Nessun’altra espressione rende forse così bene l’idea dell’atteggiamento dei fratelli Goncourt nei confronti della società che li circonda (GONCOURT 2007, vol. I, t. III, p. 1557). Il diario di Jules ed Edmond de Goncourt, su cui si basa il presente articolo, è infatti stato definito un monumento alla bassezza e alla stupidità umana (cfr. la prefazione di Robert Kopp a Goncourt, E. et J., Journal. Mémoires de la vie littéraire, 3 voll., Paris, Robert Laffont, 1989).
Redatto tra il 1851 e il 1896, in un periodo storico che non permette la libera espressione, soprattutto per quanto riguarda gli anni del regime bonapartista di Napoleone III (1851-1870), il Journal diventa il luogo in cui riversare l’orrore che i contemporanei ispirano ai due letterati.
Edmond de Goncourt (1822-1896) e il fratello minore Jules (1830-1870) cominciano la redazione del loro famoso diario il 2 dicembre 1851, data di due eventi memorabili: il colpo di stato di Louis-Napoléon Bonaparte, destinato a rifondare l’impero in Francia, e la pubblicazione di En 18…, debutto letterario dei due fratelli (GONCOURT 1851). L’inevitabile oscuramento del secondo evento da parte del primo crea da subito un forte legame tra la vita personale dei due autori e gli avvenimenti storici in cui si trovano loro malgrado coinvolti. Tutto il diario sarà un veicolo per dimostrare come sin dall’inizio della loro carriera il destino si sia divertito a non far loro raggiungere il meritato successo.
L’idea di un Journal trova le sue radici nel viaggio compiuto in Algeria nel 1849, dove i Goncourt cominciano ad accostare appunti scritti agli acquarelli che rappresentano il paesaggio. È però negli anni successivi che il diario passerà dalla forma di elenco di appunti episodici a quella di regolare registrazione del vissuto. In questo senso, diventa anche ben più di un’opera a quattro mani. La voce è unica, è la voce di due menti che pensano di concerto, come di concerto vivono. Edmond e Jules infatti dividono lo stesso appartamento, le stesse passioni, le stesse attività, persino le stesse amanti, cosa che scandalizza i contemporanei. Di ritorno da una visita, da una cena o da uno spettacolo, i due fratelli scrivono di getto quello che hanno vissuto, visto, sentito, come stenografi e fonografi della vita istantanea: «un Journal che mira a catturare la vita dal vivo, accordarle una verità momentanea, che si affretta a trascrivere, stenografare, la parola altrui nel presente della sua enunciazione». Come scrive Edmond nella prefazione all’edizione del 1887:
Il Journal è la nostra confessione di ogni sera, la confessione di due vite inseparabili nel piacere, nel lavoro, la pena di due pensieri gemelli, di due spiriti che dal contatto con gli uomini e le cose ricevevano impressioni tanto simili, tanto identiche, così omogenee che questa confessione può essere considerata come l’effusione di un solo io, di un solo essere.
In realtà, la scrittura di concerto viene interrotta dalla morte di Jules nel 1870, dopo lunghi, difficili mesi di decadimento fisico e mentale provocato dalla sifilide. Inizialmente determinato a interromperne la redazione, Edmond riprenderà in mano il Journal per raccontare l’agonia e la morte del fratello, accanto alla guerra franco-prussiana, la caduta dell’impero e i terribili giorni della Comune. Dal 1870 al 1896, anno della sua morte, sarà Edmond a portare avanti l’opera.
Il titolo completo del diario è Journal. Mémoires de la vie littéraire, a identificare un documento che è sì intimo, ma che vuole avere una portata generale, essere testimonianza della vita letteraria in sé. Si tratta di «memorie», ma parziali e di parte, perché l’obiettivo non è dare un quadro completo ed equilibrato della società del tempo. Sono gli ambienti di usuale frequentazione del Tout-Paris letterario quelli che vengono dipinti: il salotto della principessa Mathilde, prima in rue de Courcelles e poi a Saint-Gratien, i café-restaurant, come Brébant, Philippe, il Pied-de-Mouton e soprattutto Magny, luogo di celebri dîner che riunivano Flaubert, Saint-Victor, Gautier, Sainte-Beuve, George Sand, i teatri e le redazioni di alcuni giornali come L’Artiste. È su queste scene che si muovono i personaggi descritti e fatti rivivere dai Goncourt attraverso quelli che sono stati definiti dei veri e propri «ritratti in frasi», sfilata umoristica e impietosa di quelle personalità, più o meno conosciute, che caratterizzavano il mondo letterario dell’epoca. Gli uomini e le donne che hanno incontrato sulla loro strada…
li abbiamo ritratti così com’erano in un dato giorno e a una data ora, ripresentandoli nel corso del nostro Journal, mostrandoli di volta in volta sotto aspetti differenti, a seconda dei loro cambiamenti, dei loro mutamenti, scostandoci da quei memorialisti che presentano le loro figure storiche dipinte in blocchi monocromi o con colori resi freddi dalla distanza e dall’eclissarsi dell’incontro – dunque con l’ambizione di rappresentare gli uomini, così mutevoli, nella loro verità momentanea.
Il 22 novembre 1862 i Goncourt scrivono: «È terribile… tutte le cose che del passato si perdono… le parole, le conversazioni!» (GONCOURT 2007, vol. I, t. II, p. 1053).
È nel tentativo di ovviare a questa terribile perdita che cercano di far rivivere i contemporanei nel loro aspetto animato, tramite l’«ardente stenografia» di una conversazione, la sorpresa espressa da un gesto, tramite quei nonnulla della passione in cui si rivela un uomo, quel je-ne-sais-quoi che restituisce l’intensità della vita, il tutto immerso in quella febbre che caratterizza la vita inebriante di Parigi. Si tratta di «fare vita» sul ricordo ancora caldo, di fissare in una forma ciò che non ha ancora forma, di cristallizzare la vita senza accademizzarla, ma riproducendo il transitorio e l’evanescente.
