Dopo aver dichiarato che la massaia era ricca di compiacenza per quella femmina che non era sua figliola, e dimostrava per lei vera e propria tenerezza, mi preme aggiungere che si tratta di una gallina: una grossa, rotonda, matura, fiorente gallina.
A seconda dello slancio e del momento la chiamava Signora, Papessa, Badessa, Regina, Principessa, Pompona, Pompona mia, Pompona bella ; e a perdita di memoria (in tal caso la massaia aveva la memoria ferrea), non ricordava una bestia tanto fiera e altrettanto produttiva. Incominciava a far le uova qualche giorno prima delle altre e seguitava quando tutte avevano smesso da un pezzetto e si riposavano; e le faceva sempre più grosse del normale. Sapeva portare a bene certe covate di ventiquattro pulcini senza che un uovo andasse disperso. Tale esuberanza la bestia manifestava in ogni fenomeno della vita.
Dal canto suo Pompona ricambiava assai male tanto affetto e tanta simpatia: detestava la massaia in maniera netta. Ne odiava la figura sbilenca e impresciuttita, dalla schiena ricurva, la faccia solcata da rughe nere, il naso grifagno e le grinfie d’arpia; i cernecchi che le sbucavano dal fazzoletto nero sopra gli orecchi, come granatini di scopa. Al solo vederla si sentiva salire una vampa alla testa. Nulla al mondo la irritava quanto i sorrisi e le carezze di quella megèra; sapeva che il più vile interesse li alimentava, ciò che l’aveva per così lungo tempo risparmiata dalla pentola. Un giorno che s’era provata a fare l’uovo più piccolo, già aveva storto la bocca:
– Be’? Che lavori son questi – le aveva detto accigliata e dura: – incominceresti anche te a battere la fiacca, a fare la carogna? – (Vedi pentola.) E Pompona: dai a farli grossi. Avrebbe voluto potersi avvelenare il becco e pungerla come la vipera, fulminarla, vederla rigida, stecchita.
Pompona non voleva morire. Il pensiero della morte la rabbrividiva tutta, le faceva rintuzzare il collo dentro il petto e chiudere gli occhiolini dalla paura. Sentiva le sue povere ossa scricchiolare sotto le zanne della vecchia, quale fine abominevole l’aspettava: diventava una palla.
Pompona amava la vita, la vita che il Signore le aveva donata, ma che era nel dominio assoluto di una strega. E per quanto in piena maturità, per la sua esuberanza si sentiva affascinata e attratta dalla gioventù, dalla prima gioventù, quella in erba, quasi fosse stata giovane ancora: una tenera pollastra. Per questo suo trasporto fra lei e il vecchio Tuba non c’era da spartire proprio nulla, nulla alla lettera. Tuba, il gallo che la massaia considerava quale amico, un alleato, il confidente, (la spia), autorità suprema del pollaio dopo la vecchia, il solo rispettato da quella cisposa; specie di sultano, unico maschio adulto fra tante femmine anziane e giovinette. Era diventato tanto meccanico nella sua attività e privo di fantasia, e cosi ampolloso per la sicumera, che nemmeno si accorgeva come Pompona gli sfuggisse scaltra, e lo prendesse per il bavero in maniera sopraffina. Oltre l’avversione smisurata che nutriva per la massaia, doveva subire la ripugnanza per quel rudero di vanagloria al quale non intendeva concedere un milionesimo di sé. Quando si decideva a tirargli il collo, la compiacente padrona? Avrebbe avuto di che arrotarsi le ganasce con la sua ciccia, dopo averlo fatto bollire per una settimana. Se li vedeva insieme in dottrinale conciliabolo esclamava: «Abbasso l’antichità!».
