Sanguineti collabora con riviste e quotidiani per decenni, un lavoro intenso e partecipato, ora raccolto in cinque volumi che coprono la produzione che va dal 1973 al 1982. L’attività giornalistica accompagna quella dell’impegno politico diretto nelle istituzioni. Nel 1968 si presenta alle elezioni legislative a Torino come indipendente nelle liste del Partito Comunista, è poi consigliere comunale a Genova nel 1978 e dal 1979 al 1983 viene eletto in parlamento, sempre come indipendente.
I temi discussi nella sua pubblicistica sono quelli dell’egemonia culturale, dell’educazione, della funzione dell’intellettuale, della questione della lingua, inseriti spesso nella fitta pratica del recensore di letteratura, saggistica, cinematografia, musica e teatro. Sempre presenti nell’argomentare e abbondantemente citati sono Gramsci, Benjamin e Brecht.
Tema centrale è il mito illuministico o post freudiano di un Io che deve espandersi a scapito dell’Es e la necessità di una coscienza di classe che sia anche capacità critica. E la critica è sempre un fatto etico (WEBER 2010). L’uomo, annota Sanguineti in un «ghirigoro» del 1980, non ha in fondo che un racconto da esibire: il suo passaggio dalla natura alla cultura, il suo farsi società e storia (SANGUINETI 1989, pp. 185-186). L’istanza razionalista è una costante della produzione sanguinetiana. Scrive Elisabetta Baccarani (BACCARANI 2002, pp. 9-11):
In questo senso, l’uscita dal labirinto dell’irrazionalismo – questo lavoro interminabile che, volto ad espandere il dominio della coscienza e a restringere quello dell’inconscio, dell’immaginazione e del desiderio, procede attraverso una pratica sempre più sicura della ragione e del principio di realtà – è il racconto che Edoardo Sanguineti, con la fedeltà che all’espletamento dei riti si conviene, va esibendo da un cinquantennio, alla ricerca mai interrotta e mai compiuta dei «noccioli razionali» nascosti sotto la polpa di sempre nuovi deliri. […] La tecnica messa in pratica – prendendo a prestito una categoria impiegata da Günter Anders per Beckett in un saggio caro a Sanguineti e contemporaneo a Laborintus – è quella dell’inversione della favola, della «parabola negativa» (ANDERS 1961): attraverso la riattivazione di materiali culturali rimossi, si rappresenta, per denunciarla e condannarla, una cultura della rimozione che procede occultando anziché facendo riaffiorare, anziché nominare e portare sul terreno della ragione.
Le stesse considerazioni sono presenti nella poesia Stracciafoglio, 47 (ottobre 1979, in SANGUINETI 2010, p. 278):
(e se una cellula, se un nucleo cede, se fiorisce
di impazzite metastasi, ebbene, questo non significa, ancora, niente: perché altri tessuti
resistono in composizione e in ricomposizione: in organizzazione): (in noccioli razionali):
(che ricerco da anni, sotto le polpe dei deliri)
La pubblicistica di Sanguineti è mossa sempre dalla convinzione che «uno dei compiti dell’intellettuale critico sia la critica dell’intellettuale» (GAMBARO 1993, p.144). Sanguineti dichiarava di essere diventato poeta in odio al poetese e letterato in odio alla letteratura.
La lingua del suo giornalismo, pur dovendo tenere presenti le esigenze legate alla chiarezza della comunicazione, non è mai banale. Scrive Luigi Weber (WEBER 2010, p.650):
Sanguineti, pur senza interessarsi mai della bella pagina, e anzi, scrivendo con una rapidità tutta da stile orale, prodotto di una esplicita volontà comunicativa e quasi conativa, da persuasore dichiarato insomma, convoglia nei suoi articoli un numero impressionante di neologismi, per lo più avverbiali o aggettivali, a volte sintetici di intere espressioni proverbiali o quotidiane, che danno a quelle prose una pirotecnica vivacità polemica. È una lingua caricaturale ma non pedantesca, iperbolica e non biliosa, dalla sintassi telescopica, con continui incisi che sprofondano gli uni dentro gli altri apparentemente senza fine, intrisa di tutte le parole d’ordine, gli slogan, i tic che attraversano a folate il parlato di una comunità.
