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il sublime rovesciato: comico umorismo e affini

Copertina Numero 01

 settembre 2010

Saggi e rassegne

Alessandro Dignös

Il brutto e la necessità del suo riscatto in Rosenkranz

«Un’estetica del brutto? E perché no? “Estetica” è diventato un termine collettivo che include un ampio gruppo di concetti che poi si suddividono in tre classi particolari. La prima ha a che fare con l’idea del bello, la seconda con il concetto di produzione del bello, la terza infine con il sistema delle arti, con la rappresentazione artistica dell’idea del bello in un determinato medium. I concetti appartenenti alla prima classe li riassumiamo di solito sotto il titolo di metafisica del bello. Ma se si discute l’idea del bello, non si può prescindere da una ricerca sul brutto.» (Rosenkranz, Estetica del brutto, Prefazione, p. 29)

Incarnazione del cosiddetto “centro hegeliano” – secondo la visione “parlamentare” della stirpe hegeliana offerta da Strauss e poi approfondita da Michelet –, Karl Rosenkranz ha una collocazione del tutto peculiare nell’alveo della galassia post-hegeliana e rivela il carattere moderato della sua personalità che – per usare le parole di Elio Franzini, studioso del nostro – «non eccede né alla scolastica hegeliana né agli eccessi politici e ideologici dei giovani hegeliani». (p. 8). E’ evidente che il punto di avvio della sua riflessione sull’arte e, in generale, filosofica, sia costituito dalla formazione hegeliana e dal contatto diretto col più importante esponente dell’idealismo tedesco – significativo l’incarico attribuitogli dalla famiglia di Hegel di redigere una biografia del filosofo otto anni dopo la scomparsa –, tuttavia una lettura dell’opera che tenga in considerazione soltanto la sua formazione risulterebbe poco utile ai fini della comprensione: l’adesione al pensiero hegeliano non chiude l’autore a ulteriori influssi e alla propria indole e non mancano prese di posizioni autonome e considerazioni non ortodossamente hegeliane. L’opera di Rosenkranz può essere letta secondo ulteriori e molteplici angoli prospettici, mediante i quali è possibile scorgere nel filosofo la compresenza di varie istanze speculative, quali la riflessione sull’arte avviata da filosofi e poeti del Settecento (Batteux, Baumgarten, Lessing, Goethe, Schlegel); la riflessione sul sublime e sul limite di rappresentabilità (Kant, Schiller); sulla “forma” (Kant, Herbart); la riflessione sull’arte in generale e le sue forme che coinvolse molti hegeliani volti a mettere in luce quanto ancora lo spirito del tempo non avesse totalmente disvelato e chiarito (Ruge, Weisse, Hohto, Fischer, Vischer). Oltre a ciò, non è difficile individuare una certa affinità con autori come Lessing, suo “precursore” per quanto concerne la trattazione del brutto (nel Laocoonte, 1766), Schlegel, il quale osservava già ben cinquant’anni prima della pubblicazione dell’Ästhetik des Hässlichen (1853) la mancanza di una “teoria del brutto” e l’esigenza di colmare tale vuoto, Hugo o addirittura Baudelaire, al tempo non noto a Rosenkranz.

L’Estetica del brutto è un’opera che consente di esplorare il multiverso di Rosenkranz e di porre lo sguardo sui diversi mondi che lo compongono, intesi come oscillazioni tra posizioni anche contrapposte che si conciliano in un nucleo teorico unitario, frutto di uno sforzo sincretico costantemente accompagnato da profonda sensibilità e oltre un decennio di studi letterari di ogni tempo e cultura.

