logo fillide

il sublime rovesciato: comico umorismo e affini

Copertina Numero 01

 settembre 2010

Saggi e rassegne

Andrea Felis

Per una filosofia di Woody Allen

Perché Woody Allen?

Perché il signor Allan Stewart Königsberg (il nome è talvolta una maledizione, in questo caso una profezia) è diventato nel tempo, senza dirlo troppo in giro, uno dei pensatori più interessanti, ricchi, innovativi e profondi del secolo da poco finito, ma soprattutto, nonostante la difficoltà del suo pensiero e l’arditezza delle sue proposizioni, uno dei più noti. Certo, per farlo ha dovuto nascondere il suo vero nome, che lo avrebbe rivelato subito come un pensatore non troppo lontano da un altro filosofo nato nella città di cui il Nostro porta il nome, Immanuel Kant.

Certo, un pensiero difficile: il linguaggio spesso è piuttosto ellittico, e tortuose le svolte concettuali; la lingua materna usata per esprimere e diffondere la sua concezione del mondo è la più diffusa sul pianeta e, a maggior ragione, la meno padroneggiata in profondità, l’inglese/americano: ma la sua cultura è perlopiù quella dell’Europa centrale, infarcita di riferimenti letterari del secolo decimonono, i classici – e non solo – delle grandi letterature tedesca, francese, russa. Ma il tutto complicato dalla forte componente ebraico-orientale, ashkenazita e di lingua e cultura jiddish, traslata e arricchita dalla cornice nord-americana, tra Brooklyn e Manhattan.

A complicare il tutto, il fatto che, non pago di voler costruire una filosofia così tormentata e difficile, abbia voluto non solo dissimularla, ma travestirla di linguaggi diversi tra loro, quali la letteratura umoristica e, soprattutto, il cinema. E, dentro il cinema, usare modelli diversi, incongrui, dalla commedia alla tragedia, dal dramma borghese al musical. Insomma, Woody Allen.

Genealogia della filosofia traballante

Per quanto fin dalla sua fondazione la cultura filosofica occidentale, a partire da Platone – se non dai predecessori – sia incappata nel problema del ridere. Che cosa vi sia da ridere, se siamo frutto di una caduta e tentiamo inutilmente di liberarci dal dolore… dagli orfici agli gnostici, certo c’è stato ben poco da ridere: ma anche la mitografia greca non è che faccia poi sbellicare! Tra dèi smembrati e ricomposti, genitali paterni recisi e via notomizzando, le divinità si muovevano goffamente più sul versante del grottesco, che su quello del comico! Eppure la filosofia ha faticato -si può dire inutilmente nel tentativo di liberarsene. Come ricorda bene Hans Blumenberg nel Riso della donna di Tracia, la fondazione della sapienza greca appare indissolubilmente legata al riso: appena apparso alla ribalta del pensiero, il milesio Talete si preoccupa subito di gettare discredito sulla serietà delle future generazioni di docenti di filosofia. Cade nella buca, cercando di capire il moto celeste: e la fanciulletta trace, giunta dalla oscura terra di riti arcani e tenebrosi, si sganascia dal ridere.

L’archetipo del sapiente “con la testa fra le nuvole” avrà una longevità a tutt’oggi indefinita, tornando a palesarsi dietro l’immagine dello scienziato della natura moderno, del genio “picchiatello”, dell’artista divino e al contempo umanamente misero. Appare Democrito, e ci risiamo: lo Pseudo-Ippocrate ci ricorda come il pensatore di Abdera non la smetta più di sganasciarsi dalle risate quando i maggiorenti della polis gli si recano in omaggiante visita, affinché li aiuti a trovare un rimedio alla spaventosa pestilenza che sta affliggendo la povera città, invasa dai morti. Lui, ride.

Poi, solo l’arrivo del grande terapeuta dell’antichità impedisce che i sapienti imbraghino il filosofo dell’atomismo antico in una solida camicia di forza, e lo portino altrove…si scoprirà poi che il riso democriteo è una forma superiore di saggezza, che esprime la tragica consapevolezza dell’inanità della condizione mortale degli umani, e insieme la dolorosa coscienza della follia dell’atteggiamento dell’umanità tutta – ma soprattutto dei legislatori, poveretti – che tenta inutilmente di controllare la realtà in cui (secondo la legge immortale del movimento atomico) ci si trova occasionalmente a vivere.

Il sapiente ride perché sa: chi non sa, ride di lui. Questa è la prima soluzione al dilemma che attanaglia i pensatori greci, dal VI secolo avanti Cristo in poi.

Platone nel Filebo (48 A – 50 A) lo dice a chiare lettere: il ridere nasce dalla mescolanza tra piacere e dolore, e precisamente da quella forma di dolore che è l’invidia; Aristotele invece, più distaccato, attribuisce il ridere (e il “fare ridere”) al carattere comunicativo della commedia, in cui si esibiscono deformità che non provocano dolore né danno (Poetica, 5, 1449 a 34): com’è noto, spesso il maestro Stagirita fa balenare un sorriso, mentre discetta di argomenti anche pesanti, con un certo humor e gusto per l’assurdo che si rivela a sprazzi (soprattutto negli exempla).

Ma per una caratterizzazione più attuale dell’esperienza del comico – prima ancora modalità di espressione, che genere espressivo – è ancora una volta Kant nella terza Critica a dirci qualcosa di utile, anche se tesa a risolvere il problema del comico (e del pensiero del comico) entro la sfera dell’attività del giudizio estetico, con una sfumatura psicologistica: «affetto che che nasce dall’improvviso risolversi in nulla di una attesa spasmodica» (Critica del giudizio, § 54).