Fondamentale, in questa rappresentazione, è la verità, inseguita, del resto, in tutte le opere dei Goncourt. Una verità che è sempre scomoda e avversata dall’esterno:
Ah, la verità! Che dico la verità! No, ma soltanto una milionesima parte di questa verità, com’è difficile dirla, e come ve la fanno pagare! Tanto peggio, io l’amo, questa verità, e cerco di dirla, così com’è consentito ancora in vita, con dosi di un granulo omeopatico… Eh sì, per questa verità così com’è, se occorre, saprei morire come altri muoiono per una patria… (GONCOURT 2007, vol. II, t. II, p. 1248).
Infatti, quando Edmond nel 1887 comincia a pubblicare il Journal, in una forma fortemente ridotta ed epurata, presso Charpentier, riesce ad attirarsi le ire di tutto il mondo letterario. Non era la prima volta; i fratelli Goncourt erano già riusciti nell’intento pubblicando il romanzo a chiave Les hommes de lettres presso l’editore Dentu nel 1860. Nonostante siano solo estratti, gli si rimprovera di aver riprodotto le conversazioni spesso molto libere dei dîner Magny, che non erano destinate al pubblico, di aver riportato osservazioni e giudizi scortesi, se non addirittura calunniosi, degli uni sugli altri, di aver ridicolizzato persone rispettabili svelando la loro nullità. Ogni pubblicazione di un nuovo volume (saranno nove in totale fino al 1896) fa scorrere sudori freddi sulla schiena delle personalità che temono di vedervi comparire il proprio nome. Edmond commenta: «Sì, sì, questi accademici, il fatto che si possa rivelare la loro umanità al pubblico li infastidisce». E Zola recrimina: «Ma le vostre memorie sono le nostre memorie!» (GONCOURT 2007, vol. II, t. III, p. 1953).
Nonostante Edmond nel suo testamento avesse dato disposizioni affinché, passati vent’anni dalla morte, il manoscritto del diario fosse depositato alla Bibliothèque Nationale de France e liberamente consultato e pubblicato, questo non accade. Sarà solo dopo la seconda guerra mondiale che l’Académie Goncourt leverà l’interdetto alla lettura della versione integrale del diario e alla sua pubblicazione, ma solo perché ormai si è esaurita la generazione delle persone che vi vengono citate. Ancora nell’edizione curata da Robert Ricatte nel 1956 mancano alcuni nomi e sono stati censurati alcuni giudizi su personaggi famosi, come Hugo o Flaubert, per disposizione dell’Académie.
Christiane e Jean-Louis Cabanès stanno lavorando ancora oggi a un’edizione critica integrale.
Proprio per questa reticenza nel divulgare un’opera non solo di reale valore letterario, ma anche fonte imprescindibile per lo storico della società parigina del tempo, pare interessante proporre nel presente articolo alcuni dei caustici ed ironici ritratti dipinti dai fratelli Goncourt per immortalare i loro amici più noti al grande pubblico.
Una prima interessante coppia di ritratti è quella che mette a confronto Alexandre Dumas padre (1802-1870) e Alexandre Dumas figlio (1824-1895). I fratelli Goncourt hanno occasione di frequentare prevalentemente il più giovane, ma le descrizioni di costui, particolarmente dure, spesso non riescono a prescindere dall’umiliante paragone col padre. Il successo e il generale apprezzamento nei confronti di Dumas figlio non è altro che un riflesso della fama del genitore e l’unico motivo della sua riuscita. Il ritratto fisico e morale dell’autore de La dame aux camelias (1848) è impietoso:
Una specie di gigante, dai capelli grigi da negro, un piccolo occhio da ippopotamo, chiaro, fine, che vigila anche quando appare velato. Al centro, i tratti di un viso enorme e blaterante in basso. C’è in lui un non so che del ciarlatano e del commesso viaggiatore da Mille e una notte. È il produttore sobrio, l’atleta del feuilleton, che non beve, non prende caffè, non fuma. Di parola è sovrabbondante, ma senza smalto, senza calore, senza brio: sono fatti che pesca, con voce roca, dal fondo di un’immensa memoria. Parla quasi sempre di sé, con vanità infantile e disarmante. (GONCOURT 2007, vol. I, t. III, p. 1367)
Dumas ha qualcosa di brutto nel volto, sono le palpebre, la cui pelle somiglia a quella delle palpebre degli uccelli predatori (GONCOURT 2007, vol. II, t. II, p. 802).
Edmond e Jules sono particolarmente critici nei confronti del suo stile di vita, improntato al calcolo, al buonsenso salutista e alla mancanza di passioni:
Dumas l’uomo più saggio del mondo, non una passione, fotte regolarmente senza amore, perché guasta il sangue e il tempo, contrario al matrimonio perché impegnativo, il cuore regolato come un orologio, la vita come uno spartito. Egoista in sommo grado, sprofondato nel benessere il più borghese, il più privo di emozioni e di slanci, facendo di tutto per non averne (GONCOURT 2007, vol. I, t. I, p. 371).
Una parte di letterati colloca la propria salute alla Cassa di Risparmio, biasimando le proprie passioni, rinnegando, di punto in bianco, le proprie abitudini, tralasciando i propri vizi, come Dumas che, su consiglio del medico, ha smesso di fumare e fa tutti i giorni a piedi il giro del lago del Bois de Boulogne. Tutti i giorni a cena lo stesso menù: zuppa grassa, filetto, formaggio. Un addestramento di ragione e saggezza igienica. Una regolarità da pendolo, una moderazione e una disciplina di tutto l’essere. Ma il genio, la fiamma intellettuale, possono accompagnarsi alla regola e al gilè di flanella?
