Monaldo Leopardi nacque a mezzogiorno del 16 agosto 1776 dal Conte Giacomo Leopardi di Recanati e dalla Marchesa Virgina Mosca di Pesaro. Nacquero negli anni successivi anche i fratelli Vito, Ferdinanda ed Enea. Monaldo Leopardi è conosciuto soprattutto per l’onore (e l’onere) di essere il padre di Giacomo Leopardi ed è inoltre fortemente sospettato di avergli in parte rovinato l’esistenza. Fu però anche scrittore prolifico e poligrafo, forse grafomane, considerata la sua produzione immensa e multiforme: scrisse di politica, economia, storia morale, teologia, archeologia, giurisprudenza. Fu promotore e redattore della rivista “Voce della ragione” (1832-1835), un periodico sicuramente reazionario, ma non allineato, tanto che lo fece chiudere la stessa Curia perché non rinunciava alle sue tesi sulla non infallibilità del papa in alcune questioni. Appassionato di teatro, aveva composto una tragedia, il Montezuma (edita a Roma nel 1802), e una commedia, La parrucca, rappresentata a Recanati nel Carnevale del 1822.
Sempre disponibile all’impegno politico e amministrativo, nonostante i tempi complessi che si trovò a vivere, fu governatore di Recanati durante il periodo dell’occupazione francese (1798-1799) e rischiò la condanna a morte dopo la Restaurazione. Consultore della Congregazione di governo della Provincia di Macerata, fu continuamente in contrasto con il Legato Pontificio. Dopo essere stato podestà di Recanati venne messo sotto inchiesta per presunte irregolarità amministrative e costretto a recarsi a Roma per darne ragione.
Una vita intensa e qualche volta fuori schema, come quando introdusse per la prima volta la vaccinazione nello Stato Pontificio nel 1801, dopo essersi documentato su testi inglesi, in un momento in cui le polemiche erano accese perfino a Londra. La sperimentò sui figli, in primis su Giacomo e scrisse sul tema una paradossale orazione accademica In lode del Vajolo, contro l’atteggiamento falsamente religioso di quelli che si opponevano al nuovo metodo, rifiutando così di salvare vite umane (FOSCHI 2012, p.170).
Passione di tutta la sua vita fu la creazione e la conservazione dell’immensa biblioteca, già aperta al pubblico nel 1812, come si vede ancora nella lapide sullo stipite della porta filiis amicibus civibus.
Il desiderio di coltivare la cultura in una dimensione pubblica e non solo privata si ritrova anche nel grande interesse per la storia locale e nel tentativo di fondare una piccola accademia a Recanati, di cui lo stesso Monaldo racconta con ironia.
Sul cominciare dell’anno 1801 eressi in Casa mia una Accademia Poetica, e con buona grazia di quei molti i quali deridono questa sorta di instituzioni credo che io facessi una cosa molto utile alla nostra società. Queste Accademie sono un piccolo Teatro in cui si può fare una qualche pompa di ingegno comodamente, e senza bisogno di grandi capitali scientifici, eccitano alcun principio di emulazione, accendono qualche desiderio di gloria, impongono l’amore per lo studio o per lo meno la necessità di simularlo, riuniscono la società, civilizzano i costumi, rendono familiari le frasi buone e le eleganze della Lingua, e servono anche non di rado la Religione, imponendo il parlarne in certe adunanze con alti e rispettosi concetti.[…] La nuova Accademia in pochi giorni trasse dalle Ceneri l’antichissima Accademia dei Disuguali sorta qui nel 1400, e solo da pochi anni giacente, e, fatta una istessa con quella, fiorì per tre o quattro anni finché ebbe sede in casa mia, ed io ne sostenni le spese, e ne ebbi cura Paterna. Sembrandomi però che taluno ravvisasse quel domicilio dell’Accademia come un orgoglio mio personale, la emancipai, e traslocata al Palazzo del Comune i nuovi suoi direttori la lasciarono perire sollecitamente. (LEOPARDI M., 2012, p. 148)
L’ autobiografia di Monaldo Leopardi è una lettura sorprendente per la vivacità, l’ironia, l’acutezza delle osservazioni, non prive però di un certo eccessivo compiacimento, di uomo che si sente comunque superiore agli altri. Scritta intorno ai cinquant’anni, probabilmente fra il 1828 e il 1830, copre il periodo che va dalla nascita al 1802, quando ha 26 anni e Giacomo è appena nato, e non procede oltre.
Rimasto orfano di padre a quattro anni, Monaldo lamenta fin dalle prime righe il fatto di essere cresciuto senza una guida sicura, anche se non gli sono mancati l’affetto e la presenza della famiglia.