La formula kantiana la si ritroverà, con riprese diverse, in numerosi momenti successivi della cultura della modernità, e non solo nell’accezione filosofica. Che cos’è la “dimensione abreatoria” della pulsione psichica, la scarica pulsionale che si libera attraverso il riso, se non una riformulazione dell’intuizione kantiana?

Eppure, Jean Paul (Richter) è il pensatore post-kantiano che intuisce forse proprio la direzione del vettore comico che più coincide con l’accezione contemporanea del possibile nesso riso-filosofia: da Kant riprende lo schema del giudizio estetico del sublime, ma gli cambia di segno. È in effetti il comico a rivelarci propriamente l’“infinito contrasto tra la ragione e la finità”; e su questa strada sarà seguito da Arthur Schopenhauer, che pur umanamente e soggettivamente era più incline al cinismo o al sarcasmo che all’umorismo filosofico: il riso ci testimonia l’incongruo, l’impossibilità da parte della ragione di riuscire a sussumere dentro i concetti la straordinaria pluralità delle “cose” del mondo; e più sembra avvicinarvisi, o pretende di farlo, più si ride. Democrito aleggia sullo sfondo, ma la sensibilità di Richter e di Schopenhauer è indiscutibilmente moderna; è la pretesa “comprensiva”, la hybris del razionalismo moderno, a tentare di irrigidire (comicamente) dentro le leggi bronzee della conoscenza tutta la fluente complessità (anche orribile, per il filosofo di Danzica) del mondo che scorre sotto i nostri occhi. Anche Kierkegāārd aggiunge di suo (pur anch’egli muovendosi più a suo agio tra i confini eleganti dell’ironico, più che dell’umoristico) una annotazione che ci servirà tra poco: la sottolineatura dell’aspetto burattinesco dell’agire umano, il suo agitarsi mosso da eventi e forze, del tutto esterni alla propria “volontà razionale” (In Vino Veritas, 1845).

Torniamo, dopo questa frettolosa carrellata, al Nostro: credo si possa davvero ritenere che pochi pensatori del Novecento abbiano avuto la capacità di esprimere compiutamente il proprio pensiero come Woody Allen. La sua biografia aiuta solo parzialmente a cogliere la centralità della cultura filosofica dentro il suo percorso intellettuale: certo, il fatto di venire cacciato dalla facoltà di Filosofia perchè derideva i suoi insegnanti qualcosa ce lo può certo dire… ma è più interessante leggere quello che lui ci dice direttamente, attraverso la sua opera, sul suo personale rapporto con il linguaggio, i concetti, le personalità, il mondo cioè tutto della filosofia novecentesca.

Cercheremo sinteticamente di andare per ordine (insomma, un po’ di tradizionale Storia dei concetti della Filosofia Alleniana).

La scrittura e le scritture

In diversi momenti della sua opera, il Nostro ci rimanda alla sua (più o meno immaginaria) infanzia brooklynese. Da Io e Annie (Annie Hall, 1977), a Radio Days (idem, 1987), (ma anche indirettamente in Amore e guerra [Death and Love, 1975]) Allen crea una immagine dell’ambiente ebraico americano della sua infanzia, come il contenitore della sua prima esperienza intellettuale, e in questo contesto l’incontro con le due grandi questioni filosofico-esistenziali che segneranno tutta la sua ampia produzione: il sesso (e l’amore, variamente intrecciati), la morte.

Dietro, il Dio che fa capolino nella penombra della Casa del Midrāś, nell’insegnamento da doposcuola della Tŏrāh, impartita da antiche voci dal forte accento, buffo, tedesco dell’Est Europa: un Dio che costituisce il terzo problema filosofico della triade critica alleniana.

Ancora più distante, ma importante sfondo problematico, il mondo della scuola, o meglio, l’assurdo e circense ambiente degli insegnanti, i “maestri”, grotteschi e incredibili. Il luogo della conoscenza è fin da subito un non-luogo, la pretesa del sapere istituzionale è ridicola, grottesca: la vita, l’esistenza, bussano alla porta, e i maestri, piccoli o presunti grandi, sono delle maschere comiche e pretenziose (basti lo spassoso ritratto di Colloquio con Helmholtz, in Saperla Lunga, parodia impagabile di quella letteratura agiografica dei “biografi” dei Padri della psicanalisi, dove il Maestro regala queste perle di sapienza: «L’intera storia della letteratura altro non è che una nota a piè di pagina del Faust. In ogni caso, non ho idea di che cosa io stia parlando»).

Il piccolo alter ego dell’autore, che si incontra in Radio Days, sembra fin da subito contrapporre un proprio mondo di valori a quelli che le istituzioni educative sembrano volergli propinare: spiando con gli amichetti di giochi la supplente della scuola di base che balla nuda davanti a uno specchio, l’occhialuto intellettuale fa la scoperta della sconvolgente bellezza di un altro mondo delle cose, celato dall’apparenza delle ritualità delle istituzioni, e per l’unica volta (presumibilmente, dell’intera sua vita) tornerà in classe contento di ascoltare una lezione: o meglio, non di ascoltare, ma di guardare, e di porsi apertamente davanti alla realtà sfaccetta del mondo.

È ancora questo, in Crimini e misfatti (Crimes and Misdemeanors, 1989) è il consiglio che Cliff, l’alter ego di Allen, dona alla adorata nipote, accompagnandola a un matinèe cinematografico invece che a scuola: «I tuoi insegnanti non ascoltarli, ma guardali, guarda quello che fanno e sono: imparerai molte cose…».

