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il sublime rovesciato: comico umorismo e affini

Copertina Numero 17

 ottobre 2018

Tourbillon

Anna Maria Lombardi

1618-2018: Johannes Kepler e il mistero di una modernità

Introduzione

Nel 1618 Johannes Kepler pubblica la sua Terza legge astronomica, che individua la relazione tra il periodo di rivoluzione di un pianeta e la sua distanza dal Sole. È una legge che riteniamo valida ancora oggi, e che troviamo nei nostri libri di fisica perfettamente a suo agio nella meccanica classica di Newton. Eppure il lavoro di Keplero si è svolto quasi un secolo prima dell’opera di Newton, in un contesto scientifico, culturale e metodologico completamente diverso.

In occasione del 400esimo anniversario della Terza legge, esploreremo come sia stato possibile a Keplero raggiungere il proprio risultato. Allo stesso tempo, in omaggio alla rivista che ospita queste pagine, ricorderemo alcune spigolature, ovvero passaggi della vita e delle opere di Keplero che esemplificano a tinte vivaci le importanti differenze filosofiche, culturali e scientifiche in cui operava l‘astronomo tedesco.

La Terza legge astronomica

È Il 15 maggio del 1618 quando Keplero scopre la sua Terza legge astronomica. Conosciamo la data precisa perché è lo stesso astronomo a raccontare in dettaglio il travagliato percorso che, nell’arco di oltre vent’anni, lo ha portato ad individuare la legge che permette di calcolare il tempo di rivoluzione di un pianeta, una volta noto il raggio della sua orbita. Eppure per alcuni storici della scienza si è trattato di un puro caso: l’astronomo avrebbe rinvenuto la legge mentre stava per dare alle stampe un libro dedicato alla teoria musicale (l’Harmonice mundi) e, per assicurarsi la paternità della legge di fronte alla comunità scientifica, la avrebbe brutalmente inserita all’interno di tale opera, per essi di nessun interesse astronomico. Una situazione ben diversa da quella delle due leggi pubblicate nell’Astronomia Nova del 1609, un trattato indirizzato agli astronomi in maniera evidente. La prospettiva muta radicalmente se si è disposti a comprendere il punto di vista di Keplero, al lavoro in un contesto completamente diverso dal nostro, ancora agli albori della scienza moderna.

Keplero, che aveva ricevuto una formazione da teologo, aveva dedicato la propria vita a rintracciare regolarità matematiche nella creazione, come fossero impronte di Colui che aveva disposto ogni cosa con misura, numero e peso. E queste armoniche regolarità si richiamavano l’una l’altra, tanto nei fenomeni fisici, quanto in quelli astronomici, quanto in quelli musicali.

Nel suo primo trattato, il Mysterium Cosmographicum del 1596, aveva creato un modello geometrico/filosofico del sistema solare con il quale intendeva dimostrare come il numero dei pianeti e le loro posizioni nel cielo fossero determinati dalla necessità di rispecchiare una precisa simmetria geometrica. In un primo tempo aveva esplorato la possibilità di utilizzare i poligoni inscritti nel cerchio, i quali erano simbolo della conoscenza umana e del suo tentativo di approssimare la conoscenza divina; ma la ricerca si era dimostrata infruttuosa. Keplero si era quindi dedicato allo studio dei solidi platonici, gli unici cinque solidi che è possibile costruire con facce, spigoli ed angoli tutti eguali tra loro. Il loro esiguo numero aveva impressionato gli studiosi sin dall’antica Grecia, tanto che appunto Platone, nel Timeo, li aveva resi ingredienti fondamentali della costituzione degli elementi naturali, mentre Euclide aveva dedicato ad essi il tredicesimo ed ultimo libro dei suoi Elementi.

Il sistema del Mysterium immaginava che alle orbite dei pianeti fossero alternati i solidi platonici in successione, così che ogni solido risultava perfettamente circoscritto alla sfera interna e perfettamente inscritto nella sfera successiva. All’epoca erano noti solo sei pianeti del Sistema Solare, quelli visibili ad occhio nudo e, nel modello di Keplero, le sei sfere planetarie si alternavano ai cinque solidi platonici. Di conseguenza i pianeti erano sei perché la costruzione individuava sei sfere, ed erano a quelle distanze dal Sole perché in questo modo le distanze risultavano proporzionali ai raggi delle sfere stesse.