Cerca di analizzare se stesso sforzandosi di essere onesto, non nascondendo i difetti e il suo modo particolare di relazionarsi al mondo, con ironia, come quando racconta la sua decisione di vestirsi sempre di nero e di tenere lo spadino al suo fianco, perché «con la Spada al fianco e sempre in abito di parata, non si poteva cadere in bassesse, anche volendolo» (LEOPARDI M., 2012, p. 64).
Il fatto stà che la natura o l’abitudine di sovrastare mi è sempre rimasta, e mi addatto malissimo anzi non mi addatto in modo veruno alle seconde parti. Voglio piegarmi. Voglio essere docile, rimettermi e tacere, ma in sostanza tutto quello che mi ha avvicinato ha fatto sempre a mio modo, e quello che non si è fatto a modo mio mi è sembrato malfatto. […] Ho cercato sempre con buona fede quelli che vedessero meglio di mè, ed ho trovato persone saggie, persone dotte, persone sperimentate; ma di ingegni quadri da tutte le parti e liberi da qualunque scabrosità ne ho trovati pochissimi, […] mi è venuta la tentazione di credere che la mia mente fosse superiore a molte, non già in elevazione, ma in quadratura. (LEOPARDI M., 2012, p. 44)
Come si leghino nell’animo mio orgoglio e mansuetudine, io non lo sò; ma sò che non sono altiero, non sono collerico, amo tutti, non cerco vendette, faccio bene a chi mi fa male, e tuttavia sono orgoglioso. Il cuore dell’uomo è un abisso ed anche lo sguardo proprio è di rado puro abbastanza per penetrare nel fondo di quella oscurità. Forse l’orgoglio mio è più fino di tutti e si compiace nel vanto di quella mansuetudine, di quella calma, di quella longanimità, che in questo caso non sono più virtù ma satelliti dell’ambizione. (LEOPARDI M., 2012, p. 62)
Il ricordo degli studi fatti con un precettore gesuita è pessimo e parecchie pagine sono dedicate al rammarico di non essere riuscito a imparare nulla con quel metodo di insegnamento, troppo meccanico e noioso per poter appassionare. La fine della scuola è accolta come una liberazione da una inutile prigionia.
In modo schietto, diretto e sobrio, da commedia goldoniana, Monaldo racconta poi il suo primo amore inibito dalla timidezza e dalla paura, il gusto di spendere senza freno non appena viene in possesso dei suoi soldi, il fidanzamento precipitoso con una signorina di cui si accorge prestissimo di non essere innamorato e quindi la necessità di rompere il contratto matrimoniale con relativo indennizzo economico alla famiglia di lei. Nel racconto spregiudicato che fa di quegli anni deve ammettere più volte che il dissesto finanziario della sua famiglia trova origine nei suoi comportamenti avventati e senza raziocinio, spesso però anche generosi, specialmente nelle spese fatte durante la guerra, motivate forse, ma non certo fonte di guadagno.
L’amore per la futura moglie è uno slancio improvviso e categorico, che si rivela quando si è liberato da poco del fidanzamento precedente. Monaldo deve lottare contro l’avversione della famiglia, in particolare della madre, che arriva a supplicarlo in lacrime di non sposarsi con Adelaide Antici, senza successo. A posteriori la riflessione che ne ricava è desolante.
Io restai inesorabile al pianto che la mia cara Madre versò ai miei piedi e ne sono punito terribilmente. Gli Arsenali delle vendette divine sono inesausti, e tremino quei Figli che ardiscono di provocarle. Il naturale e il Carattere di mia Moglie, e il naturale e il carattere miei sono diversi, quanto sono distanti frà loro il Cielo e la Terra. Chi ha moglie conosce il valore di questa circostanza e chi non l’ha non si curi di sperimentarlo. (LEOPARDI M., 2012, p.100)
Durante la guerra Monaldo rimane coinvolto suo malgrado negli eventi che si susseguono veloci nelle sue terre in quegli anni, sempre narrati con uno sguardo lucido e disincantato.
La «mente quadra» non risparmia feroci ironie nei confronti dei miracoli che vanno diffondendosi all’avvicinarsi dei francesi: madonne che aprono e chiudono gli occhi, campane che suonano da sole, malati che guariscono. La stessa ironia investe l’impreparazione militare dello stato pontificio, conosciuta in prima persona quando il fratello Vito decide di arruolarsi e Monaldo lo accompagna a Roma, pagandogli i cavalli, l’equipaggiamento e una discreta somma per essere accolto nell’esercito.
Mio fratello entrò nel corpo come semplice volontario, ma dopo quattro giorni ebbe un brevetto di secondo tenente, e dopo altri quattro giorni ebbe un altro brevetto di Tenente in primo, e se egli ed io avessimo chiesto, diventava Maresciallo in cinque settimane. Tutto ciò si intende avendo egli 17 anni e 6 mesi e non conoscendo un punto solo di quanto ci vuole per essere uffiziale o soldato.