In un’epoca di rinnovamento linguistico così frenetico, soprattutto a causa dell’influsso dei mezzi di comunicazione di massa – che dagli anni Settanta avevano cominciato a incidere vistosamente sull’italiano come sistema – la capacità sanguinetiana di registrare e mimare nei suoi corsivi tutti i registri in auge nel decennio in questione, dal gergo della critica letteraria post-strutturalista a quello dei movimenti giovanili impegnati, dal politichese con le sue contorsioni e le sue opacità all’acredine corsara di pasoliniana memoria, risulta uno strumento di notevole efficacia demistificante. […] Anche per tutti gli anni Ottanta, quando il clima politico culturale è assai diverso, la «polifonicità» mira esclusivamente a un obiettivo critico e decostruttivo. I «dialoghetti», giusta la misura ridotta e il timbro comico-satirico, fanno subito pensare al modello delle Operette morali.[…] Scelta solo apparentemente «facile»:[…] la parodia lavora sempre su una memoria condivisa e a portata di mano per istituire una distanza.
E ancora sulla parodia (WEBER 2004, p. 27):
A Sanguineti, parlando di parodie, piace insistere sul valore etimologico di «contro-canto», e da questo si potrebbe anche estrarre la pseudo-etimologia seconda di «contraria al canto», così da aver chiara la duplice direzione in cui si sviluppa l’attività parodica sanguinetiana. Nel particolare, nell’attacco ad personam, si ritorce contro l’avversario la sua stessa parola – e ciò può generale comicità, ma solo come effetto secondario, perché l’intento è anzitutto critico – mentre in generale si tende a sfigurare un’intera idea di lirica, atto che può essere anche totalmente serio. Le due direttrici presentano un importante punto comune: la parodia nasce sempre come genere dialogico, accampato sullo sfondo preesistente di una lingua altrui, e profondamente compenetrato dalle risonanze di questa. (BACHTIN 1975)
Nel breve saggio Per una teoria della citazione (SANGUINETI 2010, pp. 335-347), Sanguineti avanza una teoria di ordine quasi antropologico: «tutto è citazione». E citare in abbondanza con modalità diverse è pratica molto presente nella scrittura di Sanguineti. Per lui, come del resto per Benjamin, la citazione non serve per uso esornativo, e nemmeno per sfoggio di erudizione, di letture e di sapere; non ha importanza come conferma del già detto da parte di una autorità riconosciuta e non aumenta il prestigio di chi la usa.
Inquietanti più che rassicuranti, le citazioni inducono perplessità, danno da pensare, costringono a continue pause meditative, incentivano le domande più che fornire le risposte; mettono in discussione certezze che parevano acquisite. […] E la violenza è duplice: sul testo in cui la citazione viene inserita e in cui getta lo scompiglio e anche sul contesto da cui viene estrapolata. A questo proposito è d’obbligo ricordare un famoso passo di Benjamin da Strada a senso unico: «Le citazioni, nel mio lavoro, sono come i briganti ai bordi della strada, che balzano fuori armati e strappano l’assenso all’ozioso viandante». […] Forse non ha torto chi sostiene che «la citation confine à la parodie» o allo humour. Perret parla di «insolence de la citation»; e, aggiunge, «citer c’est se moquer». «Ludique, paradoxal et polémique, la citation benjaminienne mélange les genres, les oevres, les tons, au detriment de toute cohérence référentielle».[…] La citazione contiene un’energia che in qualche modo si trasmette a chi legge. (SCARAMUZZA 2002, pp. 15-16, p. 19, p. 22)
Sanguineti sottolinea così l’importanza della citazione nella sua opera:
Quando sostengo che il Novecento è il secolo del cinematografo, come vado dicendo da un po’ di tempo in circostanze di questo genere, punto su quello non perché il cinematografo abbia avuto un’influenza così decisiva […], ma perché è il secolo del montaggio. […] Perché il montaggio non è altro che la messa in evidenza del fatto che tutto è citazione, nel senso che tutto è combinazione di codici. […] Niente è più scorrevole e fluido nel momento in cui entro davvero nel gioco citazionale, non come un sistema autoritario, ma come un sistema continuo di opzioni per cui tra gli infiniti – potenzialmente, in realtà finiti, come sempre – scarti che mi posso permettere scelgo quelli, e non altri.
Citare diventa quindi lucida pratica di libertà responsabile nei confronti di un pensiero e di una tradizione. I frammenti citati si fanno nuovo testo, i significati emergono attraverso il montaggio provocatorio del materiale.
Confortati da queste considerazioni riportiamo di seguito alcuni interventi di Edoardo Sanguineti sulla cultura, la scuola e la didattica. Si tratta di testi ironici e a volte spiazzanti, ancora capaci di provocare, utili per la riflessione, anche se in qualche caso sono passati più di trent’anni.