Talvolta si trovano costretti a riconoscere una certa verve alla conversazione dello scrittore, ma il commento è sempre declinato in chiave negativa:
Stasera, in casa della Principessa, abbiamo sentito per la prima volta un po’ di spirito di Dumas figlio. Verve grossolana ma inarrestabile. Risposte sciabolate a destra e a manca senza riguardo alcuno, un aplomb che arriva all’insolenza, di cui dà prova nei suoi discorsi. Il tutto condito da un fiele amaro, ma incontestabilmente spirito originale, mordace e tagliente, sferzante, che trovo superiore allo spirito che l’autore drammatico inserisce nei suoi drammi, per concisione, e taglio a spigolo vivo, che questo spirito ha nella sua immediatezza (GONCOURT 2007, vol. I, t. III, p. 1657-58).
Il talento di conversatore di Dumas figlio è soprattutto di avere trasferito il tono della cattiva società nella buona (GONCOURT 2007, vol. I, t. III, p. 1666).
Il giudizio nei confronti dell’autore drammatico e del suo pubblico non è meno pungente e ironico:
Prima di Idées de Madame Aubray. La prima di Dumas figlio, cui assisto dopo La dame aux camélias. Pubblico singolare, che solo lì si può vedere. Non si tratta di una semplice rappresentazione teatrale, ma di una sorta di messa davanti a un pubblico di fedeli. Una claque che sembra officiare, strabuzzamenti d’estasi, spasmi di piacere che ad ogni parola ripetono: «Adorabile!». L’autore dice: «L’amore è in primavera, non dura tutto l’anno». Una selva di applausi. Riprende, rimarcando sul particolare: «Non è il frutto, ma il fiore». Raddoppio di applausi. Così per il resto. Non si giudica nulla e nulla si apprezza. Si applaude tutto, con premeditato entusiasmo e che ha fretta di esplodere. Dumas ha un grande talento: possiede il segreto di parlare al suo pubblico, a questo pubblico delle prime, di puttane, di agenti di borsa, di donne di mondo degradate. È il loro poeta, e serve loro, in una lingua alla loro portata, l’ideale dei luoghi comuni del loro cuore (GONCOURT 2007, vol. I, t. III, 1557).
Dopo l’elezione all’Académie nel 1874, la tracotante importanza del «dio Dumas» si fa insopportabile e scatena il sarcasmo di Edmond: « Io e Gesù Cristo, è così che, in questi giorni, Dumas avrebbe incominciato un suo discorso» (GONCOURT 2007, vol. II, t. I, p. 392). E ancora: «In Dumas, al dispotismo di un Dio che sente che il proprio culto non sopporta i mali dell’umanità, si unisce la monomania persecutoria delle menti minacciate da follia» (GONCOURT 2007, vol. II, t. I , p. 405). Infine il disprezzo fisico nel descrivere l’apparizione del drammaturgo a una cena presso il Ministero della Pubblica Istruzione: «E al centro di tutte queste celebrità, la schiena tarchiata e insolente di Dumas, che prende possesso del salone, un po’ come un cavapietre» (GONCOURT 2007, vol. II, t. I , P. 497).
All’avversione per l’uomo e per l’autore, si aggiunge la vena razzista, tipica del tempo e che è propria anche ai Goncourt, che non possono esimersi da commenti scorretti sull’origine di entrambi i Dumas:
Si pensi che in Dumas figlio ci sono la commistione e la confusione di tre razze. Il nonno era negro, la madre ebrea e il padre mezzo bianco. Dunque discende parimenti da Cam, Sem, Jafet. Mi pare che quest’amalgama si presti a un magnifico sviluppo oratorio (GONCOURT 2007, vol. II, t. II, p. 1076)
Il giudizio su Dumas padre, sul quale sono più gli aneddoti riportati che le osservazioni dal vivo, è positivo, anche se sempre venato da quell’intolleranza che lo fa bollare come «vecchio negro». Oltre alla descrizione fisica, è attraverso gli aneddoti e le parole da lui pronunciate che il romanziere viene descritto:
Entra, incravattato di bianco, ingilettato di bianco, enorme, sbuffando, felice come la fortuna d’un negro […] Un io enorme, debordante, ma scoppiettante e piacevolmente avvolto da una puerile vanità: «Ma che volete?», dice, «Quando a teatro non si fanno più soldi se non con delle calzamaglie che si strappano… Sì, questa è stata la fortuna d’Hostein: aver chiesto alle sue ballerine di mettere soltanto calzamaglie che si strappassero e sempre in un punto! I binocoli ne erano felici… Ma è arrivata la censura… I commercianti di binocoli sono in pieno marasma… Una féerie non è altro che questo… bisogna che i borghesi, uscendo, dicano: “Che bei costumi! Che belle scenografie! Ma che idioti gli autori!”. Quando si sente dire così, è il successo!» (GONCOURT 2007, vol. I, t. III, p. 1481).
La stima che i Goncourt hanno per Dumas padre, implica un automatico disprezzo per il figlio, che non è alla sua altezza. Due aneddoti testimoniano di questo atteggiamento, che sembra anche opinione condivisa di buona parte del milieu letterario. Il primo è raccontato da Charles-Edmond:
Dumas […], a una richiesta di notizie sul figlio, risponde: «Oh! Alexandre, lui ha quello che io non ho, io ho quello che lui non ha. Mi si chiuda in una camera con cinque donne, carta, penne, calamaio e un dramma da scrivere. In capo a un’ora i cinque atti saranno scritti e la cinque donne fottute» (GONCOURT 2007, vol. I, t. II, p. 782)
Il secondo viene riportato da Théophile Gautier ad un dîner Magny e può essere preso come summa dei giudizi dei Goncourt sugli illustri padre e figlio:
«Ma sta ancora male Dumas figlio?»
