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il sublime rovesciato: comico umorismo e affini

Copertina Numero 06

 aprile 2013

Saggi e rassegne

Aurora Panzica

Elementi del comico nel Paradiso di Dante

Nel Medioevo il termine «comico» era usato per indicare un livello stilistico – a cui corrispondeva un registro linguistico – «basso». Ad esso si contrapponeva l’«altezza» – di nuovo, stilistica e linguistica – della tragedia. Una simile distinzione era il retaggio di una tradizione latina passata attraverso l’elaborazione della retorica medievale delle artes.

Aprendo la Commedia dantesca, quindi, non ci dovremmo stupire nel trovarvi dei termini o delle espressioni tipiche del linguaggio «basso», della lingua parlata cioè, e non di quella letteraria. Se, tuttavia, ciò ci sembra più scontato nel caso delle narrazioni realistiche e dei dialoghi mordaci dell’Inferno, può sembrarlo meno nelle atmosfere sublimi e rarefatte del Paradiso. E tuttavia non mancano, anche in questa cantica, esempi di stile comico. Esempi che, alle orecchie di un contemporaneo, potrebbero apparire stridenti.

Dante stesso, proprio all’inizio del suo poema, rivela i suoi modelli: Virgilio e San Paolo (If., II, 31). Il primo narra, nel sesto canto dell’Eneide, la discesa di Enea all’oltretomba e il suo colloquio col padre Anchise (Aen. VI, 684 e ss.), dal quale l’eroe riceverà delle informazioni sul glorioso futuro che attende la sua discendenza. Il secondo, nella dodicesima lettera ai Corinzi (2 Corinzi 12) racconta della sua ascesa al terzo cielo.

Poiché Dante guardava a Virgilio e a quel celebre incontro tra padre e figlio nell’aldilà, è perfettamente comprensibile la grande importanza attribuita dal poeta all’episodio del suo personale incontro, in Paradiso, col suo avo Cacciaguida. La narrazione di esso occupa ben tre canti del poema: il 15, il 16 e il 17. Anche la collocazione di questo incontro nella parte centrale dell’ultima cantica non è certo casuale: l’autore ha voluto fare di esso il fulcro della sua narrazione. L’importanza del dialogo con Cacciaguida non risiede infatti esclusivamente nel destino individuale del poeta, che qui finalmente, dopo le parziali profezie già ricevute nei precedenti regni (Farinata, in If X 79 ss.; Brunetto in If XV 61 ss.; Vanni Fucci in If XXIV; Corrado Malaspina Pg VIII 133 ss.; Oderisi da Gubbio in Pg XI 139 ss.), sarà rivelato, ma riguarda anche il valore e il significato stesso del poema dantesco. Ricevuta infatti la rivelazione del suo esilio e delle sue future tribolazioni, Dante chiederà al suo avo se, al termine del suo viaggio, dovrà dire tutto ciò che ha visto. Se infatti da un lato egli è venuto a conoscenza di cose che, dette, avrebbero potuto inimicargli i potenti, cioè coloro dai quali sarebbe stato costretto a chiedere aiuto, dall’altro, teme, se egli non dirà la verità, di perdere il favore dei posteri. Che fare dunque? Cacciaguida non esita un istante: il poeta non deve tacere nulla di ciò che gli è stato mostrato, anche se le sue parole suoneranno sgradite a molti:

[…] Coscienza fusca
o de la propria o de l’altrui menzogna
pur sentirà la tua parola brusca.
Ma nondimen, rimossa ogni menzogna
tutta tua visïon fa manifesta;
e lascia pur grattar dov’è la rogna.

(Pd., XVII 124-129)

Il respiro di questi versi è ampio, il tono è sostenuto, come in tutti i canti dedicati alla figura dell’illustre avo. Il lettore moderno, tuttavia, non potrà fare a meno di sentire un contrasto tra l’ultimo verso e i precedenti. Un contrasto quasi stridente, se si tiene in conto che i canti di Cacciaguida sono tutti densi di latinismi (valga solo qualche esempio: canto XV, v. 1, v. 55, v. 59, v. 63) e di similitudini «alte» tratte dalla mitologia (ad esempio: XVII 1-4; 46-48).

La rogna o scabbia è una malattia della pelle, trasmessa dagli acari, e che provoca un fastidioso prurito. Non c’è da stupirsi se, in un tempo in cui le condizioni igieniche erano molto scarse, fosse piuttosto diffusa. Il motto che Dante mette in bocca a Cacciaguida, doveva quindi suonare come un detto comune alle orecchie dei suoi contemporanei. L’immagine del malato che si gratta dolorosamente la rogna è forte, ma certo efficace e coerente con il tono da invettiva del discorso di Cacciaguida. Ad ogni modo, abbiamo visto come un simile stile rientrasse nei canoni di ciò che Dante e i suoi contemporanei intendevano per comico.