Prima questione: cosa farne del linguaggio, delle forme di comunicazione, che fin dall’infanzia al piccolo Woody appaiono dei travestimenti che gli adulti frappongono tra sé e le cose vere, fra il mondo come vorrebbe apparire e invece come sarebbe davvero? Anche senza mai nominare Wittgenstein, è chiaro che al piccolo pensatore di Brooklyn appaia manifesto come il linguaggio sia connesso alle “forme di vita”(Lebensformen); così come capisce subito anche un’altra cosa, ovvero come invece esso divenga perlopiù travestimento e dissimulazione: ma anche gioco, con le sue proprie regole, che occorre apprendere, perché non solo risulta utile, ma anche divertente.

Il linguaggio imparato nell’apprendistato giovanile, così sembra dirci il nostro autore, è stato un linguaggio di riflessione, in un duplice ordine di significato: da un lato ha posto le basi per un rispecchiamento critico e ironico del mondo così come vorrebbe apparire, alla luce dell’intuizione del mondo così come potrebbe essere; dall’altro, quasi kantianamente ci rinvia all’impossibilità del linguaggio di esprimere compiutamente qualcosa di diverso da ciò che abbiamo in noi, da ciò che siamo, e (ancora il secondo Wittgenstein) è però il luogo in cui abitiamo, l’ordinarietà del nostro mondo che ci conforta ma anche inquieta, ci mostra (anche di noi stessi) immagini spaesanti: pertanto, occorre saperla lunga, impararne bene le regole.

Soprattutto, occorrerà impararne diverse, di lingue: ridere, e fare ridere, è anche uno strumento per fare credere di avere potere sulla realtà, diventando illusionisti per divertire i propri amici, stupirli con i giochi che si sanno fare. Il cinema, per esempio.

La magia e il mago

Può essere interessante notare che Woody Allen regista, dopo Radio Days, torni qualche anno dopo a utilizzare lo stesso attore che aveva impersonato il rabbino della sua infanzia a Brooklyn, lo straordinario Kenneth Mars, in un altro ruolo molto impegnativo – l’illusionista – in Ombre e nebbia (Shadows and Fog, 1992), una delle sue riflessioni cinematografiche più forti, ma anche come la figura del mago, del prestigiatore – sempre impacciato, o comunque in bilico tra lo straordinario e lo squallidamente ordinario “piccolo imbonitore” – ritorni con ostinata frequenza in buona parte delle sue prove più impegnative o nei brevi momenti in cui narrativamente intende costruire una breccia tra il normale e il profondo (e non il “fantastico”).

Certo, vi è anche il riflesso autobiografico della sua ferrea volontà infantile di “stupire e divertire gli amici” (e anche di conquistare le prime amichette) attraverso lo strumento della “magia” da illusionista casalingo: ma la stessa insistita autobiografia induce a interpretare questo tema in modo più estensivo, qualcosa che pare avere una strana assonanza con una delle pagine cinematografiche più intense dell’Autore più venerato e amato dal Nostro. Bergman, naturalmente.

In Ingmar Bergman si assiste infatti ad una analoga rappresentazione dell’universo “magico” davanti agli occhi stupefatti del giovanissimo Alexander, nella casa-teatro di Isaac, il salvatore ebreo dei bambini – antico amante della nonna – che nasconde nella sua bizzarra abitazione-emporio una mummia viva e il diavolo, bello e androgino: ma anche Dio, gigantesco burattino, grottesco e e spaventoso. Si tratta naturalmente di Fanny e Alexander (Fanny och Alexander, 1982) del maestro svedese, dove in modo quasi blasfemo viene accostata l’immagine dell’apparizione (grottesca, spaventosa) del divino, con il mondo dell’illusione, di una magia ambigua e sfuggente, che si nega e si afferma nello stesso momento. A cui non si può fare a meno di domandare, di offendere: di pensare.

Anche Allen sembra accostare il tema della rappresentazione illusoria (ma non lo sono tutte?) della realtà, a quello della magia, con l’analoga ambiguità: ma l’ambiguità si dissolve se si considera come il mago, il mediatore tra mondo umano e abisso sovrumano, possa essere sia l’artefice, l’artista, il prestigiatore misero ma dignitoso, che si realizza nel regalare “la magia della stupefazione” agli altri (il piccolo protagonista di Ombre e nebbia, ma soprattutto il suo maestro, il Mago), che il povero e incompreso rabbino ashkenazi, che cerca di comunicare con un Dio che tace, non riesce a convincere neppure i bambini (Radio Days); oppure che si ostina a cercare di “vedere” il bene nel mondo, anche quando è precipitato nella tenebra assoluta della cecità (è il caso di Ben, il rabbino diventato cieco in Crimini e misfatti, forse il più cupo dei lavori alleniani sul tema della vittoria della malvagità nel mondo).

Può esserlo anche in forma semplicemente ridicola, imbarazzante: il prestigiatore finto cinese, che maldestramente fa sparire la mamma del protagonista, che si manifesterà però come Forza Divina Celeste, librando gigantesca sopra il cielo di Manhattan, e spiffererà a tutti le miserie del piccolo ma maturo protagonista, Sheldon, nell’episodio Oedipus Wrecks (New York stories, 1989).

Insomma: la magia della parola, della rappresentazione artistica, non ci può salvare; Dio tace, sempre che ci sia, e anche se si rivelasse, la distanza tra le umane miserie e l’Assoluto rimarrebbe insondabile, incomprensibile. La vita, le nostre esistenze, si trascinano senza un senso compiuto e – come per Schopenhauer – verrebbe da dire che quel che appare commedia buffa per l’uno (l’esistenza con le sue meschinità, il suo intimo ridicolo, i suoi assurdi inganni), diventa tragedia per l’intera umanità, povera, dolente, “muffa cosmica”.