«Sapete che fa attualmente? È molto infelice. Si mette davanti a un foglio bianco, ci resta sopra quattro ore. Scrive appena tre righe. E se ne va a prendere un bagno freddo, o a fare della ginnastica, perché è fissato con l’igiene. Ritorna, trova quelle tre righe d’una sorprendente stupidità».
«Ebbene, questo si chiama essere lucidi!», dice qualcuno.
«E non lascia che tre parole! Suo padre arriva di tanto in tanto da Napoli, gli dice: “Fammi portare una cotoletta, te lo finisco io il tuo dramma!”, butta giù il soggetto, ci mette una puttana, si fa dare del denaro e riparte. Dumas figlio prende il soggetto, lo legge, lo trova ottimo, va a fare un bagno, rilegge il soggetto, lo trova stupido, lo lima per un intero anno. E quando suo padre ritorna, trova ancora le tre parole estrapolate dalle tre righe dell’anno prima!» (GONCOURT 2007, vol. I, t. II , p. 1203)
Edmond e Jules de Goncourt non sono spesso a contatto con Charles Baudelaire (1821-1867), ciononostante trovano comunque il modo di giudicarlo. Da un lato, lo considerano loro pari, insieme a Flaubert, in quanto individuo non contaminato dal mestiere, penna votata all’arte, che condivide un comune destino di condanna giudiziaria sotto il regime di Napoleone III. Ma questo giudizio si ferma al poeta, mentre nel prosatore non si vede alcuna originalità: «Traduce sempre Poe, anche quando non è più il suo traduttore e aspira a fare del Baudelaire» (GONCOURT 2007, vol. II, t. I, p. 473).
Un primo ritratto viene schizzato nell’ottobre 1857 durante una cena al Café Riche:
Baudelaire mangia di fianco a noi, senza cravatta, collo nudo, testa rasata, vera tenuta da ghigliottinato. Una sola ricercatezza: piccole mani, nette, pulite, curate. La testa di un folle, la voce asciutta di una lama. Tono pedantesco, mira a Saint-Just e ci riesce. Difende, assai ostinatamente e con una certa rude passione, dall’accusa di oltraggio alla morale, i suoi versi (GONCOURT 2007, vol. I, t. I, p. 339).
I Goncourt non riescono a trattenere il loro fastidio per il lato inquietante della personalità di Baudelaire e non capiscono coloro che lo seguono e che definiscono «gente torbida, marcia d’esibizionismo e d’oppio, quasi inquietante, di livido aspetto» (GONCOURT 2007, vol. I, t. III, p. 1473). Amanti dell’arte, trovano aberranti i suoi gusti:
Singolari nature, attratte dal brutto, dall’imperfetto, dal deforme, dal non finito! Prediligono l’aborto, la fanciullaggine, l’anomalia, il mostruoso nella bestia, il miserabile nell’effetto. Questa la storia di Baudelaire, il San Vincenzo da Paola delle croste trovate, mosca cantaride in fatto d’arte (GONCOURT 2007, vol. I, t. III, p. 1473).
E trovano di cattivo gusto il suo esibizionismo:
In questi giorni ci hanno raccontato di quel saltimbanco di Baudelaire, che aveva eletto domicilio in un piccolo albergo vicino alla ferrovia: la sua camera dava su un corridoio sempre pieno di viaggiatori, una vera stazione. La porta sempre aperta, offriva a tutti spettacolo di sé al lavoro, nell’applicazione del genio, le mani che frugavano nel pensiero, attraverso i lunghi, bianchi, capelli GONCOURT 2007, vol. I, t. III, p. 1235).
Spesso il nome del poeta viene abbinato al termine follia, ma nell’accezione tutta negativa dell’esagerazione, della posa:
La follia dello scrittore, dell’artista – vedi Méryon, Baudelaire – la sua sopravvalutazione dopo morto: essa fa lievitare tutte le loro opere come la ghigliottina fa lievitare la scrittura dei ghigliottinati nei cataloghi di autografi (GONCOURT 2007, vol. I, t. III, p. 1709).
In questa chiave è scritta quella che potremmo considerare l’epigrafe posta dai Goncourt a suggellare la vita dell’artista:
Sarei propenso a credere che la follia non intacchi le grandi volontà e i grandi talenti. Qui e là, essa ghermisce e cattura un Baudelaire, ovvero un Proudhomme esasperato, un borghese che tutta la vita si è tormentato per darsi l’eleganza d’apparire folle. Vi si è tanto applicato e profuso che è morto idiota. Pace alla posa sua (GONCOURT 2007, vol. I, t. III , p. 1700).
Quella tra i fratelli Goncourt e Gustave Flaubert (1821-1880) è stata una vera amicizia, spesso con un reale comune sentire e spesso in disaccordo. Nel Journal l’atteggiamento è ambivalente. Da un lato c’è un sincero affetto per l’uomo e una sincera stima per l’autore di Madame Bovary, dall’altro c’è la critica al provinciale e alla sua vanità.
La prima descrizione che troviamo è dell’11 maggio 1859:
Somiglia in modo straordinario ai ritratti di Frédérick Lemaître giovane, molto alto, robusto, grandi occhi sporgenti, palpebre gonfie, guance piene, baffi ruvidi e cadenti, colorito marmorizzato, picchiettato di rosso. Passa quattro o cinque mesi all’anno a Parigi, non va da nessuna parte, incontrando solo qualche amico (GONCOURT 2007, vol. I, t. I, p. 526).