Quei preparativi bellicosi facevano veramente pietà. Roma era piena di sbarbatelli coperti d’oro e di piume che si pavoneggiavano nelle strade e pensavano alla guerra come pensano all’Apostolato i fanciulli che giuocano all’altarolo. Tutto si vedeva in lontano. Bologna era occupata; lo stato era sguarnito; dieci marce portavano l’inimico alla Capitale, e Roma rideva sonnacchiosa e si teneva sicura da un’invasione francese come noi ci teniamo sicuri da una scorreria dei Persiani. (LEOPARDI M., 2012, p. 76)
Il generale austriaco giunto a Roma per organizzare la difesa si perde tra i banchetti, i conviti e le feste per circa due mesi, probabilmente coltivando la speranza che i francesi fossero fermati prima, magari in Lombardia. Nel frattempo il fronte si attesta sul fiume che divide Imola da Faenza, ma senza convinzione, finché le cose precipitano.
Il giorno 2 di febrajo del 1797 alla matina, i Francesi attaccarono, forti di circa diecimille uomini. I Cannoni del Ponte spararono, e qualche Francese morì. Ben presto però l’inimico si accinse a guadare il Fiume e vistosi dai Papalini che i Francesi non temevano di bagnarsi i piedi, addio, si gridò nel Campo, si salvi chi può, e tutti fuggirono per duecento miglia, né si fermarono sino a Fuligno. Non esagero, ma racconto nudamente quei fatti che accaddero in tempo mio, e dei quali viddi alcuna parte. Un tal Bianchi Maggiore di Artiglieria venne imputato di avere caricato i Cannoni con li Fagiuoli. Ho letto la sua difesa stampata, e sembra scolpato bastantemente, ma il fatto dei Fagiuoli fù vero, e questa Mitraglia figurò nella guerra fra il Papa e la Francia. (LEOPARDI M., 2012, p. 82)
Con deciso spirito pratico e notevole pragmatismo, Monaldo si impegna per evitare qualsiasi resistenza di Recanati ai francesi che avanzano. Invita le truppe papaline a lasciare la città prima possibile per evitare ogni forma di provocazione ed esorta le autorità a placare subito ogni protesta popolare che esporrebbe Recanati a un saccheggio inutile e devastante. Il popolo odia i francesi, incoraggiato dai proclami del governo che Monaldo giudica incauti, perché spingono agli omicidi senza ragione e «per gusto».
Quando alla fine i francesi arrivano a Recanati e per la piccola città passa Napoleone, Monaldo racconta con snobistico compiacimento di non essersi nemmeno alzato per vederlo dalla finestra del palazzo comunale. Deride senza risparmio i tentativi francesi di diffondere i cambiamenti formali della rivoluzione, come il calendario e la coccarda tricolore. I tre alberi della libertà che vengono eretti a Recanati e dintorni, piuttosto modesti, «servirono ordinariamente di comodo a chi aveva bisogno di orinare».
I Dialoghetti sulle materie correnti nell’anno 1831 è l’opera di Monaldo che ebbe più successo. Uscita anonima, conobbe parecchie edizioni e venne tradotta in più lingue. Si tratta di un testo non solo conservatore, ma proprio reazionario, costruito però in modo intelligente, per la scelta di una lingua facile e diretta, per la rinuncia ad affrontare questioni troppo teoriche in nome di una chiarezza che si vuole concreta e pragmatica.
Nel dialogo Viaggio di Pulcinella. Trattenimento scenico recitato al mondo di oggi per far ridere il mondo di domani si narrano le avventure di Pulcinella e del Dottore, alias Monaldo, in Francia, dove si recano per conoscere finalmente i vantaggi della Rivoluzione. È una rassegna dei mali che il popolo francese si trova a patire: le tasse, il declino dei mestieri e del commercio, l’eccessiva libertà di stampa, l’epocale ridimensionamento del potere di trono e altare. Inconcepibile poi la leva obbligatoria e il ruolo della Guardia nazionale, anche se ci si può rassegnare, perché, come dicono, «gli storpiati ottengono la decorazione e il nome dei morti si scrive sulle colonne».