(dicembre 1978, ora in SANGUINETI 1985, pp. 229-231)
V – Diari scolastici, diari scolastici nuovi. Bisognano, signor studente, diari scolastici?
S – Diari scolastici per l’anno nuovo?
V – Sì, signor studente superiore.
S – Credete che sarà felice quest’anno scolastico nuovo?
V – Oh, studentissimo sì, certo.
S – Come quest’anno passato?
V – Più più assai.
S – Come quello di là?
V – Più più, studentissismo superiore.
S – Ma come qual altro? O dovremo sperarlo migliore di tutti gli anni riformandi, così in blocco?
V – Riformando è questo ancora, per verità, se di riforma vogliamo mai discorrere. Ma la riforma, ella mi insegna, è imminente.
S – Felice sarà dunque, in ogni modo, la scuola a venire, la futuribile e futuranda, non la nostra, non la mia.
V – L’attesa della riforma, veda lei, è come il sabato del villaggio, che è il più gradito giorno ecc. ecc. […] Ella mi tace il sesto punto, e il supremo, che è il rivoluzionamento della maturità.
S – La quale, per l’appunto, per intanto, la non si rivoluziona affatto. Se la vederà chi se la viverà, quella, se pur se la vederà. Certo, la scuola che è una cosa bella, vedete voi, adesso, non è la scuola che si conosce, vuoi riformanda, vuoi riformata, ma quella che non si conosce niente, quella di quelle riforme per le quali ancora non sono nati i riformatori, e forse nemmeno i riformatori dei riformatori. Non la scuola passata, non la presente e viva, non la futura prossima, non la futura remota, ma la futurissima remotissima, che non se la chiameranno più la scuola, neanche, ci scommetto, tanto poco scolastica gli riuscirà, un bel giorno, i figli dei figli dei miei figli.
V – Speriamo.
S – Dunque mostratemi il diario scolastico più bello che avete.
V – Ecco, studentissimo. È tutto un fumetto, lo guardi. Cotesto vale tremila lire.
S – Ecco tremila lire.
V – Grazie, studentissimo.A rivederla. Diari scolastici, diari scolastici nuovi.
(febbraio 1978, ora in SANGUINETI 1985, pp. 46-48)
Non sono un platonico, non punto sull’anamnesi, niente. […] Quello che voglio dire è che chi insegna, cioè fa finta di insegnare, è uno che deve proporre, se vuol far venire a qualcuno una qualche voglia di impararsi una qualche cosa, un po’ di realtà ignote, e perciò difficili, faticose, oscure, quando non addirittura tenebrose, e tenebrosamente temerarie. Insomma, ci vogliono parole sconosciutissime, voci del tutto inconsuete, termini rari e inusuali, concetti sottili come ragnatele, che suscitino brame violente di decifrazione, impulsi alla decrittazione, desideri inrefrenabili da enimmisti maniacali. Se no, non se ne fa niente. Non c’è cosa più dolorosa, né cosa più seccante, in questo nostro universo, per una mente tenera segnatamente, che la replica magistrale di ciò che è limpido, familiare, consaputo. Ci vogliono parole impossibili, che designino cose impossibili. Provare per credere. Il sapere, si sa, nasce dalla meraviglia, e omne ignotum pro magnifico est. E come, per via d’esempio, si potrebbe mai apprendere una lingua, viva o morta che sia, se non partendo come esploratori ardimentosi, decisi ad affrontare i deserti della propria notturna, insidiosa ignoranza? Occorre che il fanciulletto, così, […] urti come in un duro sasso, e su quello sia pertanto indotto, per contraccolpo, a spalancare voracemente le lacerate meningi offese, al fine di assorbirlo, fagocitarlo, assimilarlo, con uno struzzesco elitoliticocervello.