Ma c’era un’ora nella giornata che la ripagava di tanta amarezza e per cui la vita ritornava bella. La sera, quando il sole incominciava la sua discesa ardente sopra la montagna, Pompona indugiava sola sotto un olivo, sempre lo stesso; un olivo grande, ricco di fronda, di biblica regalità, che si ciondolava dalla balza carico di frutti i quali nell’incipiente autunno incominciavano a fare la pelle viola. Sotto la pianta pareva ferma in ammirazione del fenomeno maestoso, ma la verità è un’altra: ella sapeva nascondere con civetteria mondana un palpito che le agitava il petto in quell’ora, ogni sera prima di coricarsi, appartata, in vena di poesia. Pompona là sotto aspettava qualcosa, osservandola bene si capiva, e ogni tanto, distogliendo il capo dalla luce, dava delle occhiatine in giro con astuzia, rapidissima, affettando indifferenza e il più completo disinteresse per quanto la circondava sulla terra, e di essere lì soltanto per quella luce divina di cui voleva godersi fino all’ultimo istante l’intima gioia; e fingendo addirittura di partire distratta e frettolosa non appena era alle viste l’oggetto dell’attesa. ‘
Zarù era il più bel gallo dell’annata, sapeva scegliere Pompona, in quell’arte era maestra, e una volta caduta così bene la scelta, sapeva concentrarne l’interesse con inimitabile industria. Uscito appena dall’adolescenza, Zarù sprigionava i primi impeti della giovinezza, precoci impeti di cui l’astuta femmina, dopo averli indirizzati sicura, pareva subirne tutte le conseguenze rassegnata e generosa, più sicura ancora. Fatalità senza risposta.
Zarù aveva certe gamberellone da trampoliere alte e fortissime, sproporzionate ancora al volume del corpo e che denunziavano un ulteriore sviluppo fuor del comune, fino a farlo diventare un campione della razza. La navigata Pompona pareva nata apposta per iniziare gl’inesperti ai misteri della vita.
E qui mi calza di chiarire un dubbio. Ché se Pompona non più giovinetta, si sentiva attratta e fiera di quella forza cruda, acerba, la forza cruda e acerba da parte sua, si sentiva attratta e fiera di quella rigogliosa maturità, lusingata, posta in valore da essa; la sua ben nota esperienza rappresentava la misura del proprio orgoglio e della propria vigoria, un non so che di cavalleresco si aggiungeva nella partita a moltiplicare il fascino della giovanile esuberanza, come per una superiore conquista, assai più di una creatura della medesima età ignara ed inesperta: acerba. Il rigoglio si moltiplicava rapido al contatto di tanta morbidezza; e al contatto dell’esperienza la curiosità della vita procedeva fulminea.
Non appena Zarù era in vista, a passo di carica – e con la cresta che sembrava una fiamma, assorta nella solare poesia Pompona da lontano lo guardava avida: com’era bello! Che decisione nell’andatura! Al suo fianco mancava solamente una spada. Quindi, via via che quello si avvicinava, distogliendone lo sguardo volgeva altrove la propria curiosità, in procinto d’andarsene, e ritirarsi satura di spirituale bellezza. FinchéZarù non l’era accanto e la fermava in tono di padronanza; e a cui Pompona rispondeva sussultando:
– Oh! Sei tu, m’hai fatto paura. Il sole calava:
– Mio Zarù!
Sul collo del robusto galletto Pompona abbandonava morbida la testa:
– Bel guerriero, la tua forza mi spaventa. – Non era vero nulla. Diceva cosi soltanto per provarlo, per metterlo in efficienza.
Rimaneva a lungo sotto quell’olivo di biblica grandezza, finché il sole non faceva capolino dalla montagna e mentre dall’aia, davanti a casa, giungeva una voce stridula, orrenda:
– Pirepire pire pire pire pire pirepire… Faceva finta di non sentirla.
Richiamo senza respiro per parte della massaia impaziente di chiudere il pollaio a quell’ora:
– Pirepirepirepirepirepirepirepire…
– Ti si seccasse la lingua! – inveiva Pompona non potendone più e voltandosi appena.