L’incontro con San Pietro, al canto XXIV, è un altro di quelli cruciali. Il santo interrogherà il viaggiatore sull’essenza della fede, dando inizio a un esame sulle tre virtù teologali che coinvolgerà altri due grandi della Chiesa, quali Giacomo e Giovanni, e si concluderà col canto XXVI. Al termine di esso, i beati intoneranno l’inno del Gloria, e il pellegrino assisterà ammirato a quella visione. Subito dopo però, le tinte della rappresentazione cambieranno radicalmente: una volta terminato il canto, Pietro si lancerà in una dura invettiva contro il male operare dei papi, causa della decadenza della cristianità tutta:

Quelli ch’usurpa in terra il luogo mio,
il luogo mio, il luogo mio che vaca
ne la presenza nel Figliuol di Dio
fatt’ha del cimitero mio cloaca
del sangue e de la puzza; onde ‘l perverso
che cadde di qua sù, là giù si placa.

(Pd., XXVII 22-26)

L’invettiva, benché dia un’impressione di vivace immediatezza, è costruita con grande sapienza retorica. San Pietro si riferisce a Bonifacio VIII, papa all’epoca della visione dantesca (1300), ma non lo chiama per nome. La perifrasi usata per indicarlo è estremamente dura: Bonifacio usurpa il seggio di Pietro, e questo non perché Dante pensasse ad una sua illegittima elezione, ma perché, esprimendosi in tal modo, vuole sottolinearne l’inadeguatezza a ricoprire una simile carica.

L’epanalessi il luogo mio ricalca analoghi moduli biblici, di eloquenza concitata (come nel passo di Geremia, VII, 4: «Templum Domini, templum Domini, templum Domini est». I successivi tre versi hanno un tono diverso, in quanto «riflettono piuttosto il linguaggio realistico o comico» (Giuseppe Giacalone). Rilevanti sono, infine, le antitesi: alla perifrasi usata per indicare Bonifacio VIII, che apre la terzina, si contrappone, in chiusura, quella che si riferisce a Cristo. Allo stesso modo, l’immagine della cloaca si contrappone a quella del cimitero, il luogo in cui è sepolto San Pietro. Ancora, domina in questi versi la contrapposizione chiastica tra Cielo e terra, nonché quella, ad essa corrispondente, tra giudizio di Dio e giudizio degli uomini. Quanto alla prima, è Lucifero il termine qui posto ad esemplificarne la distanza: caduto dal Cielo (quassù), egli si placa, cioè gode, nel vedere i misfatti che si compiono sulla terra a causa della cattiva guida dei pontefici. Il contrasto è dunque basato sull’accostamento di termini alti e termini bassi (cimitero – cloaca). Infine, è posto in rilievo lo scarto tra il giudizio dei mortali e quello divino: se per i primi il seggio pontificio è occupato, per Dio, essendo occupato da un uomo indegno, esso è vuoto (il luogo mio che vaca ne la presenza nel Figliuol di Dio). È fondamentale, ai fini della nostra discussione, sottolineare come, nel punto più alto e solenne della Commedia intesa nella sua storica ed attuale missione, Dante non manchi di fare uso di termini «bassi», e insomma di quello che abbiamo visto essere lo stile «comico», in perfetta coerenza con le tradizionale divisone medievale dei generi.

Il canto XXVII è costruito in modo simmetrico. All’invettiva di Pietro, che occupa la parte iniziale di esso, corrisponde, verso la fine, quella di Beatrice. Se il rimprovero di Pietro si estende però solo ai «pastori», quello d-i Beatrice toccherà l’umanità tutta. Gli uomini, afferma la donna amata da Dante, si sviano nel vano desiderio dei beni terreni, e perdono di vista quelli celesti. Quand’anche volessero fare diversamente tuttavia, non potrebbero, perché l’ambiente in cui vivono è ormai corrotto:

Ben fiorisce ne li uomini il volere;
ma la pioggia continua converte
in bozzacchioni le sosine vere.

(Pd., XXVII 124-126)

Il bozzacchione è un frutto gonfio e marcito. Un proverbio toscano dice: «Quando piove la domenica di Passione, ogni susina va in bozzacchione».