Ma qui scatta l’originalità, e se mi si permette, la grandezza, della filosofia alleniana:

«Fra due ore mi fucilano. Avrebbero dovuto farlo ieri, ma io ho un bravo avvocato!» (Amore e guerra, Love and Death, 1975).

La condizione umana non si riscatta, quello no, nella dimensione del comico: ma si rivela in tutta la sua tenera materia, la sua così familiare questione di “forma di vita”, il suo abbracciarci nella modesta consapevolezza del fallimento di ogni pretesa risolutiva, e della contemporanea buffa bellezza di alcuni, fragili, istanti, della esistenza stessa. Quando ridiamo, quando amiamo, quando ci parliamo.

Dio tace, e se parlasse potrebbe farlo in modo un po’ disorientante, così come accade all’Abramo dei Manoscritti della Mano Morta, cui viene dato l’ordine di sacrificare Isacco; egli sta per eseguire il comando divino, ma viene fermato e redarguito dall’Altissimo, che gli dice:

“Io dico per ridere di sacrificare Isacco, e tu corri subito a farlo?” . E Abramo cadde in ginocchio: ”Vedi, non so mai quando Tu stai scherzando.” E il Signore tuonò:” Manchi di sense of humor! Incredibile!” “Ma non è la prova che Ti amo, l’essere disposto a sacrificare il mio unico figlio per un tuo capriccio?” E il Signore disse:” E’ soltanto la prova che certi uomini sono pronti ad ubbidire a qualsiasi ordine, per cretino che sia, purché venga pronunciato da una voce risonante e ben modulata” (I manoscritti della Mano Morta, in Citarsi addosso, 1975)

Ma Dio forse è morto, e potrebbe averlo ucciso una bionda platinè dai lunghi capelli, dal nome improbabile di Heater Butkiss, modella per nudi, studentessa al Vassar (in Mr. Big, da Saperla lunga, 1971, una parodia dell’Hard Boiled School), dark lady che ha prima però ucciso Socrate, Descartes, Kant, e alla fine si è anche sbarazzata anche di Lui…

La preghiera privata diventa allora:

«Se Dio potesse solo darmi un segno! Per esempio intestandomi un conto in qualche banca Svizzera» (dai Frammenti di diario, in Citarsi addosso, 1972-76).

Ebraismo faticoso

Il nostro autore è forse l’intellettuale ebreo vivente più noto, e credo non sia (paradossalmente) da considerarsi una battuta troppo alleniana, il considerarlo come in assoluto il “secondo” ebreo più noto al mondo…

Certo Marx è stato scalzato da tempo dalla classifica, e il primo è rimasto quell’imbarazzante profeta della Galilea, tirato a destra e a manca: ma all’occhialuto artista newyorchese non mancano a tutt’oggi una fama ed una conoscenza davvero universali!

A lui si deve una risonanza certo mondiale di quell’ambiente culturale così peculiare all’ebraismo americano del Novecento, composto di una strana mescolanza fra tradizione e innovazione, conformismo e curiosità, appartenenza forte alla cultura americana e fondo europeo ineliminabile: anche gli accenni famigliari, spesso pseudo-autobiografici, sottolineano sempre la singolarità di questa esperienza culturale, in bilico tra più identità, con un equilibrio che rinnova nel XX secolo la sorte di un illustre precedente, quello dell’ebraismo sefardita nella società e nella cultura olandese – ma anche degli Stati regionali italiani – del Seicento.

Il parallelismo non è così strampalato come potrebbe sembrare: la storia di Baruch Spinoza, rimanendo sempre dentro i confini di “casa nostra” filosofica, sta lì a testimoniare come durante il Secolo d’oro della gloriosa Repubblica dei Paesi Bassi la comunità sefardita, di origine ispanico- lusitana – perseguitata dalla nuova reconquista cattolica iberica e costretta alle conversioni forzate o alla diaspora – si inserì virtuosamente nella società, nell’economia e nella vita associata, politica e culturale, del Paese ospitante, contribuendo non poco a fornire apporti notevolmente innovativi alla costruzione di quel “soggetto moderno” che qualcuno ritene legato all’identità (precaria e polimorfe) del cosiddetto “marranesimo” [G. L. Solla].

Anche lì, certamente, non senza contrasti: anche dentro la stessa comunità ebraica diasporica, come testimonia il polmone bucato del povero Spinoza, traforato dallo stiletto di un fanatico (oggi si chiamerebbe così) “ultraortodosso”.

Gli ebrei americani della generazione del signor Königsberg – figlio di una famiglia di immigrati, provenienti probabilmente dall’Ungheria – hanno vissuto molto intensamente il passaggio dalla condizione di immigrati “molesti”, pariah, a cittadini a pieno titolo.

Con un retaggio però custodito come uno strano tesoro, a metà tra il fardello unto di dolore e la misera eredità, brillante nell’ombra del ricordo: frammenti di memoria di miseria e regalità, di canti nel Tempio e di recinti traballanti di poveri orti, degli Stätl perduti nelle distese di un paese, vivo solo nella memoria, oggi perduto per sempre.