Il modello di universo descritto nel Mysterium risultava talmente robusto agli occhi di Keplero che quando venticinque anni più tardi, dopo aver scoperto le tre leggi astronomiche e contribuito alla costruzione di concetti quali inerzia, gravità e forza, pubblicherà una nuova edizione del Mysterium, lo sosterrà ancora con forza. Sì tratta però di un universo statico, in cui non trova posto il movimento dei pianeti e in cui non vi è una giustificazione che spieghi le diverse velocità. Ed è per colmare questa lacuna che Keplero riprende un tema antico di secoli, per cui i pianeti nel loro moto produrrebbero un armonioso concerto: l’armonia delle sfere celesti.

A seconda dei modelli proposti dai vari autori, l’armonia era da rintracciarsi in parametri differenti, tra cui i raggi orbitali, gli angoli formati dalle disposizioni dei pianeti o le velocità dei pianeti. Anche Copernico, per avvalorare il proprio modello astronomico, aveva portato come argomento il fatto che in esso si osservava una armoniosa proporzione tra i raggi orbitali dei pianeti e i loro periodi di rivoluzione, anche se non aveva saputo formulare una precisa relazione matematica.

Uno dei modelli di armonia delle sfere più diffusi in quegli anni era quello del monocordo celeste, proposto dal medico inglese Robert Fludd nell’Utriusque Cosmi del 1617. Il cosmo vi era rappresentato come uno strumento dotato di un’unica corda sonora, i cui capotasti erano fissati a distanze proporzionali alle distanze che i pianeti hanno dal centro dell’universo, secondo Fludd coincidente con la Terra.

Keplero adotta un atteggiamento moderno, quando decide di verificare quali intervalli musicali sarebbero prodotti da uno strumento costruito con tale protocollo. Può così denunciare il fatto che, sia considerando al centro del cosmo la Terra secondo il modello tolemaico, sia modificando tutti i dati e considerando al centro il Sole come nel sistema copernicano, si ricavano rapporti matematici non armonici, ovvero corrispondenti a intervalli musicali non consonanti tra loro. Scartata così la possibilità di utilizzare le distanze come parametri «armonici», Keplero prende in considerazione un modello cosmologico presentato da Platone nel IV secolo a.C. nel De Repubblica, all’interno del cosiddetto mito di Er. Vi si immaginano delle sirene, ciascuna seduta a cavallo di una perfetta sfera cristallina corrispondente ad una orbita planetaria, ciascuna intenta a cantare una nota la cui altezza dipende dalla velocità di rotazione di quella sfera. L’insieme delle note prodotte dalle sirene darebbe poi origine alla armonia delle sfere.

Ora, vi è una importante differenza tra il sistema di Platone e quello che Keplero è arrivato a costruire in quegli anni. Secondo le due leggi astronomiche pubblicate dall’astronomo tedesco nel 1609, la rivoluzione dei pianeti non si compie più lungo un cerchio perfetto, e nemmeno con velocità costante. Ecco che, se Keplero intende riproporre una proporzionalità tra la velocità angolare diurna (l’angolo spazzato dal pianeta nel corso di 24 ore rispetto al Sole) e l’altezza della nota associata, ciascun pianeta non verrà più associato ad una unica nota, ma a un insieme di note comprese tra una più grave (corrispondente alla velocità minima, ovvero al momento in cui il pianeta si trova all’afelio) ed una più acuta (corrispondente alla velocità massima, al perielio).

Keplero considera quindi la velocità minima in assoluto, quella di Saturno all’afelio, e la associa alla nota più grave in uso nella musica a lui contemporanea: un sol basso che veniva usato come nota di pedale. Ricava poi con una proporzionalità diretta le note corrispondenti alle velocità dei diversi pianeti, per verificare se sia possibile rinvenire intervalli armonici, cioè consonanti, nei moti celesti. La richiesta è piuttosto esigente, se si pensa che gli intervalli considerati consonanti nella musica di quel tempo erano davvero pochi, e corrispondenti a frazioni molto semplici. Keplero può quindi considerare un segno divino il fatto che davvero tra la nota corrispondente a una velocità minima di un certo pianeta e la nota relativa alla velocità massima del pianeta a lui prossimo (e viceversa) esistano rapporti di consonanza. Ed individua quindi nella velocità (in motibus, non in intervallis) il parametro che rivela agli uomini l’armonia delle sfere. A questo punto è motivato a trovare una relazione tra le velocità e i raggi delle orbite dei pianeti, per i quali aveva trovato una giustificazione nel modello dei solidi platonici. La ricerca di questo legame è insolitamente impegnativa, dal momento che richiederà l’individuazione di un esponente frazionario. Se riflettiamo sul fatto che siamo di fronte ad una delle primissime leggi scientifiche, possiamo cogliere quale fosse la determinazione di Keplero nel voler disegnare un universo armonico.