A partire dalle prime parole della Prefazione dell’opera sopra riportate, Rosenkranz entra in medias res e indica la necessità di offrire un’ampia trattazione al tema del “brutto”, scorgendo l’impossibilità di assegnare questo concetto ad alcun altra scienza se non a quella che riguarda l’arte. Il brutto non è che il contrario del bello, v’è un rapporto di stretta dipendenza, ed è perciò legittimo includere nell’ambito dell’estetica anche un discorso che riguardi il brutto. Rosenkranz afferma che «nessuno si meraviglia che nella biologia di tratti del concetto di malattia, nell’etica del concetto di male, nella scienza del diritto del concetto di torto, nella scienza della religione il concetto di peccato» (p. 29), candidandosi come primo autore a offrire una trattazione sia sistematica sia descrittiva a un tema che per secoli, nell’alveo della tradizione occidentale, è stato emarginato a favore del concetto di “bellezza” concepita secondo i canoni classici. L’aspetto straordinario dell’opera di Rosenkranz sta nel fatto che l’opera non si esaurisce in uno sterile elencazione di astratti principi, ma ricorre a molteplici riferimenti e ad esempi concreti, configurandosi come una vera e propria fenomenologia empirica e sociologica del brutto, incarnata da figure o τόποι letterari nonché da veri e propri tipi del mondo concreto.

Questo tipo di analisi di fenomeni secondari dell’estetica era stato praticato in tutte le correnti posthegeliane anche prima dell’opera del Rosenkranz, ma non vi sono sistematizzazioni comparabili ad essa. Una possibile spiegazione di questo interesse generatosi attorno agli aspetti più oscuri del mondo va ricercato nel mondo stesso, ossia in seno ai notevoli contrasti sociali e alla miseria degli eventi quotidiani di un’Europa profondamente travagliata dal suo interno. La Germania degli anni Trenta e Quaranta si presenta come un concreto locus horridus segnato da una fase di industrializzazione appena principiata, e il mondo appare realmente segnato da una crisi di identità in cui si affacciano nuovi scenari mediati da soggetti sociali mai visti. Ricorrendo alle parole di Franzini, dal momento che «lo spirito del mondo non cavalca più sotto le finestre di Hegel», gli eredi della sua potente filosofia della storia si rendono pienamente consapevoli del difficile ed odierno compito dell’arte, ossia quello di riuscire a giustificare razionalmente tale realtà sociale e artistica anche laddove essa si presenta ingiustificabile. Le analisi dei posthegeliani, e in particolare del Rosenkranz, non possono più presentarsi sotto la specie dell’idea e del divino, giacché «è l’arte stessa a non proporsi più, in questi anni, come “aulica”, dal momento che inizia a scendere per le strade, cogliendo di esse e in esse una “bruttezza” che va rappresentata, sfigurata, simboleggiata, in ogni caso resa evento visivo e percettivo» (p. 10). Esse acquisiscono un valore non tanto di “effetto”, quanto di giustificazione teorica del dato ἦθος, anche qualora la sua materia viva e truce sembra dileguarsi irrazionalmente dal dominio della ragione.