La realtà delle famiglie ebree americane è quella descritta nei ricordi del protagonista di Crimini e misfatti: una religiosità subìta più che autenticamente vissuta, ma anche una identità sentita profondamente, anche se al Bar-Mitzvà si mangiano tartine al formaggio comprate al supermercato, e di nascosto qualcuno consuma anche qualche gamberetto con la maionese…

Woody Allen ha creato una figura, quella dell’intellettuale ebreo americano (anzi: newyorchese!), ipercritico e nevroticamente empatico con le cause perdenti, e lo ha reso universalmente noto: anzi, ha fatto di più, lo ha trasformato in qualcosa che ha creato poi imitatori; è diventato un classico.

Il suo ebraismo non è accidentale, ma sostanziale, perché nella costruzione dell’archetipo alleniano il carattere della criticità estrema, incarnata dal suo personaggio, è legato al suo essere figlio di una cultura diasporica, che vive “in bilico” tra più identità, che ha vissuto storicamente la tragedia della persecuzione, e ha anche imparato, dolentemente ed ironicamente, a riderne.

“Mia nonna era troppo impegnata a farsi stuprare dai cosacchi”, dice un personaggio del Nostro a proposito dei “natali” illustri dei propri avi: è sempre il protagonista di Io e Annie (Annie Hall, 1977), che viene visto a pranzo dall’anziana nonna della fidanzata wasp come un barbuto rabbino, che biascica miserabile un povero pasto…

Ma l’icona dell’ebraicità dell’autore newyorchese è quella cesellata con infinita abilità e intensità artistica nel personaggio cinematografico di Zelig, su cui occorrerà tornare: ma in tutta l’opera dell’intellettuale Allen è impossibile disgiungere la rappresentazione del suo Ego critico e autocritico (artistico e teorico, non necessariamente biografico) dal carattere dell’ebraicità, e solo in epoca recentissima si è assistito a una dolorosa presa di distanza da questo attributo che così fortemente ha attraversato tutta l’opera del Nostro.

Lo Schlemiehl contemporaneo: Woody e Hannah (senza le sorelle)

Si arriva qui ad una questione teoreticamente importante per la definizione del profilo filosofico di Woody Allen: in che modo e in che misura tale richiamo potente, insistito, sull’appartenenza alla cultura ed al popolo ebraico, ha una rispondenza con altri momenti del sapere Novecentesco. La componente ebraica della cultura del secolo scorso ha prodotto svolte così profonde e determinanti, da Kafka a Rosenzweig, da Roth a Bloch, che è impossibile non riconoscerne tracce nell’opera dell’intellettuale americano, anche nelle sue parti più giocose, così come nei suoi lati più profondi.

Partiamo dal punto forse più noto, ovvero la cosiddetta “comicità ebraica” di Allen: come si è già visto, l’attributo critico e dolentemente ironico, unito a doti di surreale comicità, di artisti americani di origini ebraiche, appartiene pienamente alla sfera culturale di tanta storia dello spettacolo e della settima arte statunitense. In questo senso, Allen è figlio di quella lunga genealogia di maestri dello spettacolo americano, dai fratelli Marx a Danny Kaye, da Lubitsch a Jerry Lewis, fino al contemporaneo Mel Brooks, che hanno saputo esprimere quella particolare nuance di comicità, sospesa tra eccesso e paralogismo, frenesia e sottile sospensione di senso, e una forte inclinazione verso il genere parodistico “colto”.

Ma egli di proprio vi aggiunge almeno due elementi culturali importanti: il primo è quello di una esplicita adesione culturale alla propria cultura ebraica, dichiarata e rivendicata; il secondo è quello di una ponderata riflessione, profonda e culturalmente articolata, sul senso dell’identità ebraica dentro la cultura contemporanea, e non solo americana.

Negli anni della sua crescita intellettuale e artistica, Allen ha infatti approfondito queste radici, il cui risvolto filosofico è riemerso potentemente: riconciliandosi a cavallo tra gli anni Ottanta e Novanta con i suoi inizi letterari, su cui brevemente occorrerà tornare, in Zelig ed in Ombre e nebbia Woody Allen è tornato ad interrogarsi sui grandi temi, la morte e l’assurdità dell’esistenza, la fragile presenza della bellezza e l’illusorietà dell’amore; ma anche sulla magia della rappresentazione artistica, e sulla sua capacità, per poco, di sconfiggere i fantasmi, i mostri e l’orrore, che inquietanti aleggiano attorno al nostro mondo, fragile e sospeso; ma anche sulla tragedia dell‘identità, del suo trasformarsi in una pericolosa e comicamente mortale maschera, che è il centro narrativo dello splendido Zelig (idem, 1983).

Zelig, il santo folle

Due parole: Zelig è lo Seeligmann, l’uomo santo, il pio e il timorato, il moderno Giobbe, che sopporta il dolore del mondo: fa ridere, la sua condizione, del riso schopenhaueriano che si diceva all’inizio; ma, lui, non ride. Soffre, e cerca di sopravvivere come può: se il mondo lo rifiuta, impara camaleonticamente ad adattarsi . Ci riesce talmente bene che diventa tutti e nessuno, un perfetto omologo a ciascuno, il vicino di casa o il toreador che ci si aspetta di incontrare: ma anche il rabbino, o il cantante jazz di colore, o il gangster italiano. Egli è lo stereotipo, l’uomo massa.

Il suo destino è chiaro, segnato: il comico diventa tragico in un batter d’occhio, egli è vittima di sé stesso, della propria molteplicità alienata, della sua distruzione sistematica di un “io” almeno minimamente accennato, dignitoso. Figlio perfetto del nichilismo, Zelig non può non diventare nazista. Mai si era vista nella settima arte una più perfetta rappresentazione dello Schlemiehl, l’uomo che ha perduto la propria ombra: secondo solo a Chaplin, che ne diede – non ebreo – una rappresentazione straordinaria nel suo vagabondo, Allen riesce a rendere l’aspetto terribile, paurosamente sospeso sul baratro vuoto del male, dell’uomo che ha perso la sua ombra, la sua fragile identità.