Keplero ha a disposizione il tesoro delle osservazioni raccolte dall’astronomo imperiale Tycho Brahe, di cui era stato assistente. Può quindi far conto su una precisione fino ad allora impensabile, e può quindi scartare con decisione sia l’ipotesi che tra raggi orbitali e periodi esista una proporzionalità diretta, sia quella che vi sia una proporzionalità quadratica inversa. L’esponente da utilizzare deve perciò essere un numero compreso tra uno e due. Tra gli infiniti esponenti frazionari che egli avrebbe potuto testare, ai suoi occhi ve n‘è uno che assume un ruolo predominante: la frazione 3/2, che in musica rappresenta l’intervallo musicale di quinta. La frazione viene associata all’intervallo musicale perché se si divide una corda in due parti, così che una parte sia lunga tre unità di misura e l’altra due, e poi si pizzicano i due tratti contemporaneamente, si ascolta proprio l’intervallo di quinta. Un intervallo particolarissimo, tanto che i Pitagorici l’avevano utilizzato per costruire la scala musicale occidentale, i cui dodici semitoni si ottengono moltiplicando ciascuna frequenza per il valore di 3/2, secondo quello che è chiamato «il giro delle quinte».

Nel terzo capitolo del quinto Libro dell’Harmonice, Keplero è in grado di enunciare la Terza legge: la relazione che lega i raggi orbitali dei pianeti ai loro periodi di rivoluzione è precisamente l’intervallo musicale di quinta, ovvero la frazione 3/2.

La scoperta suggella il modello cosmologico musicale e corona una lunghissima ricerca, di cui troviamo tracce già in alcune lettere del 1599. Lo stesso Keplero ricorda in più occasioni l’avventura che lo ha portato al compimento del proprio progetto, per esempio nel proemio al quinto Libro dell’Harmonice. Qui egli scrive di aver ipotizzato l’esistenza di una legge simile già 22 anni prima, quando aveva intuito il modello cosmologico dei solidi platonici, e di essersi deciso a individuarla ancor prima di studiare l’Armonia di Tolomeo, opera la cui lettura aveva poi ancor più nutrito il proprio desiderio. Prosegue poi sottolineando come già 16 anni prima, in una delle sue opere, avesse dichiarato la volontà di indagare l’armonia dei moti celesti, e di essere stato talmente determinato a trovarla da averle dedicato il titolo del quinto Libro (Sulla più perfetta armonia dei moti celesti) ancor prima di esserne certo. Afferma di averle, infine, dedicato gran parte della propria vita, additandola come motivo per l’essere andato a proporsi come aiutante di Tycho Brahe e per aver scelto di lavorare alla corte di Praga come matematico imperiale. E finalmente la sua caparbietà era stata ricompensata.

Possiamo leggere altri dettagli nel terzo capitolo del quinto Libro: l’8 marzo del 1618 Keplero intuisce per la prima volta la legge corretta, ma, egli scrive, la scarta poco dopo a causa di alcuni errori di calcolo. Quando la riprende, il 15 maggio dello stesso anno, gli pare talmente in accordo con i propri desideri e i dati osservativi raccolti da Tycho Brahe su cui per diciassette anni aveva lavorato che teme di stare sognando. Anche se Keplero parla di un risveglio come da un sogno, deve essere chiaro che è un tipo di illuminazione che capita solo a chi, come il nostro astronomo, ha dedicato la sua vita a una strenua ricerca di un racconto della natura, alla creazione di mappe in un’epoca priva dei linguaggi e degli strumenti di cui oggi ci serviamo per dimostrare la validità delle leggi da lui rinvenute.

L’astronomo ha ben chiaro che non sarà facile ai suoi contemporanei accettare il modello cosmologico che ha costruito. Sempre nel quinto Libro dell’Harmonice scrive però che non lo spaventa aspettare 100 anni un lettore che comprenda le sue scoperte, dal momento che Dio ha atteso 6000 anni qualcuno che sapesse meditare la sua creazione.

L’accettazione dell’opera di Keplero non fu infatti immediata. I suoi contemporanei potevano seguirlo nella ricerca dell’armonia delle sfere celesti o nel tentativo di spiegare il numero, la distanza e la velocità dei pianeti, questioni che invece ai nostri occhi appaiono lontane dagli interessi scientifici. Ciò che rendeva difficile accettare il lavoro dell’astronomo tedesco da parte dei suoi colleghi era invece l’introduzione di una fisica dei cieli e il continuo riscontro con i dati sperimentali. Ecco allora gli elementi di modernità di Keplero, quelli che gli consentono di scrivere leggi in grado di sopravvivere per quattrocento anni: la ricerca di una fisica valida tanto nei cieli quanto sulla terra e un duro lavoro messo al vaglio dei dati sperimentali.