L’amicizia è all’inizio totalmente positiva e si compiace del carattere generoso e affettuoso di Flaubert, ma presto emergono dei difetti, giunge la disillusione e cominciano le critiche:
In fondo questa natura franca, leale, aperta, furiosamente effusiva, è priva di quegli atomi a uncino che fanno di una conoscenza un’amicizia. Ci troviamo con lui allo stesso punto del giorno in cui l’abbiamo conosciuto. Se lo invitiamo a cena, si rammarica ma dice che gli riesce di lavorare la sera soltanto. Che abbaglio! Questi individui – che i borghesi vedono sempre nelle feste, nei bagordi, con una vita più intensa rispetto agli altri – non hanno una sera da poter dedicare all’amicizia e alle relazioni. Artigiani solitari e sprofondati in se stessi, vivono lontano dalla vita, con un pensiero dominante e un’opera! (GONCOURT 2007, vol. I, t. II, p. 629).
Oggi sappiamo che esistono delle barriere tra noi e Flaubert. C’è in lui un che del provinciale, e d’affettato. Si capisce che i suoi grandi viaggi, un po’ li ha fatti per stupire i ruennesi. Ha animo grossolano e pesante come il suo corpo. Le raffinatezze sembrano non sfiorarlo neppure. È sensibile soprattutto alla grancassa delle frasi. Poche idee, nella sua conversazione. E quelle poche, presentate con roboante solennità. Ha uno spirito declamatorio, così pure la voce. Le storie, le figure che schizza hanno l’odore dei fossili di una sotto-prefettura. Porta dei gilè bianchi, vecchi di dieci anni […] È goffo, eccessivo, privo di leggerezza in tutte le cose […] Manca di charme, la sua allegrezza di bove (GONCOURT 2007, vol. I, t. II, pp. 638-639).
La critica alla grossolanità di Flaubert, alla sua indole provinciale e “normanna”, diventa un elemento ricorrente, ma questo non impedisce a Jules ed Edmond di godere della compagnia dell’amico. I loro incontri sono infatti molto frequenti, sia che si tratti di visite personali, che di cene letterarie da Magny, senza dimenticare le domeniche nella sua casa di boulevard du Temple.
Con gli anni un nuovo elemento negativo si aggiunge al quadro tracciato dai Goncourt, e cioè un aspetto calcolatore e avido di vanità borghesi che all’inizio era celato:
Flaubert, in fondo, una grande natura attratta piuttosto da cose grossolane che delicate, emozionato soltanto dalla qualità del grandioso, del voluminoso, dell’esagerazione. La sua percezione dell’arte è quella di un selvaggio. Egli ama, insomma, i colori sgargianti, la paccottiglia: è una specie d’Omero d’Haiti. Si nota in lui un dispiegamento furioso di gesti, di voce febbrile, di testimonianze violente d’ogni genere, e lassù, tuttavia, sempre l’indugio prudente e borghese. E malgrado lo incalziate, sempre lo troverete fermo sulla soglia dell’accesso.
Altro miscuglio: sotto la professione d’indifferenza e disprezzo del successo, è possibile riscontrare sotterranei intrighi, un po’ di recondito, e un’abile condotta di vita per arrivare al successo […].
È un uomo che, per l’impeto che mette nelle sue opinioni, sembra averle sperimentate; ma gli derivano dalle lettere più che da se stesso. Ad ogni istante, si rivela, sotto l’indipendenza di alcune, il timore dell’opinione pubblica, una paura di provinciale per l’opinione degli altri (GONCOURT 2007, vol. I, t. II , p. 969).
Un fatto, in particolare, colpisce i Goncourt. L’editore Lévy paga Flaubert 10.000 franchi per Salammbô, ma pubblicamente viene dichiarata una cifra tre volte superiore solo per farsi pubblicità. Questa forma di vanità e di orgoglio, a dispetto delle dichiarazioni di disinteresse per il successo, rendono l’amico oggetto di accesa e amara critica nel Journal. Questo aspetto del carattere viene, inoltre, ricondotto a quella natura provinciale che vuole sbalordire, che va a cercare l’originalità a Cartagine invece che accanto a sé. Anche il salotto della Principessa Mathilde, per ansia di stupire, viene trasformato in un salotto di provincia:
A ogni storia che si racconta, si può esser certi che lui dirà, sia la storia finita o meno: «Oh! Ne so una migliore!» e a ogni persona che si nomina: «Io la conosco meglio di lei». Goffa, decisamente goffa natura (GONCOURT 2007, vol. I, t. III, p. 1644).
Rido tra me nel vedere questo derisore di tutte le umane glorie essere così brutalmente affamato di vanità borghesi (GONCOURT 2007, vol. I, t. II, p. 1256).
La stessa creatività letteraria dello scrittore non viene risparmiata. Del «selvaggio accademico», dello «sgobbone», viene criticata l’eccessiva laboriosità nello scrivere, che rende la sua produzione qualcosa di faticoso ed estenuante, spesso per un magro risultato, per quello che viene definito il frutto di un’ingegnosità applicata, priva di originalità. La prosa è spesso pesante ed è possibile apprezzarla solo facendo quello che fa Flaubert stesso: declamarla a voce altissima, con la «voce di toro» dell’autore, col suo «sottofondo di bronzo».
Flaubert racconta che i due mesi in cui è rimasto chiuso in una stanza, la calura gli aveva dato come un’ebbrezza da lavoro. Lavorava quindici ore al giorno. Andava a letto alle quattro del mattino, e, a volte, si stupiva di ritrovarsi seduto allo scrittoio sin dalle nove. Un ribollire interrotto, la sera, soltanto da un bagno nella Senna. Il prodotto di queste novecento ore di lavoro è un racconto di trenta pagine (GONCOURT 2007, vol. II, t. I, p. 430).