Dopo aver aperto le porte dell’”inferno estetico”, il Virgilio del brutto ammonisce coloro che intenderanno distogliere lo sguardo dai “gabinetti” o tenersi lontano da “certe cloache”, stigmatizzando il linguaggio casto e la pruderie come potenti ipocrisie da signorine e anziane pensionate, aventi come unico fine la castrazione della realtà e della storia: la scienza deve imparare a evitare tali deformazioni. Già a partire dai primi passi dell’opera è manifesta la presa di distanza dalla tendenza culturale del proprio tempo – e del primo Ottocento in generale –, intenta ad estrarre il puro, il nobile e l’edificante e con ciò dimentica della vera anima del dato sensibile, talora indecente. Ed è proprio quanto ammonito sulla soglia dell’inferno che già accenna l’incredibile lontananza dal pensiero estetico del maestro Hegel: pur condividendo con il maestro la convinzione che l’arte debba portare alla luce l’”idea” della natura, l’analisi rosenkranziana è tuttavia sempre legata all’osservazione e allo studio della natura empirica; l’estetica del nostro arriva così a determinarsi secondo una concezione concreta e fenomenica dell’arte stessa, ben distante dalla concezione estetica di Hegel, volta ad affermare con severità la netta superiorità del bello artistico rispetto a quello naturale e quindi in questo senso «libera dalla potenza sensibile». Questa distanza è per certo segnata dalla duplice natura della stessa trattazione, vale a dire la propria forma e la propria sostanza: se dal punto di vista dalla forma – ovvero lo schema triadico di chiara ascendenza hegeliana che struttura l’opera – l’analisi di Rosenkranz risulta assai affine a quella del maestro, dal punto di vista del contenuto – che si svolge secondo una modalità descrittiva – non può che rivelare tutta la sua distanza. Mediante l’aspetto empirico-descrittivo la materia trattata può godere di vita propria evitando di fossilizzarsi in uno sterile schema teorico, ed è proprio grazie alla forza attiva di tale modalità – di gran lunga superiore alla forza statica dell’impalcatura dialettica che spesso rivela la sua inadeguatezza e la sua forzatura – che si rende possibile uno spazio dedicato all’analisi del “brutto”: qualora si volesse infatti prescindere da tale aspetto, l’opera di Rosenkranz perderebbe immediatamente il suo baricentro e il “brutto” verrebbe a costituirsi come un momento privo di particolare interesse. Non è ben chiaro fino a che punto l’autore fosse consapevole delle condizioni che hanno reso possibile la sua indagine particolare, e dunque della sua distanza rispetto al maestro.

L’Estetica del brutto ha come primissimo intento quello di . In modo del tutto contrario a quanto si possa inizialmente pensare, mai in questa opera il “brutto” arriva ad assumere una propria autonomia e assolutezza, né il “bello” giunge a perdere la sua centralità. Ciò che Rosenkranz intende mostrare è che la stessa centralità del “bello” impone l’attenzione nei confronti della sua negazione dialettica, negazione che agli occhi dell’autore è stata trattata in modo dispersivo e incidentale nell’alveo della storia delle idee. In quanto negazione, il “brutto” non può costituire un valore in sé, è bensì un “relativo” che deve necessariamente riferirsi a un assoluto, ossia all’Idea del “bello” per riuscire ad acquisire un proprio senso estetico. Il brutto non può che vivere un’”esistenza secondaria” ed essere ombra dell’idea divina originaria, e il modo di considerarlo è dunque delimitato dalla sua stessa natura. Tale “relativo” è inseparabile dal concetto di “bello”, ed è contenuto da quest’ultimo come quell’errore in sé, quel “male” in cui si può sempre cadere. Dal momento che il “brutto” può darsi solo in quanto c’è il “ bello”, si comprende come questo contrario non richieda di essere indagato in modo del tutto innovativo e peculiare per essere compreso adeguatamente, ma esige di essere sottoposto alle stesse leggi generali del bello – dell’armonia e della simmetria. Esso non può essere indagato secondo leggi proprie perché costituisce la negazione della perfezione, un quid eteronomo che di per sé è irrappresentabile se non accostato al “bello”, concetto vero, mediante il quale soltanto esso può esistere, e deve perciò trovare la propria norma e misura “fuori di sé”, nella “bellezza” stessa. Il referente dialetto del “brutto” è costituito non da un bello empirico, bensì dal bello inteso come assoluto, come «libertà dell’idea nella sua spirituale genesi creativa»: va dunque inteso come illibertà, non da concepirsi come mero difetto di libertà, bensì come sua negazione, che Rosenkranz individua manifestarsi nelle categorie del volgare, del ripugnante e della caricatura.

Viene da chiedersi: com’è possibile che l’arte, il cui scopo deve essere solo il “bello” – che è manifestazione dell’idea nella sua totalità – arrivi a raffigurare il “brutto”? Il nostro lo spiega ricorrendo alla stessa “libertà dell’idea”, da intendersi come ”libertà di autodeterminazione”: infatti, poiché è nella natura stessa dell’idea lasciare libera l’esistenza della sua manifestazione, nulla impedisce al negativo, e dunque al “brutto”, di rendersi possibile. Per quanto vivessero nell’ideale, i Greci ebbero Briarei, Ciclopi, Arpie, Chimere, déi deformi, ed è sempre presso di loro che ebbe origine la tragedia, in cui mali, vizi e nefandezze d’ogni sorta colpiscono l’occhio dello spettatore; lo stesso avviene nella poesia dantesca o nella pittura michelangiolesca o goyana e, al di là dell’arte, è con la stessa religione assoluta, quella cristiana, che il brutto si spinge fino a esibirsi nel suo pieno vigore.