La mancanza di senso che ne deriva, rende anche il piccolo ebreo, perduto nel vasto mondo, solo e impotente, un latente servitore della malvagità: diventa nazista perché non è niente e nessuno, non sa scegliere, e nella sua anonimità rischia di arrendersi al male. Perseguitato dagli xenofobi (emblematizzati da una candida vecchina che recita una preghiera radiofonica che si conclude con un ispirato “Lincia l’ebreo!”), proprio perché ebreo, Zelig si inventa una identità perfetta, mimetica, che gli consente di essere del tutto omologo alla massa in cui aspira di dissolversi: proprio durante una adunata di Norimberga, rovinerà le riprese di Leni Riefenstahl salutando dalla guardia d’onore sotto la tribuna hitleriana la timida psicologa che è giunta a risvegliarlo; e lì, piccolo ebreo in mezzo alla massa antisemita, imparerà a salvarsi la pelle, in modo surreale e all’altezza del suo profilo mimetico (come Lindbergh, ma in trasvolata oceanica a testa in giù…).

Allo Zelig di Allen corrisponde da vicino la figura del colpito dall’Ungeschick, il Malestro ricordato da Hannah Arendt nel ritratto postumo dell’amico Walter Benjamin: riandando all’amore dell’amico scomparso per i libri della propria infanzia, e rammemorando quell’aspetto dell’Infanzia berlinese in cui Benjamin riportava l’aneddoto dell’“omino gobbo”, il Männlein della malasorte, la pensatrice tedesca – emigrata per motivi politico-razziali negli U.S.A. – descriveva la realtà dello Schlemiel segnato dalla sorte avversa, che deve ingegnarsi e cerca di fuggirla: ma rieccheggia anche più in profondità il destino di chi si muove contro la storia, dentro la consapevolezza (tutta benjaminiana) del paesaggio di rovine di cui è costituito il percorso temporale dell’esistenza.

«Chi è guardato da quest’omino non fa attenzione, né a è stesso né all’omino. Resta costernato davanti a un mucchio di cocci» (in H. Arendt, W. Benjamin, in Il futuro alle spalle, 1995, ed. or. 1968).

Zelig, l’uomo santo, l’anima pia, è la vittima della storia, che macina monumenti e produce rovine, cancella identità e annulla le esistenze: ci rimane solo il frammento, perle di memoria, da salvare e portare in superficie nella nostra capacità di rammemorazione.

Zelig ricorda, e col ricordo, forse, si salva: non conquisterà magari una identità eroica, ma diventa finalmente un uomo. Un piccolo uomo, sempre uno Schlemiehl, ma non più vittima, e neppure carnefice.

Ad Hannah (Arendt), Allen dedica un piccolo omaggio, ma molto significativo, a modo suo, in Effetti collaterali, dove il narratore parla di una ragazza, una “bomba”, tutta curve, “e con l’intelligenza di Hannah Arendt”: la ironica Signora della filosofia americana avrebbe certo sorriso divertita.

Il professor Levy ed il Chassidim

Uno dei capitoli più intensi della filmografia dell’autore e pensatore americano è quello rappresentato da quel capolavoro di comicità e di dramma, di indagine sulla natura dell’uomo e del male che lo accompagna, dal titolo Crimini e misfatti (Crimes and Misdemeanors, 1989): opera corale, che insegue i diversi destini dei tanti personaggi che compongono l’affresco narrativo, diventa un apologo sull’inferiorità del bene di fronte alla possibile banalità del male quotidiano, illustrando in modo incredibilmente raffinato un motto elaborato dall’autore già negli anni giovanili: “I buoni hanno ragione, ma i cattivi la sanno più lunga”.

Il male vince, è la sconfortante conclusione della lunga narrazione alleniana contenuta nel film, dove Dio viene costantemente evocato dai diversi attori della vicenda umana, sempre inutilmente o a sproposito: dal rabbino ottimista e pio Ben, che diventa cieco e ancora ringrazia il cielo, e non vede, ma soprattutto non riconosce il male davanti a sé; a Judah, medico di successo, egoista sempre efficacemente autoassolutorio, che mentre sta ordinando l’omicidio della sua petulante ed isterica amante – che minaccia di rovinargli il suo bel matrimonio borghese -, e lo commissiona biblicamente al proprio fratello cattivo, non si esime da invocare l’altissimo a testimone della propria “tensione morale” (naturalmente, rapidamente superata…); infine a Cliff, documentarista fallito, intellettuale eticamente impegnato, che deve barcamenarsi con l’orrida produzione televisiva per sopravvivere, tradito dalla moglie e dalla famiglia di lei, che lo disprezza, e che cerca un riscatto nell’incontro con il prof. Levy, anziano filosofo (e psicologo) sopravvissuto ai campi di sterminio, di cui vorrebbe produrre una biografia.

Levy appare sia come il ritratto del pensiero ebraico nobile e tragico del Novecento, che come l’ultimo santo, uno Zaddik, quello che parla di un Dio benigno e mite, compassionevole con l’umanità dolente: eppure, al momento di concludere il suo ambito documentario, proprio quando qualcosa appariva a dare un senso al vuoto turbillon di emozioni, di ipocrisie e di simulazioni di cui è fatto il suo angusto ambiente umano, il momento per Cliff del riscatto, Levy se ne va.