Al di là delle critiche, il legame con Flaubert è molto stretto ed Edmond si lascia sfuggire più di una riga calorosa:
Flaubert, a condizione di lasciargli il ruolo di protagonista e di buscarsi un raffreddore con la sua mania di spalancare le finestre a ogni istante, è uno dei camerati più spassosi. Ha una buona allegria e una risata da fanciullo contagiose, e nel contatto della vita quotidiana si sviluppa in lui una tale affettuosità, non priva di fascino (GONCOURT 2007, vol. II, t. I , p. 538).
E in occasione della morte dell’amico, emerge il vero valore di un legame durato più di vent’anni. Quando arriva il telegramma che annuncia la triste notizia:
Per qualche tempo sono rimasto così sconvolto da non capire cosa stessi facendo, o quale città stessi attraversando in carrozza. Ho sentito che un legame, a volte allentato ma indissolubile, ci univa profondamente. E oggi ricordo, con una certa emozione, la lacrima tremolante su uno dei suoi cigli, quando mi abbracciò dicendomi addio, sei settimane or sono, sulla soglia della sua porta.
In fondo eravamo i due vecchi campioni della nuova scuola e, oggi, io mi sento molto solo (GONCOURT 2007, vol. II, t. I , p. 624-25).
Una figura protagonista del Journal e che è possibile accostare a quella di Flaubert, è Théophile Gautier (1811-1872), che i fratelli Goncourt conoscono sin dagli anni della comune militanza al giornale L’Artiste e al cui stile hanno avuto modo di ispirarsi nel loro primo romanzo. Gautier è un personaggio per cui non è possibile nascondere stima e ammirazione. Malgrado l’aspetto fisico sonnolento, la sua voce, il suo spirito e le sue doti di conversatore brillante stregano letteralmente Jules ed Edmond:
Gautier, faccia cadente, tratti svigoriti, un impasto di linee, un sonno della fisionomia, l’intelligenza arenatasi in una massa di materia, una stanchezza da ippopotamo, intermittenze della comprensione, sordo alle idee, con allucinazioni uditive, sente da dietro quando gli si parla di faccia (GONCOURT 2007, vol. I, t. I, pp. 253-54).
Visto Gautier, orecchio assopito, dolce e sfiorito sorriso negli occhi e sulle labbra. Frase lenta, voce troppo piccola rispetto al corpo, stonata, e tuttavia, col tempo, con intonazioni armoniose e piacevole. Conversazione semplice, netta, senza giri di metafore, che va dritta all’idea senza affrettarsi. Grande concatenazione logica in ciò che dice, con squarci qua e là di grande erudizione, che lascia trasparire senza esibire. Memoria straordinaria, fotografica (GONCOURT 2007, vol. I, t. I, p. 284).
Gautier copre la sua voce [di Sainte-Beuve] con la sua grande loquela, facendo scorrere le sue immagini, le sue citazioni, e i pensieri di una superba crudezza, il buon senso, la scienza, in un torrente di grassa eloquenza, buffa, ardita, magnifica (GONCOURT 2007, vol. I, t. II, p. 1151).
La verve di Gautier riesce a dare vita ad ogni conversazione, anche quando l’ambiente è sfavorevole, come alle serate della Païva, famosa courtisane enormemente ricca e con velleità artistico-letterarie:
E Gautier, in questa casa inospitale sotto tutti i punti di vista, accanto a questa donna, indietreggiando bruscamente per paura di bruciarle il vestito con il sigaro, Gautier dissemina instancabilmente paradossi, elevati propositi, pensieri originali, le perle della sua fantasia. Che conversatore! Di molto superiore ai suoi libri. E sempre nel discorso, ben al di là di ciò che scrive! Che regalo per gli artisti questa lingua a doppio timbro, con le due note, spesso mischiate, di Rabelais e di Henri Heine, della grossa enormità e della tenera malinconia (GONCOURT 2007, vol. I, t. III, p. 1636).
Anche il suo modo di scrivere è particolare ed è con le parole colorite dello stesso Gautier che ce ne viene data una vaga idea:
Dopo aver fatto colazione, fumo. Mi alzo alle sette e mezza, e così faccio le undici. Allora trascino una poltrona, dispongo sul tavolo le carte, le penne, l’inchiostro – il cavalletto della tortura. Ma mi annoio. Scrivere mi ha sempre annoiato. E poi è inutile!… Scrivo pacatamente come un pubblico scrivano. Non vado di fretta – lui mi ha visto – ma progredisco sempre, perché, credetemi, non cerco il meglio. Un articolo, una pagina sono cose che vengono di getto. È come un bambino: si può fare, si può non fare. Non penso mai a quello che sto per scrivere. Prendo la penna e scrivo. Sono uno scrittore, so il mio mestiere. Eccomi davanti a un foglio, come il clown sulla pedana… E poi, ho una sintassi bene ordinata in testa. Getto le mie frasi in aria, come dei gatti. Sono certo che ricadranno sulle zampe. È molto semplice. Basta avere una buona sintassi. Mi impegno a insegnare come si scrive a chiunque. Potrei aprire un corso di feuilleton in venticinque lezioni. Prendete questo mio articolo… ecco, niente cancellature! (GONCOURT 2007, vol. I, t. I, p. 254).
Un modo di scrivere agli antipodi di quello di Flaubert, ma dovuto anche a quella sorta di «schiavitù letteraria» cui Gautier è costretto per mantenersi. D’altra parte questa è la sua filosofia di vita: «Ci si deve occupare di assestare qualche botta evitando di buscarsi la sifilide, sistemare bene le proprie cose, avere dei progetti passabili… e, soprattutto, scrivere bene. Ecco ciò che importa, delle frasi ben fatte, qualche metafora, sì qualche metafora, ciò rende sopportabile la vita» (GONCOURT 2007, vol. I, t. II, p. 696).