A proposito di questo passo, Giuseppe Giacalone nel suo commento scrive che:

La critica ha trovato questa similitudine alquanto sconveniente nel luogo dove è pronunziata, anche per il linguaggio eccessivamente realistico o comico che non si adatterebbe al tono della deplorazione di Beatrice.

Anna Maria Chiavacci-Leonardi, dal canto suo, rileva che «il termine è parso a molti sconvenire al parlare di Beatrice»; e però puntualizza che «come i termini cloaca e puzza in bocca a san Pietro (vv. 25 e 26), così questo forte vocabolo esprime, secondo il modello biblico, il peso del male che il profeta denuncia.»

Il canto XXIX continua la trattazione delle gerarchie angeliche iniziata al XXVIII. Al verso 85 però, assistiamo ad un brusco cambio di materia: dalla condanna dei vani predicatori, il discorso si volge all’ingenua credulità dei fedeli, che si lasciano abbindolare dall’avidità dei religiosi:

Di questo ingrassa il porco sant’Antonio,
e altri assai che sono ancor più porci,
pagando di moneta sanza conio.

(Pd., XXIX 124-126)

Sant’Antonio abate, padre del monachesimo (secc. III-IV), era rappresentato con un porco ai piedi, simbolo del demonio, le cui tentazioni egli aveva vinto. Fu per questo che il santo venne considerato il patrono degli animali domestici, e fu da qui che derivò e la consuetudine della benedizione di quelli nel giorno della sua festività. Ma la frase di Dante è suggerita dall’abitudine degli Antoniani di mantenere, col ricavato delle elemosine, dei porci che il popolo considerava come animali benedetti. Ancora, i monaci Antoniani avevano fama, nel medioevo, di essere ingordi e senza scrupoli; e come tali sono spesso rappresentati nelle novelle (cfr. Boccaccio, Decam., VI, x; Sacchetti, Nov., CX). A proposito di questo passo, Sapegno scrive:

Osserva il Tommaseo «non è cosa degna di Beatrice e del Paradiso»; e quasi tutti i commentatori moderni son concordi nell’avvertire a questo punto una dissonanza, che alla sensibilità dei contemporanei di Dante doveva per altro riuscire molto meno stridente che non ai lettori d’oggi. Il contrasto del resto non si pone in rapporto a una supposta, ma indefinibile, coerenza psicologica del personaggio di Beatrice, se mai, fra il tono di tutta questa digressione morale e satirica e l’atmosfera spirituale del complesso dell’episodio.

Il giudizio del Tommaseo sembra non cogliere affatto la specificità dello stile del poema dantesco, che è appunto quella di porsi al di là di qualsiasi Stiltrennung. Il linguaggio di Dante cioè, lontano da ogni uniformità, sia pure volta all’espressione di uno stile «alto» – quale si converrebbe, appunto, alla rappresentazione delle immagini e dei concetti «sublimi» propri della visione paradisiaca – si dimostra, al contrario, uno strumento sempre mutevole, pronto ad adattarsi alla materia. Non per nulla ho scelto, come esemplificazioni dello stile comico della terza cantica della Commedia, tre invettive. È qui infatti, nei momenti in cui lo sdegno di Dante nei confronti degli ecclesiastici e dei principi che tralignano raggiunge il culmine, che possiamo leggere i più significativi esempi di stile «comico»: il discorso, mosso e a tratti violento, si snoda mantenendo una perfetta aderenza tra contenuto e forma. Il canto in questione è un ottimo esempio di questa estrema mobilità del linguaggio dantesco, e del suo continuo plasmarsi sulle esigenze del contenuto. Se infatti latinismi (v. 11, v. 15, v. 33…) neologismi (v. 4, v. 6, v. 35…), echi biblici (v. 21) e similitudini «alte», tratte da complesse figurazioni astronomiche (vv. 1-6) abbondano nella prima parte, il tono generale di questa seconda parte è decisamente comico (vi abbondano, tanto per fare qualche esempio, termini come Lapi, Bindi, guance, iscede, cappuccio).

Molti altri esempi si sarebbero potuti portare, parlando del comico nella terza cantica della Commedia, ma mi limito a questi, che ritengo tra i più significativi. L’invettiva doveva essere infatti, per il Dante della Commedia, il luogo privilegiato in cui la sua vocazione di poeta morale (era infatti la virtus, che il giovane poeta, nel De vulgari eloquentia avocava a sé) poteva esprimersi con tutta la veemenza richiesta dalla gravità del caso. Ma la ricchezza e la varietà di colore del linguaggio dantesco, incompresa e respinta dagli umanisti, sarà riscoperta solo in epoca moderna.

Le citazioni critiche sono tratte dal sito: http://dante.dartmouth.edu/