O meglio, come lascia scritto su un biglietto, un giorno come un altro, all’improvviso: “sono uscito dalla finestra”. Nel suo stentato inglese da immigrato colto europeo, il povero prof. Levy descrive così con involontario umorismo il suo suicidio. Senza senso.

Cliff, naturalmente, è un uomo finito, così come lo è il suo matrimonio, e partecipa nel finale alla benedizione solenne che viene impartita dall’infame Judah alla propria figlia che si appresta a sposarsi, mentre viene festeggiato come esempio di padre e marito esemplare…

Ma non è solo l’apologo morale che ci può interessare, ma più specificamente – anche per brevità di trattazione – riconoscere il who’s who del profilo teorico del prof. Levy: non è difficile riconoscere nel suo profilo i tratti di una versione ridotta di Martin Buber, insieme al carattere di forte dichiarazione etica di uno Jaspers “ebraizzato”; ma anche con l’apporto umano e vivacemente attento alla “commedia umana” di un Bruno Bettelheim (che, per inciso, appare tra i “testimonial” d’eccezione di Zelig, unitamente a Susan Sontag!).

Il carattere schivo, la curiosità riservata, la fiducia in una intrinseca e trepidante possibilità di un Dio nel mondo, garante del bene nelle sue diverse forme, pare fissare quasi l’idealtipo del pensatore europeo, di scuola tedesca, testimone della tragedia ma tenacemente aggrappato al “principio speranza”, una sorta di Ernst Bloch e di un Levinàs sinottici: il suo suicidio maldestramente annunciato (ancora l’Ungeschick!) è la sconfitta di una intera visione della filosofia, che decide di “passare per la finestra”, una goffa tragedia che chiude ogni possibilità – detto ebraicamente – di salvezza.

Ma è nei Racconti chassidici, in Saperla lunga, che Allen tocca forse il vertice del suo confronto tragico e comico con il tema dell’ebraismo, e della domanda su Dio:

L’uomo non reca in sé la causa della propria infelicità e, quindi, la sofferenza è realmente volontà di Dio, sebbene il fatto che egli ne goda resti al di fuori della mia comprensione. (…) Iddio, secondo gli ultimi Libri di Mosè, è un Essere benevolo, malgrado restino ancora parecchi argomenti che il profeta non ha approfondito.

Alternando riflessioni sui divieti del Levitico («Il motivo per cui la carne di maiale sia proibita dalla legge ebraica è tuttora poco chiaro e alcuni studiosi ritengono che la Tŏrāh suggerisca semplicemente di non mangiarla in taluni ristoranti») a considerazioni di carattere più universale, tornano qui quegli elementi della cultura dei Padri che non vengono semplicemente parodiati, bensì trasformati in comicità assurda e sottile, indagati nel recesso della tradizione ma anche della domanda terribile sul silenzio del divino.

«Non solo Dio non esiste, ma provate a cercare un idraulico durante il week end», conclude sconsolatamente l’autore ne La mia filosofia (ancora Saperla lunga).

La nota più tragica però è questa: una delle persone ispiratrici della figura del prof. Levy, Bruno Bettelheim, arguto e profondo interprete della psicanalisi del secolo scorso ed ex deportato a Dachau, di cui fu il primo “narratore” in lingua inglese, decise un giorno di mettersi un sacchetto in testa e di morire soffocato, gettando nello sconcerto tutti i suoi lettori ed ammiratori, e milioni di testimoni della sua vicenda umana ed intellettuale. Woody Allen era tra questi, Bettelheim gli aveva fatto da testimonial in Zelig, insieme a Susan Sontag e a altri giganti della cultura ebraico-americana contemporanea (Saul Bellow, in sovrapprezzo!). Era il 13 marzo 1990, nell’anniversario dell’Anschluss dell’Austria, l’inizio del viaggio nell’ombra del Lager di Dachau, per l’allora (nel 1938) giovane antinazista ebreo. Cinquantuno anni dopo, Bettelheim decideva di uscire dalla vita.

Proprio quasi come il personaggio del prof. Levy.

Ma nel mondo vero, quello aspro e tremendo; come Primo Levi, precipitato nel 1987 nel vano scale della sua abitazione torinese ( e c’è da chiedersi se la coincidenza dei nomi Levy/Levi sia davvero casuale) . Nel silenzio di Dio, tra lo sconcerto degli uomini.

Oscar Wilde parlava della vita che imita l’arte: ma è una imitazione che non consente repliche, né magie, che ammutolisce.

Bergman

Ultimo capitolo, il “complesso Bergman” dell’intellettuale Allen: come è universalmente noto, al cantore di Manhattan stanno a a cuore in modo particolare due modelli di regia, ed in entrambi i casi si tratta di due artisti europei, Federico Fellini e, soprattutto, Ingmar Bergman. Mentre il regista di Rimini è vicino alle corde visive, e visionarie, e immaginifiche, che piacciono di tanto in tanto al Nostro, è al regista svedese che va tutta la sua ammirazione intellettuale e culturale. Per lunghi anni l’ ammirazione è stata vissuta da Allen con un misto di soggezione culturale e di ambizione (proprio alla Zelig…) di tipo imitativo: il risultato è stato in positivo di imparare quasi a memoria i topoi del cinema del maestro scandinavo, in negativo di diventarne un epigono spesso maldestro, o comunque al di sotto delle attese, considerando l’intelligenza creativa del Nostro! Quando infine, dopo la metà degli anni Ottanta, ad Allen è riuscito di liberarsi dal complesso edipico bergmaniano, l’eredità ricevuta è stata straordinaria, e tesaurizzata appieno: in Hannah e le sue sorelle la figura di Max von Sydow nel ruolo del tormentato artista anziano, Frederick – vittima della propria creatività e inerme di fronte alla gelosia verso la giovinezza e la bellezza della propria giovane amante – è ancora non solo un elegante omaggio al regista del cuore, tramite il suo attore-icona, ma l’adozione di uno stile, sempre più consapevole del debito contratto, ma non più in modo epigonale, bensì autonomo.