Anche Gautier, però, come Flaubert, cede alla sete di gloria e per un lungo periodo tenterà di farsi eleggere all’Académie Française. I suoi sforzi non andranno a buon fine, ma intanto lui si sarà umiliato in tutti i modi presso il salotto della Principessa Mathilde:
Questa vacca, come lo chiamano ormai brutalmente e giustamente – pronto a passare per tutte le bassezze, per tutte le umiliazioni, e tutte le personali piattezze, e tutte quelle che potranno essere fatte a suo nome, pur di infilarsi pietosamente all’Académie (GONCOURT 2007, vol. I, t. III, p. 1701).
È straordinario come quest’uomo si ferocizzi e assuma una crudele rozzezza nel favore e nelle grazie ufficiali. L’esasperata ruffianeria, la sua bassa indole, e l’attuale, affliggente e offensivo, oramai, per gli amici, spettacolo delle più basse umiliazioni, delle cortigianerie più vili, che lui unisce, senza soluzione di continuità, alle più grossolane mancanze di tatto, alle più brutali, alle più rivoltanti pose, all’enorme e furibonda volontà di stupire del poeta più maleducato che sia mai esistito (GONCOURT 2007, vol. I, t. III, p. 1731).
Théophile Gautier e Gustave Flaubert vengono accomunati per quanto riguarda lo stile che «sembra, a tratti, un sontuoso e pesante drappo funebre su un’opera» (GONCOURT 2007, vol. II, t. I, p. 652). Ma è Flaubert che viene accusato di copiare, soprattutto nell’atteggiamento, l’autore de Le Capitain Fracasse:
Mi accorgo che tutti i paradossi di Flaubert non sono suoi, ma vengono da Gautier. Flaubert non fa che adattare ai detti enormi, pronunciati da Théo con la voce più dolce, uno sbraitamento da rompere i vetri (GONCOURT 2007, vol. II, t. I, p. 535).
[Flaubert] fu solo una contraffazione di Gautier, non certamente nei suoi libri, ma nella sua persona morale e intellettuale (GONCOURT 2007, vol. II, t. II, p. 1124).
Al di là di questi commenti e di queste accuse, è però la descrizione delle serate insieme, folli e improbabili, dai discorsi esagerati e paradossali, quella che ci affascina come lettori, come quella di un dopocena a casa di Gautier a Neuilly:
Alle nove lo troviamo ancora a tavola, che festeggia il principe Radziwill, suo ospite, con un vinello di Puoilly, definito una delizia. È felice come un bambino: uno di quegli stati di grazia dell’intelligenza.
Ci si alza da tavola e si passa in salotto. Si chiede a Flaubert di danzare l’idiota dei salotti. Si fa dare un vestito da Gautier, si solleva il colletto, non so che cosa faccia dei suoi capelli, del suo volto, della sua fisionomia, ma eccolo di colpo trasfigurato in formidabile caricatura dell’ebetismo. Gautier, per spirito d’emulazione, si toglie la redingote e, tutto sudato, imperlato, il suo grosso sedere che gli schiaccia i garretti, si mette a danzare, per noi, il passo del creditore. La serata si conclude con dei canti boemi, terribili melodie di cui il principe Radziwill splendidamente ruggisce gli acuti stridenti (GONCOURT 2007, vol. I, t. II, p. 942).
I fratelli Goncourt conoscono e stimano George Sand (1804-1876), soprattutto in quanto autrice dell’Histoire de ma vie:
Nel coacervo di una pubblicazione speculativa, ci sono stupendi quadri, nozioni inestimabili sulla formazione della immaginazione di uno scrittore, commoventi ritratti di caratteri, scene semplicemente dette, come la morte settecentesca della nonna e il suo delicato eroismo, la morte parigina della madre, che strappano l’ammirazione e le lacrime!
È un grande documento – malauguratamente diluito – di psicologia e di analisi, in cui il talento di Mme Sand, nel vero, l’osservazione di sé e degli altri, la sua memoria che ritrae, sbalordiscono e sorprendono (GONCOURT 2007, vol. I, t. III, p. 1696).
Si rimproverano di averla sottovalutata e, in effetti, nel Journal gli epiteti usati per definirla sono spesso piuttosto coloriti: «ruminante semiassonnato», «sfinge ruminante», «vacca d’Api» con una «gravità di pachiderma». Ciononostante, si può dire che i Goncourt le portino, a loro modo, rispetto e usino una certa delicatezza ironica nel descriverla:
È lì accanto a me, con la sua bella, incantevole testa, in cui, con gli anni, risalta sempre più il tipo della mulatta […] Ascolta e non parla […] Ha piccole mani, di una meravigliosa delicatezza, quasi interamente nascoste nei polsini di pizzo (GONCOURT 2007, vol. I, t. III , p. 1480).
Mme Sand, che ho visto lunedì scorso da Magny, ruminante e bagnata, con delle cose dorate nei vecchi capelli, che le davano l’aria di una ghul che esce da una tomba etrusca (GONCOURT 2007, vol. I, t. III, p. 1535).
Mme Sand è sempre più mummificata, ma piena di gentilezze, del buonumore di una vecchia dama del secolo scorso (GONCOURT 2007, vol. II, t. I, p. 218).