[…] gli è che la scuola è un teatro, infine. E il docente, lì in cattedra, o passeggiante in aula, ora monologante (come per lo più accade), ora dialogante con il suo pubblico e il suo coro (che è cosa più rara), è un istrione, un uomo di palcoscenico, un guitto, un primattore, un protagonista in senso tecnico e gergale: uno che si fa, al limite, tutto un suo spettacolo da solo. Esistono saggi e assaggi di psicoanalisi del professore e di psicoanalisi dell’attore: è un peccato, ch’io sappia, che non siano disponibili ricerche, meglio che comparate, unificanti. Ai maestri si insegna pedagogia (e forse per questo non sempre la imparano). Vorrei deprecare che non si insegni recitazione, che sarebbe tanto più giovevole e pertinente. E procurerebbe, a siffatti professionisti, miglior coscienza di sé, nel complesso. Non sono mica lì, come credono sovente, per loro specifica e socialmente generalizzata sciagura, sostituti ad orario di babbo e di mamma (sull’asse immortale, e immorale, scuola-famiglia), a coltivarsi anime in boccio, infatti. Niente giardinaggio, nemmeno di metaforiche infanzie. Sono dei recitanti (che però non cantano, è vero, di norma), perfettamente caratterizzabili da quel medesimo impasto di timidezze abissalmente inconfessabili, e di esibizionismi infrenabilmente narcisistici, che trascina simmetrico i loro colleghi teatranti nelle sale appositamente apprestate. […] Ma intorno alla lezione come fatto scenico, all’interrogazione come dialogo drammatico tenuto a braccia, tanto per dirne un’altra (e spesso precipitante nel tragico netto), all’esame come psicodramma organicamente organizzato, c’è tutto un libro da scrivere, volendo, anzi una biblioteca, e non certo un povero asterisco così, e così ‘a parte’.
(1979, ora in SANGUINETI 1987, pp. 1-3)
A 1. Insegnare è impossibile. Imparare, invece, no. Dal punto di vista squisitamente (e genericamente), didattico, non si può fare, e non si è fatto in effetti, un passo oltre il Socrate. Il docente è maieuta, levatore, ostetrico. Sterile, non ingravida niente e nessuno.
A 2. Insegnare è possibile. Questa attività appartiene, teste sempre il Socrate, all’arte erotica, capitolo della seduzione. Teste soprattutto la socratica cicuta, il docente valente corrompe il giovine discente. Lo spinge a ingravidarsi di corsa, lo induce ad amorazzare immaltusianamente con questa o con quella pratica intellettuale. Per esempio, per l’appunto, con la storia letteraria. L’importanza della lezione, del seminario, della discussione, è tutta qui. Occorre, al possibile, scatenare una specifica libido disciplinare. […] Si può stimolare demonicamente (anche nell’accezione socratica) alla perdita dell’innocenza e dell’ignoranza, indurre una casta mente a sverginarsi, non altro. Provocarla a procreare. La seduzione è connessa all’oralità (lectio, oratio, dialogus). L’arte maieutica interviene dopo, è ovvio, a cose fatte, in condizioni di avanzata gravidanza. Il docente valente assomma in sé le virtù del corruttore e del levatore. Il docente sufficiente possiede l’una delle due virtù. Gli altri docenti non servono.
B 1. La storia letteraria non esiste. Le ragioni della sua inesistenza si ritrovano in Marx, e non occorre ripeterle. Esiste, invece, la storia tout court. La storia della letteratura è un fantasma intellettuale tuttavia praticabile, nel quadro della comprensione della storia tout court.
B 2. La storia letteraria esiste. Anche troppo. Come dimostrano, al primo sguardo, i manuali in vendita nelle principali librerie, le cattedre che ne recano l’insegna, gli esami che ne deducono il titolo. Perché e come sia nata la letteratura (e i manuali, le cattedre, gli esami), trattandosi di fenomeni storici discretamente rilevanti (anche se non così monumentali come sogliono credere esaminatori ed esaminandi, appena messi in opera), è cosa comprensibile, spiegabile, e persino, con le avvertenze sopra esposte, insegnabile.
[…]
G 2. Detto questo, non è detto ancora niente. Si tratta di tirarsi su le maniche, docente o discente, e di lavorare. Con i testi, con i codici, con i segnali, con le ideologie, con la storia. Il docente, allora, apre la sua bottega artigiana, meglio se adeguatamente sviluppata a livello altamente industrializzato, e se dotata di opportuni strumenti tecnologicamente adeguati e di attrezzati laboratori, e lavora. E fa lavorare.
H 1. La scuola (liceo, università) non è un luogo dove si insegna. E nemmeno, propriamente, dove si impara. È un luogo dove si produce (si dovrebbe produrre) lavoro intellettuale. Lavorando, si impara, persino, volendo. Proprio come nelle elementari (a leggere, a scrivere, a far di conto).
H 2. La scuola (liceo, università) è un luogo dove si insegna, anche e persino, a insegnare. E qui conviene riprendere da capo, incominciando da A 1.