La presenza del brutto vulnera il “bello” stesso, figurando come tensione e contraddizione interiori. Esso tuttavia, esattamente alla stregua di un φάρμακον, rivela la sua ambiguità di fondo nel momento in cui la sua “illibertà” scopre se stessa nello sviluppo in due possibili direzioni: da un lato può restare chiusa nella sua relatività dando vita al volgare al ripugnante, fattezze “malate” dell’arte; dall’altro, allorché si confronta con la necessità della libertà e con il “bello”, il “brutto” diviene “rimedio” dal quale ha origine il comico per opera della caricatura. Il discorso del Rosenkranz raggiunge l’apice nel momento in cui svela come la conciliazione del “bello” e del “brutto” si traduca nel sorgere di una “serenità infinità” attraverso il comico, nel quale il “brutto” riconosce la propria subordinazione al “bello” annullando la propria secondarietà e riscattandosi nel nuovo. Come deformazione di un’immagine originariamente affascinante, bella o addirittura sublime, la caricatura rammenta individualmente qualità e forme, permettendo al bello il superamento della sua negazione e ristabilendo la perfezione nell’effetto piacevole.

Chiunque oggi abbia a che fare con la concezione del “brutto” di Rosenkranz non impiegherà molto a notare quanto possa apparire lontana da noi, eredi delle Avanguardie più che dall’universo “classico” o “romantico” in cui il nostro è ancora profondamente calato. La stessa trattazione risulta inadeguata al lettore moderno, se si considerano i concetti e lo stile, ancora troppo succubi dell’universo hegeliano e in generale illuministico. Lo spirito di Rosenkranz, per quanto innovatore, non ha potuto e saputo spingersi sino al punto da proclamare il “brutto” come un valore autonomo e assoluto senza bisogno di un riscatto attraverso il comico, e spezzare così il profondo legame tra estetica e bellezza. Sarebbe interessante approfondire la questione del “brutto” rivolgendo l’attenzione anche a quanto sostenuto da Adorno nella sua Teoria estetica (1970), in cui si afferma che «l’arte deve far proprio ciò che è bandito come “brutto”, non più per integrarlo, per mitigarlo o per fargli accettare di esistere ricorrendo all’umorismo […] bensì per denunciare, insieme col “brutto”, il mondo che lo crea e lo riproduce secondo la propria immagine» (p. 83). Ciononostante, l’opera di Rosenkranz continua a mantenere un certo fascino soprattutto in virtù della delineazione dei diversi tipi di brutto – assenza di forma, scorrettezza, deformazione – e della descrizione delle sue diverse forme – in un’analisi che dal “meschino” giunge sino al “satanico” – le quali, pur apparendo molto spesso arbitrarie, favoriscono sicuramente spunti e riflessioni interessanti soprattutto all’osservatore della nostra epoca, tempo in cui formulare giudizi e considerazioni profonde sull’arte sembra essere divenuto sempre più malagevole.

Bibliografia

Karl Rosenkranz, Estetica del brutto, trad. it. a cura di Sandro Barbera, presentazione di Elio Franzini, Aesthetica, Palermo 2004.

Maria Luisa Bonometti, L’ambiguità della bruttezza nel pensiero estetico di Rosenkranz, http://www.filosofia.unimi.it/itinera

Pietro Emanuele, Apologia dell’osceno, TEA, Milano 2004, cap. XII, Filosofi a luci rosse.

Theodor W. Adorno, Teoria estetica, trad. it. a cura di E. de Angelis, Einaudi, Torino 1975.