In effetti, Edmond e Jules l’hanno conosciuta quando aveva quasi cinquant’anni, quindi in un momento in cui il suo fascino stava sfiorendo e subentrava il mito. Nelle loro descrizioni George Sand è già un’icona: più volte viene rappresentata come una sagoma scura che si staglia davanti a una finestra, i movimenti lenti, la voce fredda, una figura matronale immobile che si illumina a tratti del sigaro appena acceso. È dai racconti di chi l’ha conosciuta da giovane, quando si vestiva da uomo, che emerge una donna intrigante e dinamica, circondata da amori e passioni. Passioni che però i Goncourt non possono fare a meno di legare ai «gusti di un maschio un po’ rozzo», a un carattere poco femminile e a un fondo di gelo (GONCOURT 2007, vol. I, t. II, p. 1193).
È con la voce di Théophile Gautier che ci viene presentata la vita di Sand nel castello di Nohant:
«Si pranza alle dieci. All’ultimo rintocco, quando la lancetta è sulle dieci, ognuno si mette a tavola senza aspettare. Mme Sand arriva con l’aria da sonnambula e resta addormentata per tutto il pranzo. Dopo pranzo si va in giardino, si gioca a bocce, ciò la rianima. Si siede, si mette a chiacchierare. A quell’ora, di solito, la conversazione è incentrata su problemi di pronuncia, su come pronunciare, ad esempio, ailleurs e meilleurs. Ma il piacere più grande della conversazione di gruppo sono le salacità stercorarie».
«Bah!».
«Sì, merda e peti sono il colmo dell’allegria. Marchal, coi suoi venti, riscuote parecchi successi. Ma nessun accenno al rapporto sessuale! Credo che se si facesse un’allusione in tal senso, si verrebbe messi alla porta…
Alle tre Mme Sand risale a scrivere fino alle sei. Si cena. Con l’esortazione di fare un po’ in fretta, per lasciare il tempo di cenare a Marie Caillot, la cameriera, una piccola Fadette, che Mme Sand ha pescato nei dintorni, per farla recitare nei suoi drammi e che, dopo cena, viene a sedere in salotto. Dopo cena, Mme Sand fa, senza dire una parola, dei solitari fino a mezzanotte… Ad esempio, il secondo giorno, ho cominciato a dire che se non si parlava di letteratura, me ne andavo… Ah, di letteratura! Sembrava cascassero dalle nuvole…
Occorre dirvi che in questo momento si occupano di una sola cosa, di mineralogia. Ciascuno, il suo martello: non si esce senza.
Ho infine affermato che Rousseau era il peggiore scrittore di lingua francese. Il che ha comportato una discussione con Mme Sand fino all’una del mattino» (GONCOURT 2007, vol. I, t. II , pp. 1203-4).
Ciò che fa sbalordire, e quasi inorridire, i Goncourt e i loro amici è l’estrema prolificità della scrittrice:
Non può sedersi in una stanza senza che spuntino penne, inchiostro blu, cartine da sigarette, tabacco turco e carta da lettere a righe. È una vera scarica diarroica! Ricomincia a mezzanotte fino alle quattro del mattino. Insomma, sapete cosa le è capitato? Qualcosa di mostruoso! Un giorno finisce un romanzo all’una del mattino: «To’, ho finito!», dice. E ne comincia un altro. Scrivere è per lei una funzione organica… (GONCOURT 2007, vol. I, t. II , pp. 1203-4).
La capacità di scrivere di George Sand e il suo talento non hanno nulla di femminile. I misogini Goncourt hanno le idee chiare a questo proposito: il genio è maschio e le donne che ne presentano un pizzico sono strane creature ermafrodite che hanno assorbito la verve dei loro amanti.
Direi rudemente di essere convinto che se si facesse l’autopsia di donne di originale talento, come Mme Sand o Mme Viardot, etc., si troverebbero in loro degli organi genitali molto vicini al maschio, dei clitoridi un po’ parenti delle nostre verghe (GONCOURT 2007, vol. II, t. IV, p. 2260).
Le donne non hanno mai fatto niente di ragguardevole se non andando a letto con molti uomini, succhiando loro il midollo morale: Mme Sand, Mme de Staël. Credo che mai si troverà una donna virtuosa che valga due soldi d’intelligenza. Mai una vergine ha prodotto qualcosa (GONCOURT 2007, vol. I, t. II, p. 917).
A conclusione del cammeo, e a commento della condotta sessuale di George Sand, uno scambio di battute della scrittrice col genero riportato nel Journal nel 1852:
Mme Sand: «Farò conoscere a tutti la sua condotta…».
Clésinger: «E io scolpirò il suo culo. Tutti lo riconosceranno» (GONCOURT 2007, vol. I, t. I, p. 41).
Molti altri ritratti potrebbero essere riportati attingendo al Journal e molti altri filoni potrebbero essere seguiti. Ma quella che abbiamo proposto è una piccola galleria e le parole migliori per chiuderla, nella rabbia o nell’esaltazione, sono quelle di Edmond de Goncourt stesso:
Ah! La difficoltà di dire la milionesima parte della verità… Tutta questa ipocrisia della società… di queste persone da circolo, la maggior parte dei magnaccia, loschi agenti di Borsa, infetti porci. Ah! In certi momenti, sono davvero stanco di tutto ciò, e avrei voglia di entrare nella tranquillità di una vecchiaia borghese (GONCOURT 2007, vol. II, t. II, p. 1133).
Riflettendo su quanto diversi siamo, mio fratello ed io, dagli altri, quanto il nostro modo di vedere, di sentire, di giudicare, fosse particolare – e ciò naturalmente senza affettazione e posa – su quanto il nostro noi non fosse un’originalità acquisita a forza di braccia, come quella di Aubryet, e un po’ anche quella di Baudelaire, non posso impedirmi di credere che l’opera che abbiamo prodotto sia straordinaria (GONCOURT 2007, vol. II, t. I, p. 523).
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