(luglio 1981, ora in SANGUINETI 1993, pp. 118-120)
La sterminata bibliografia psicosociologica che ormai circonda, come una muraglia di bronzo, i due bronzi di Riace, e largamente compensa la rarità, la problematicità, la riservatezza dei contributi di ordine esteticoscientifico, può essere classificata, in prima approssimazione, e molto genericamente scribillando, sotto le seguenti rubriche:
(settembre 1981, ora in SANGUINETI 1993, pp.174-176)
Qualche volta, secondo che l’occasione mi suggeriva, mi è accaduto di mettere in discussione la categoria dei «giovani» come, diciamo così, corpo sociale separato. L’epoca dei «giovani» come «classe» (e degli «studenti» in particolare, tra quelli) pare tramontata da un pezzo, ma non è detto, naturalmente, che non si possa ricominciare da capo. Mi pare bene assestata, per contro, e troppo poco problematicizzata, la categoria di «cultura giovanile». […] La frequente idiozia, per fare un paragone, della «cultura infantile», consiste, come è ben noto, nella separatezza di cui troppo sovente gode, nell’irrelata e incomunicante definitezza, onde la determinatio si risolve in totale negatio, con cui si chiude sopra sé medesima. […] Della «cultura giovanile», mi pare, può e deve dirsi, osservata ogni proporzione, la medesima cosa. E può e deve mettersi l’accento, tuttavia, date le circostanze, sopra la congiunzione minacciosa e alienante del consumismo giovanile e del giovanilismo consumile. Così, l’emergere della «cultura giovanile», che è notabile acquisto, in sé, di fatto tende a ritorcersi contro il destinatario come strumento di emarginazione e di contenimento sottoculturale, e talora la si sbandiera proprio, con insana fierezza, come insegna di autoemarginazione collettiva, in vista di una pseudo identità di gruppo, separata e diversa. […] Mi preme notare, piuttosto, che, in ultima istanza, come «cultura infantile» è quella che producono gli infanti, e non quella che viene gettata loro addosso, e «cultura popolare» , tanto per dire, è quella che dal popolo si produce, e non per il popolo, andandoci verso, così «cultura giovanile», finalmente, è quella che si produce dai giovani, non che si consuma.
(novembre 1982, ora in SANGUINETI 1993, pp. 314-318)
Qualcuno dirà subito che, stimolato da infondate nostalgie, non riesco a cogliere il fatto che viviamo nel migliore dei mondi polemici possibili, qui dove di tutto si può discutere, tutto dicendo, e il contrario di tutto, senza il minimo rischio di essere chiamati, né oggi né mai, a pagarne la minima conseguenza, anzi muovendosi così come porta il vento. Questo benefico effetto di irresponsabilità generalizzata, che incomincia nel Consiglio dei Ministri, e scende, come generosa elargizione, sino al più umile dei gazzettieri, viene sbandierato da ogni parte come una mirabile conquista democratica. Rimango dell’idea, che concedo essere strampalatissima, e di cui molto mi scuso, che democrazia e responsabilità siano due faccende piuttosto congiunte, e sto per dichiararle, in certi momenti, intercambiabili. Ma, appunto, è un’opinione che posso esprimere godendo di quell’irresponsabilità felicemente regnante cui ho appena accennato. […] I tempi in cui si portava una visione del mondo, e chi ne era spoglio ne provava imbarazzo, sono tempi, alla lettera, da storia sacra. Da quando gli dei se ne sono andati, e infine dio in persona è morto, lo sanno anche i bambini delle materne che tutto è possibile, niente è interdetto. Tutto, dico, meno che pronunciare un giudizio deciso, operare una scelta netta, esercitare un’opzione impegnativa. Gli oltreuomini di massa non ci cascano mica. E si capisce benissimo che ci si possa scannare furiosamente lo stesso, perché l’importante, ormai, è che non ci si scanni per un’idea. Ci sono ben altre cose, in giro, e di molto maggior momento, per cui affannarsi, e per cui non occorre tentare nemmeno uno straccio di giustificazione. […] Se avessi scritto quel tale intervento che non scrissi, avrei dovuto confessare, incautamente, che, nell’accezione che oggi fiorisce, non mi sento laico per niente. […]
(2002, ora in SANGUINETI 2010, Cultura e realtà, pp.37-38)
Un classico, in qualche modo, è sempre scritto in una lingua morta. E questo significa che i classici ci interessano perché sono da noi radicalmente diversi. Sono radicalmente esotici, oserei dire, temporalmente come spazialmente, almeno per metafora. Importano perché additano forme di esperienza da noi remote, anche impraticabili,e anche, non di rado, incomprensibili, ma che, appunto per questo, ci aprono a dimensioni diverse, altrimenti ignote e insospettabili.