Spigolature

Nelle opere a stampa o nella corrispondenza scientifica di Keplero non è difficile incontrare brani o particolari che ci appaiono del tutto fuori luogo, ancor più perché pubblicati in scritti ufficiali. Sono parole che ci fanno sorridere, ma che possono anche farci riflettere, perché testimoniano un’epoca decisamente lontana dalla nostra e ci permettono di apprezzare ancor meglio l’eredità scientifica di chi ha lavorato in un contesto tanto diverso.

Spigolatura 1: La stella nova del 1604, tra insalate, pidocchi e tipografi

Nell’ottobre del 1604 gli astronomi di tutta Europa stanno scrutando il cielo, perché è previsto per quei giorni un evento che si ripete solo una volta ogni ottocento anni. Giove e Saturno appariranno molto vicini in una particolare zona del cielo, andando a determinare quella che in linguaggio astronomico viene detta una congiunzione maggiore in trigono di fuoco. Sin dall’antica astronomia araba, il fenomeno viene considerato capace di dare vita ad una nuova stella, sia sulla terra (ad esso vengono attribuite la nascita di Gesù e di Carlo Magno), sia in cielo (come appunto nel caso della stella di Betlemme). Per coincidenza, proprio in quella zona del cielo e proprio in quei giorni, appare una magnifica stella nova, più brillante di Venere, che oggi è nota come SN1604 o Supernova di Keplero. L’evento assume una importanza anche maggiore in quegli anni di rivoluzione astronomica, quando finalmente grazie alla parallasse e al moto della Terra gli astronomi sono in grado di stabilire che si tratta effettivamente di un evento celeste e non meteorologico, il quale avviene sicuramente oltre la sfera della Luna e in tal senso si oppone alla dottrina aristotelica, secondo la quale il cielo ospita solo realtà eterne ed immutabili.

Ecco che, nelle pagine del trattato De Stella Nova, Keplero si interroga. Egli è perfettamente a conoscenza del fatto che la congiunzione tra Giove e Saturno è solo apparente: i due pianeti appaiono vicini solo ad un osservatore sulla Terra, per un puro effetto prospettico, mentre la loro distanza reale è enorme. È quindi immediatamente portato a scartare l’ipotesi che la stella sia nata dall’unione dei due pianeti, proprio come un figlio nasce dall’unione dei suoi genitori, come invece proponeva l’astronomia antica. Eppure le probabilità che in un ristretto spicchio di cielo, proprio mentre tutti attendevano la nascita di una stella, la stella sia veramente apparsa, gli paiono davvero troppo piccole.

L’astronomo descrive il dilemma davanti al quale si trova la scienza: se si incarica di prevedere anche ciò che non è prevedibile si trasforma in una pseudoscienza, come accade all’astrologia che vorrebbe indicarci il destino. Ma se la scienza rinuncia a fare previsioni, essa non ha alcun senso. Ecco allora, scrive Keplero, quanto è necessario che lo scienziato sappia trovare il giusto confine. D’altronde, scrive, rinunciare alla possibilità di fare scienza, di rintracciare leggi, regolarità e cause, significherebbe affidare tutto al caso, il quale ai suoi occhi non sarebbe in grado di determinare un universo tanto complesso. Keplero ricorre ad un esempio non troppo astronomico, scrivendo di come la magnifica insalata che sua moglie è solita preparargli difficilmente potrebbe comporsi con una tale armonia di sapore se sua moglie gettasse in aria olio, sale, verdure ed aceto ed attendesse poi che il piatto si componesse casualmente. Secondo Keplero l’ordine deve avere una causa, secondo un principio che si avvicina alla nostra moderna idea di entropia.

Tornando alla nova, tra le possibili cause che possono portare alla nascita di una nuova stella egli decide di abbracciare una teoria analoga a quella della generazione spontanea, all’epoca pienamente accettata e che poi verrà confutata solo da Francesco Redi nel 1668. Lo scienziato ricorda come anche sulla Terra un «eccesso di disordine» possa dare origine a nuovi organismi. Proprio come da una capigliatura sporca, egli scrive nel De Stella nova, nascono i pidocchi, o da un eccesso di sudorazione si originano, «specie nelle donne», le pulci.

Infine, Keplero con tono piuttosto scettico passa in rassegna alcune delle conseguenze che, secondo i suoi contemporanei, la comparsa di una nova in cielo potrebbe arrecare, tra le quali l’ipotesi di un miglior vino, o i possibili significati che ella potrebbe avere, come quello di annunciare da parte di Dio una imminente invasione dei Turchi. Ma conclude divertito che vi è una unica conseguenza certa dell’apparizione della nova: quella di dare lavoro ai tipografi!