La lasciavano strillare, la vecchia. – Pire pire pirepire pire pire pire pire…
– Gridassi l’ultima!
Zarù nemmeno udiva il richiamo tanto era immerso nella propria baldanza.
Erano sempre ultimi a rientrare. Facevano insieme un tratto della viottola, e non appena s’avvicinavano all’aia Zarù si distaccava spiccando passi da struzzo in vista della padrona.
– Quel tristo! Quel tristo! – gli digrignava dietro essa: – Quel tristo! – seguendolo acuta. Sguardo bieco in cui era chi sa quale criminale disegno, chi sa quale minaccia, o chi sa quale promessa.
– Assassino! – gli lanciava dietro un sasso prima di vederlo entrare, incalzandolo verso la porta: – Sciò!
Pompona invece, veniva dietro calma, calma apparente che non rappresentava, ormai, se non filosofia della vita. Allungava un pochino il passo, spandendo la propria opulenza, la procace rotondità che le copriva le gambe fino alla caviglia.
– Eccola questa Pompona, come se la prende comoda la Signora, la mia Padrona – diceva scorgendola la vecchia ipocrita. E non appena l’era davanti, la bestia affettava un trotterellino d’obbedienza, più ipocrita dell’altra, un trotterellino a gambe larghe, ma solo per fuggirla, per rimanerle davanti il meno che fosse possibile.
– Sempre ultima, la comodona.
– Cloclocloclo … – borbottava incomprensibile Pompona: – Ti si chiudesse l’orifizio. – Via, dunque, sciò! Papessa.
– Cloclocloclo … Ti si aprisse la cateratta! Ti si accavallassero le budella!
Una sera Pompona aspettò invano sotto l’olivo.
Il sole calava, lambiva l’orlo della montagna, e Zarù non si vedeva. Pompona guardava sopra, guardava sotto dalla balza, guardava intorno dappertutto. Senza più fingere indifferenza o disinteresse nell’attesa, dimostrava chiaramente il suo stato di angoscia. Un triste presentimento s’impossessava del suo animo. Quale la ragione del ritardo, in un tramonto di tanta bellezza? E allorché il sole l’ebbe dato l’ultimo addio che parve un’amara ironia nella sua serenità, perduta ogni speranza di veder sbucare il bel ritardatario, le uscì dal petto un grido di rivolta: «Belva umana!», una smorfia di disgusto, di amarezza disperata: «Oh! Infilare te, nello spiedo! Vedere te, friggere in padella! Far bollire te, dentro una pentola!». Quindi fissando quella luce rosea, e parendo nel petto placata l’ira, subentrando l’impotente dolore il suo occhiolino lasciò cadere una lacrima silenziosa.
Rientrò di corsa e quasi nell’oscurità, chiuse gli occhi e gli orecchi passando davanti al carnefice in gonnella, per non vedere, per non udirne la voce diabolica.
Il dì seguente lo cercò fino a sera, e la sera rimase sotto l’olivo sfiduciata e malinconica, aspettando inutilmente più di un’ora.
Lo cercò il secondo e il terzo giorno. E allorquando erasi in lei estinta ogni speranza e consolidata la certezza della sorte toccata al povero Zarù, e se ne andava affranta dai dolci ricordi, lo scorse da lontano, solo in un campo, che quasi la sfuggiva, sì, faceva finta di non vederla. Non credeva ai propri occhi, Pompona. Gli corse incontro con affanno e gli rivolse tutte insieme cento domande per dimostrargli la pena sofferta e al tempo stesso la gioia struggente di rivederlo in vita. Zarù rispondeva appena, evasivo, distratto, indifferente, aveva cambiato espressione, e dimessa era divenuta la sua aria cosi decisamente aggressiva. Credendo di sognare Pompona batteva e ribatteva gli occhi, scuoteva il capo per sentirsi desta. Pure avendolo davanti non lo riconosceva. Si fece carezzevole, suadente, appassionata, nostalgica; usò quelle profondità nella voce a cui sapeva i maschi non saper resistere, specialmente i più giovani. I suoi fascini al completo e le sue infallibili riserve cadevano nel vuoto: cosa inusata, mai registrata fino a quel giorno nella sua storia.
