorriso più accentuato non appe­na addosso a Zarù, che ingrassava a vista, vide crescere in gran copia penne di una favolosa iridescenza. A poco a poco se ne coprì raddoppiando la propria mole sulla quale aumentava ogni giorno la mole della veste super­ba. Non soltanto gli era cresciuta la coda simile a una fontana luminosa, e lungo il collo una collana regale, ma un gran pennacchio da maresciallo gli scendeva dal capo laddove prima era diritta una fiamma.

Non guardava più Pompona. Le passava davanti con sussiego, con alterigia, non aveva cura di evitarla né di sfuggire i sorrisetti ironici che le fiorivano spontanei sulla bocca, e che non intaccavano la sua nuova, ventosa bellezza, né la nuova felicità.

E siccome quell’occhio dal quale un giorno era sgor­gata una lacrima, non aveva per quella perduta la sua perspicacia, con la ben nota esperienza, (sempre valida), Pompona non tardò a compensarlo dell’ora smarrita, procurandogli quella gioia nuovissima di cui reclamava­no il ritrovamento le vecchie forze della natura.

Una sera, mentre Pompona sotto quell’olivo di bi­blica imponenza non si trovava sola a contemplare un tramonto di profondità divina, (morto un Papa se ne fa un’altro), Zarù, pago oramai della sua vanità femminea, passava sotto la balza in pompa magna sfoggiando trion­fante in quella luce, come un manto di gemme il suo tesoro di penna. Udì sopra di lui una risata lunga, aper­ta, crudele, sconcia: «Ah! Ah! Ah! Ah!» Pompona ri­deva: «Ah! Ah! Ah! Ah!».