[…] Un classico vive, ad ogni modo, in primo luogo, in traduzione. Ben inteso, questo vale anche per Leopardi, anche per Beckett. Anche il più prossimo, tra i classici, opera perché ogni suo lettore lo converte nel proprio codice, non soltanto e non tanto individuale, in arbitrario e caotico soggettivismo, ma storico e sociale, concretamente. In breve, si traduce sempre, come si vive, secondo moduli che appartengono, in ultima istanza, a una classe determinata.
I classici servono perché aprono a un possibile futuro, in quanto sono a dichiararci, di fatto, che si può cambiare la vita e modificare il mondo. Ammaestrano, documentatamente, intorno alla dialettica storica e ci orientano in un autentico storicismo assoluto. Non importano affatto come immagini di durata, come monumenti di eternità. Anzi, ci dicono splendidamente che c’è un arete di Achille e una di Socrate, che la virtus di Tommaso non è quella di Machiavelli. E questo ci viene certificato sperimentalmente, in parole, in immagini, in suoni, in forme.
Tradizione, dunque, è traduzione. E significa dunque una reinterpretazione perpetua, inarrestabile, di un corpus mutevole di testi, iscritti in un mutevole canone. E la storia culturale è, per questo riguardo, una storia di canoni, espliciti e impliciti, in costante divenire. E poi l’Omero di Virgilio è forse l’Omero di Monti? E il Virgilio di Dante è forse quello di Caro? Il fondatore del codice europeo, nella sua forma esplicitamente moderna, fu, per molti aspetti, Curtius. Ma nell’età della globalizzazione, è evidente, non si tratta più nemmeno di un codice occidentale, soltanto. Con l’immediata avvertenza, però, si intende, che un codice egemone è in continuo conflitto con altri codici, alternativi. E che la storia della cultura europea, comunque, è anche e forse soprattutto la storia non già della fortuna, ma delle varie sfortune ricorrenti di Omero, di Virgilio, di Dante, di Shakespeare, di Goethe…
I classici nascono con la filologia, e sono condizionati alla filologia. Dove non si ha filologia, non si ha classico, propriamente. E la filologia si converte sempre, vichianamente, in filosofia. È filosofia della storia. È storia, in assoluto, precisamente.
SANGUINETI, Edoardo (1985), Scribilli, Milano, Feltrinelli (articoli del 1978 e del gennaio-giugno del 1979)
SANGUINETI, Edoardo (1987), La missione del critico, Genova, Marietti
SANGUINETI, Edoardo (1989), Ghirigori, Genova, Marietti (interventi dal giugno 1979 al dicembre 1980)
SANGUINETI, Edoardo (1993), Gazzettini, Roma, Editori Riuniti (interventi del 1981 e 1982)
SANGUINETI, Edoardo (2010), Cultura e realtà, Milano, Feltrinelli
SANGUINETI, Edoardo (2010), Segnalibro. Poesie 1951-1981, Milano, Feltrinelli
ANDERS, Günter (1961), Essere senza tempo, in L’uomo è antiquato, Milano, Il Saggiatore
BACCARANI, Elisabetta (2002), La poesia nel labirinto. Razionalismo e istanza «antiletteraria» nell’opera e nella cultura di Edoardo Sanguineti, Bologna, Il Mulino
BACHTIN, Michail (1975), La parola nel romanzo, in Estetica e romanzo, Torino, Einaudi
GAMBARO, Fabio (1993), Colloquio con Edoardo Sanguineti, Anabasi, Milano
SCARAMUZZA, Gabriele (2002), Citazione come oblio,http://www.rodoni.ch/zemlinski/PDF/benjaminbaudelaire.pdf
WEBER, Luigi (2004), Usando gli utensili di utopia. Traduzione, parodia e riscrittura in Edoardo Sanguineti, Bologna, Gedit
WEBER, Luigi (2007), Nota introduttiva a E. SANGUINETI “Taccuini”, «POETICHE», 2007, 3/2007, pp. 413 – 415 (i dodici testi parodici più rappresentativi in forma di dialoghetti o di leopardiane operette morali sono stati riproposti integralmente)
WEBER, Luigi (2010), «Un salutare difetto ottico». Edoardo Sanguineti recensore, in Parola di scrittore. Letteratura e giornalismo nel Novecento, Roma, Bulzoni, pp. 645 – 662