Per tagliar corto un discorso che lo infastidiva, Zarù disse che la sera si sarebbe trovato sotto l’olivo alla solita ora.
Non si fece vedere.
Di nuovo interrogato da Pompona finì per invitarla a lasciarlo in pace, dichiarandole che amava passeggiare solo e da tutt’altra parte che la sua.
Oltre a non credere ai propri occhi, Pompona interdetta incominciava a dubitare di sé e delle sue infallibili risorse.
Si guardò attorno cercando di scoprire una possibile rivale: non fu capace di trovarla. La causa dell’abbandono le rimaneva ignota.
Finché, osservando meglio Zarù nel vuoto dei suoi sguardi e ascoltandone meglio il timbro della voce, un’idea come la folgore le attraversò l’anima, e un urlo rauco parve lacerarne la gola. «Ah!» A quello non aveva pensato, Pompona.
È bene sapere che la massaia, quella ciuffèca lurida e storta, per mezzo di certe sue forbicine dalla punta acuminata, eseguiva con abilità portentosa operazioni di alta chirurgia, e delle quali non soltanto si serviva in casa propria, ma era suo costume recarsi in casa d’altri dove via via, per quelle, dietro compenso venisse richiesta.
Dopo un tale urlo rauco che così spontaneamente le aveva lacerato la gola, una smorfia di ribrezzo ne scosse tutte le fibre al pensiero dell’innominabile donna capace di qualsiasi scelleratezza. Né seppe poi rattenere un involontario, istintivo risolino di femmina, alla vista della vittima.
Pur non volendo confessare il danno sofferto, Zarù si mostrava sempre più imbarazzato nel rispondere alle proteste e alle domande, infastidito da quella vicinanza e sempre più sollecito nel fuggirla. Evitava di trovarsi vicino a lei e, soprattutto, solo con lei, quasi immemore di un passato di passione e di poesia.
E la femmina oramai non lo fermava, non gli rivolgeva la parola: si limitava ad osservarlo da lontano con lo sguardo in cui era, suo malgrado, una punta d’ironia.
Né seppe frenare il sorriso più accentuato non appena addosso a Zarù, che ingrassava a vista, vide crescere in gran copia penne di una favolosa iridescenza. A poco a poco se ne coprì raddoppiando la propria mole sulla quale aumentava ogni giorno la mole della veste superba. Non soltanto gli era cresciuta la coda simile a una fontana luminosa, e lungo il collo una collana regale, ma un gran pennacchio da maresciallo gli scendeva dal capo laddove prima era diritta una fiamma.
Non guardava più Pompona. Le passava davanti con sussiego, con alterigia, non aveva cura di evitarla né di sfuggire i sorrisetti ironici che le fiorivano spontanei sulla bocca, e che non intaccavano la sua nuova, ventosa bellezza, né la nuova felicità.
E siccome quell’occhio dal quale un giorno era sgorgata una lacrima, non aveva per quella perduta la sua perspicacia, con la ben nota esperienza, (sempre valida), Pompona non tardò a compensarlo dell’ora smarrita, procurandogli quella gioia nuovissima di cui reclamavano il ritrovamento le vecchie forze della natura.
Una sera, mentre Pompona sotto quell’olivo di biblica imponenza non si trovava sola a contemplare un tramonto di profondità divina, (morto un Papa se ne fa un’altro), Zarù, pago oramai della sua vanità femminea, passava sotto la balza in pompa magna sfoggiando trionfante in quella luce, come un manto di gemme il suo tesoro di penna. Udì sopra di lui una risata lunga, aperta, crudele, sconcia: «Ah! Ah! Ah! Ah!» Pompona rideva: «Ah! Ah! Ah! Ah!».