Spigolatura 2: I maneggi per maritare un astronomo

Pochi mesi dopo essere rimasto vedovo, Keplero decide di sposarsi una seconda volta. Il primo matrimonio è stato sventurato: Barbara Müller, già molto fragile psicologicamente, era crollata dopo che per la terza volta aveva dovuto assistere alla morte di uno dei suoi cinque figli, così che era impazzita e poi morta. Keplero individua rapidamente le cause di tanto dolore: egli aveva lasciato combinare ad altri le nozze, che erano avvenute sotto un quadro astrologico contrario, con una donna che gli era apparsa sempliciotta e grassa. Eppure Keplero scrive che il dolore per la perdita della sposa è tale da indurlo a trovare al più presto una nuova compagna. Ma questa volta vuole essere oculato ed organizza una vera e propria selezione, in cui adotta procedure quasi scientifiche. Possiamo leggere tutte le caratteristiche che sono state soppesate dall’astronomo in una lettera da lui scritta non a un suo amico fraterno o a un testimone di nozze ma ad un influente barone. In queste pagine egli esamina con cura ben 11 candidate, tra cui sceglierà la ventiquattrenne Susanna Reuttinger.

Alcuni tra i possibili pregi a cui Keplero attribuisce importanza sono piuttosto scontati e ancor oggi condivisibili, quali l’operosità, l’affetto per i figli della prima moglie, una buona educazione, un bel viso, la capacità di adattarsi. Lo stesso vale per i difetti, così che viene evidenziata l’eventuale presenza di superbia, la facilità nello spendere o il possedere un aspetto ripugnante. Accanto a questi tratti troviamo invece alcune considerazioni che appaiono meno ovvie, quali la debolezza polmonare, la capacità di sopportare la fatica e il «fetore dell’alito». Dietro a un particolare per noi di cattivo gusto si cela una delle poche maniere all’epoca disponibili di farsi una idea della salute della futura sposa. Il matrimonio verrà celebrato la settimana successiva alla scrittura della lettera, il 30 ottobre del 1613.

Spigolatura 3: Autoritratto di un astronomo, la nascita di Venere e una vita da cani

Il giovane Keplero all’età di ventisei anni redige un oroscopo della propria famiglia, dal quale emerge un quadretto davvero pittoresco di ciascun parente. E la descrizione che l’astronomo delinea di se stesso non è da meno. Ne restiamo impressionati fin da quando egli introduce le proprie coordinate di nascita, per cui scrive di essere venuto al mondo il 27 dicembre 1571, dopo una gestazione durata 224 giorni e 10 ore. Si tratta di un dato la cui precisione ci sembra legata alla necessità di ottenere un buon oroscopo, ma di cui ci domandiamo perplessi la fonte: Keplero sa di essere stato settimino, ma il dettaglio del dato appare davvero eccessivo. Una convincente spiegazione potrebbe offrirci una prospettiva meno tecnica e più poetica: di 224 giorni e 10 ore è nelle opere di Keplero il periodo di rivoluzione intorno alla Terra del pianeta Venere, il pianeta dell’amore. Un valore molto vicino a quello noto oggi, pari a 224,7 giorni.

La vena romantica che ci sembra di poter attribuire a Keplero sembra però lasciare posto a una sferzante amarezza quando l’astronomo si spinge a delineare il proprio ritratto. Verso la fine del proprio oroscopo infatti egli si dichiara di natura canina, tanto nel fisico quanto nello spirito e nel modo di fare. A quella di un cane paragona la propria costituzione fisica, agile e nervosa, e scrive che, come un cane, egli beve poco e ama rosicchiare ossa e croste di pane. Pur di ottenere l’amicizia del prossimo, cerca di accontentarlo in ogni modo, e, nel caso ne abbia perso il favore, attende con trepidazione di rientrare nelle sue grazie. Ficca il naso ovunque e attende con ansia le visite. Però, se gli si leva una pur piccola cosa, ringhia sollevando il muso. È solito abbaiare dietro ai malvagi, rincorrerli e morderli con il proprio sarcasmo. E, come la maggior parte dei cani, dichiara di detestare i bagni ed i profumi.

Alcuni link consigliati

Video sull’Armonia delle Sfere, video di Mogi Vicentini, Di Donato, Lombardi

Dossier su Musica e Rivoluzione scientifica

Modello del Mysterium Cosmographicum, video di Mogi Vicentini

Bibliografia

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