Tredici anni fa in una tiepida serata di metà aprile squilla il telefono, una collega mi propone di incontrarci insieme ad altri attori e clown per discutere sull’idea, partita da un gruppo di amici della Val Gardena, di formare un’associazione di “clown dottori” da attivare nelle corsie d’ospedale in Alto Adige.
L’idea mi entusiasmò anche se già da subito capii che l’impegno e la responsabilità non erano delle più facili. Io ho una formazione ed esperienza teatrale, di teatro di strada e come clown; sono abituata a stare sui palcoscenici, ma mi sono subito resa conto che questo non era sufficiente per andare in ospedale e cercare di entrare in relazione con il dolore di “piccoli” e “grandi” pazienti. L’immagine classica del clown da circo non mi è mai appartenuta, l’ho sempre trovata molto triste. Sembra che sia sufficiente una parrucca colorata, un naso rosso e delle grandi scarpe perché il personaggio possa andare “in pista” e far ridere, a tutti costi. Ho sempre creduto invece che per essere un clown sia necessaria umanità, sensibilità e autenticità e che tutto questo vada continuamente alimentato nella relazione, sul palcoscenico piuttosto che nella piazza.
Ci troviamo di fronte a una figura che ride delle sue debolezze, che fa dei suoi limiti un punto di forza; un antieroe. Se tutto questo è vero allora non sono necessari parrucche, scarpe spropositate o nasi rossi. Ce ne danno dimostrazione personaggi straordinari, capaci di una poesia disarmante, come Jacques Tati, Charlie Chaplin o Roberto Benigni. Sono dei magnifici clown, in grado di farci ridere, commuovere, stupire e sorprendere nello stesso momento. È questo il clown in cui credo, è questa la figura che più mi appartiene perché le sue qualità sono molto vicine al concetto di libertà e solo attraverso l’autoironia e l’accettazione dei propri limiti, delle proprie debolezze, della propria condizione, che si apre la via del riscatto.
Queste riflessioni all’indomani della proposta confermavano le difficoltà. Ho accettato questa difficile scommessa all’interno degli ospedali altoatesini avendo ben chiaro che non sarei andata dai pazienti per fare uno “spettacolo” nel quale bambini o adulti sarebbero stati passivi spettatori di un intervento che si sarebbe ripetuto uguale per tutti i pazienti o per tutte le stanze, ma per cercare di entrare in relazione con loro, senza sapere, prima di vedere la persona, cosa avremmo fatto.
Ogni incontro lo costruiamo rispettando e ascoltando il paziente, cercando di entrare nel suo mondo, nella sua realtà, in base all’età, allo stato psicologico del momento, alla patologia. Non è stato subito così facile arrivare a questo, ci sono voluti esperienza, errori e fatiche psicologiche. Inizialmente ci sono stati momenti in cui facevo fatica ad accettare il dolore, la sofferenza, la malattia, ma poi tutto questo si è trasformato, è stato condiviso, è diventato speranza ed energia positiva. Questa è la forza del clown.
In ogni stanza in cui entriamo cerchiamo il pretesto per entrare in relazione attraverso le cose o persone che appartengono al mondo del paziente, bambino o adulto che sia, a partire dal pupazzo o dalla bambola o dal gioco elettronico oppure dall’amico o dal parente che troviamo nella stanza. Da questo capiamo con che tipo di energia possiamo avvicinarci alla persona, senza partire con l’idea che è necessario a tutti i costi “dover” far ridere. Per un anziano per esempio anche solo sussurrare insieme a lui una canzone che appartiene alla sua gioventù significa riportarlo per un attimo fuori dalla realtà nella quale vive in quel momento, e la sua gratitudine te la dimostra anche solo con uno sguardo o un sorriso. Per un bambino, non è molto diverso: portarlo per pochi istanti nel mondo del gioco, dal quale è stato sottratto, è come dimenticare per un momento di essere in ospedale. Alla fine, un sorriso, una tirata di camice per dire “Torni ancora vero?” ti riempiono di gioia e ti rinfrancano.
Tredici anni fa eravamo tre clown e andavamo solo nell’ospedale di Bolzano, oggi siamo in dodici e andiamo nelle corsie dei sette ospedali della provincia con il nome “medicus comicus”.