Ma Bergman certamente rimane anche e soprattutto nel cuore estetico-filosofico della produzione alleniana, con quell’essere sospeso tra gli abissi della impossibilità del comunicare e del vivere, e gli sprazzi di visione della bellezza della rappresentazione come (modesto) principio-speranza. Anche il Maestro scandinavo infatti nella sua lunga carriera ha attraversato linee di confine analoghe a quelle dell’artista americano: tanto per citare alcuni passaggi essenziali (non sempre riconosciuto dalla critica specializzata) lo spunto kierkegaardiano de L’occhio del diavolo (Djävulens öga, 1960) che si converte in una riflessione sul mistero della bellezza e della seduzione del mondo, con pagine brillanti e divertenti; o il luminoso Sorrisi di una notte d’estate (Sommarnattens leende, 1955), sulla magia dell’innamoramento e la meravigliosa fugacità della giovinezza; ancora ne Il settimo sigillo (Det sjunde inseglet, 1956), con le disavventure barbaramente buffe del buffone, del fabbro, e della infedele di lui consorte, che intervallano l’apocalittica messa in scena da Mistero medievale scandinavo. O più tardi nel cupo Il volto (Ansiktet, 1959), dove appaiono i siparietti comici dei guitti che scortano il messianico prof. Vogler, mesmerista e saltimbanco, il protagonista .

Certo, per Bergman non si può mai parlare di “comico” in senso autonomo, ma di registro ironico e divertito in alcuni passaggi della sua filmografia (anche nel capolavoro finale, Fanny ed Alexander, coi risvolti buffi della festa di natale, subito seguiti dal dramma); in Allen invece è la cifra della sua natura artistica, dove il ridere diventa veicolo di riflessione mai banale sulla tragedia dell’esistenza.

Ne è l’escamotage auto-ironico, dove si possono dire cose serissime, con il necessario disincanto critico che ne impedisce l’auto-dissoluzione in un “ridicolo involontario”: in Allen, in fondo, il comico è il tragico volontariamente buffo, strumento essenziale di una visione sostanzialmente angosciata della realtà, calata dentro una concezione filosofica sospesa tra Kierkegāārd e Marx (i Fratelli cinematografici, senza Karl: quelli guidati da quel medico di nome Julius, in arte Groucho, interlocutore epistolare di Einstein, che fu anche autore di un paradosso logico, almeno pari a quello “del barbiere” di Russell: «Non vorrei mai diventare socio di un Club che accettasse uno come me…»).

Alla fine, l’assurda comicità dell’esistenza, sul bordo dell’abisso, ci richiede un coraggio tremendo e ridicolo: piccoli Zelig, quasi impotenti, possiamo forse attaccarci a quella minuta consapevolezza che ci impedisce di “passare per la finestra”. La consapevolezza proprio dell’aspetto buffo della nostra condizione, ma anche dell’essere accomunati da un desiderio di bellezza che non ci lascia, dal sogno di una piccola felicità che non ci abbandona, ingannevole e delizioso.

Alla fine, si deve pur ridere:

«E’ impossibile sperimentare la propria morte oggettivamente e continuare a cantare una melodia» (La mia filosofia, in Saperla lunga). Kierkegāārd avrebbe potuto scrivere qualcosa di meglio?

Alcune indicazioni di lettura e di visione

Saperla lunga (Getting Even, 1966-1971): Mister Big (dio); Le liste di Metterling; La mia filosofia; La morte bussa (atto unico); Bollettino primaverile (programma di filosofia); Racconti hassidici; Colloqui con Helmholtz.

Citarsi addosso (Without Feathers, 1972-1975): Frammenti di diario; I primi saggi; I manoscritti della Mano Morta; Il falcone al malto (finale); Breve ma utile guida alla disubbidienza.

Effetti collaterali (Side Effects, 1976).

Pura anarchia (Mere Anarchy, 2007): Così mangiò Zarathustra.

Rivera Juan Antonio, Tutto quello che Socrate direbbe a Woody Allen, in “cinema e filosofia”, 2006.

Filmografia filosofica

Amore e guerra, Love and Death, 1975.

Io e annie, Annie Hall, 1977.

Stardust memories, idem, 1980.

Una commedia sexy in una notte di mezza estate, A midsummer night’s sex comedy, 1982.

Zelig, idem, 1983.

La rosa purpurea del cairo, The purple rose of Cairo, 1985.

Hannah e le sue sorelle, Hannah and her sisters, 1986.

Radio days, idem, 1987.

Oedipus wrecks in New York stories (con M. Scorsese, F. Ford Coppola), 1989.

Crimini e misfatti, Crimes and misdemeanors, 1989.

Alice, idem, 1990.

Ombre e nebbia, Shadows and fog, 1992.

Misterioso omicidio a Manhattan, Manhattan murder mistery, 1993.

La dea dell’amore, Mighty Aphrodites, 1995.

Conclusione

«Tutti gli uomini sono mortali. Socrate era mortale. Tutti gli uomini sono Socrate. Ma Socrate era omosessuale: tutti gli uomini sono omosessuali? Però, questi greci…chissà che festini, ragazzi…» (da Io e Annie).