Il loro viaggio si conclude con un ritorno verso il paese dell’assolutismo, più vicino alla sensibilità dei protagonisti. Nel loro cammino verso casa i due incontrano l’Esperienza che consegna loro una lettera per i re della terra e costituisce il sintetico programma politico di Monaldo. Ritornano i luoghi comuni della propaganda reazionaria che però riescono a convivere con qualche osservazione un po’ più originale: per esempio i regnanti vengono invitati a usare la stampa a loro favore e a non lasciarla nelle mani dei liberali, vengono cioè energicamente esortati a fare un uso adeguato della propaganda, di cui non hanno ancora compreso l’importanza. La diffusione della letteratura, pratica perniciosa per le menti fragili, va invece limitata con decisione. In sostanza, con il plauso di Pulcinella, si ripropone l’inossidabile terzetto: festa, farina e forca. Monaldo rimprovera però ai principi regnanti un gravissimo errore nella gestione del potere e questa è la riflessione sicuramente più interessante e originale di tutta la lettera dell’Esperienza:
Voi per zelo mal inteso della sovranità avete levate alli comuni tutti i loro privilegi, tutti i loro diritti, tutte le loro franchigie e libertà, e avete concentrato nel governo ogni filo di potere, ogni moto e ogni spiro di vita. Con questo avete reso gli uomini stranieri nella propria terra, abitatori e non più cittadini delle loro città; e dall’abolizione dello spirito patrio è insorto lo spirito nazionale, il quale ha ingigantito gli orgogli e i progetti dei popoli. Distrutti gli interessi privati di tutti i municipii, avete formato di tutte le volontà una massa sola, la quale deve muoversi tutta in una sola tendenza, ed ora vi trovate insufficienti a reprimere il moto di quella mole terribile e smisurata. […] fate risorgere lo spirito patrio con l’emancipazione delle comuni; e il fantasma dello spirito nazionale non sarà più il demonio imbriacatore di tutte le menti.
Il nazionalismo ai suoi albori viene considerato come forza negativa e astratta, lontana dal concreto vivere civile delle realtà locali, capace di scatenare le energie negative profonde della massa, cosa diversa dal popolo, che invece dovrebbe rimanere radicato nelle sue tradizioni.
Molto critico anche nei confronti del Congresso di Vienna, Monaldo dimostra qui una discreta lungimiranza e scarsissima fede nelle «magnifiche sorti e progressive» del genere umano, anche considerando l’incapacità di trono e di altare nel gestire la già difficile situazione.
Il vasto successo di Monaldo non convince per niente il figlio Giacomo che non apprezza l’opera del padre e che si vede attribuire i dialoghetti suo malgrado. In una lettera al cugino Giuseppe Melchiorri è pieno d’ira perché viene creduto l’autore di «quell’infame, infamissimo, scelleratissimo libro» e per evitare «che quei sozzi fanatici dialoguzzi» passino ancora come opera sua farà una smentita ufficiale sui giornali di Toscana e di Roma.
Altra voce critica è quella di Giosuè Carducci che scrive in occasione del centenario leopardiano del 1898. Ai dialoghi di Monaldo viene riconosciuta «una prosa discreta e una divertente ironia lucianesca, soprattutto quando si esercita sulle ipocrisie e le falsità dei sovrani restaurati e restauratori. Carducci però rileva anche la grossolanità di un umorismo da commedia dell’arte, senza vera profondità nell’argomentazione» (VALENTINI 2012, p. 16).
In tempi più recenti i «sozzi, fanatici dialoguzzi» sono stati riletti e interpretati da Alberto Moravia come l’emblema della peggiore italianità e in particolare proprio la coppia Monaldo/Pulcinella ne rappresenta per lui un concentrato evidente.
Non per nulla Pulcinella è l’eroe preferito di Monaldo; maschera napoletana in cui si riassumono tutti i vizi e tutte le deprimenti passività dell’antico popolo italiano.
Pulcinella e Monaldo: il primo con il berrettone bianco, la faccia infarinata e mascherata, con il colletto ballonzolante, con i flosci pantaloni e la blusa di tela; il secondo come ce lo descrive Antonio Ranieri con un «cappellone a larghissime falde, calzoni corti a ginocchio con sopra grosse fibbie di metallo bianco… sotto il braccio sinistro una maniera di grosso breviario». Pulcinella e Monaldo: il primo con il suo motto immortale «O Francia o Spagna purché se magna», il secondo con il suo Unicuiquesuum; il primo con la sua allegria spregevole, il secondo con la sua austerità alquanto tartufesca; il primo che dovrebbe essere il buon popolo spensierato e apolitico, servile e lazzarone, il secondo che dovrebbe incarnare la nostra classe dirigente da contrapporre a quelle ben più formidabili dei grandi paesi d’oltralpe e d’oltreoceano: questo simbolo bifronte del nostro paese nei suoi momenti più bassi non è ancora anacronistico e passerà ancora molto tempo prima che lo sia. (MORAVIA 1964, pp. 107-108)
Si dice che Pulcinella compaia nei momenti di crisi, nel passaggio difficile fra un tempo e un altro, periodicamente, dall’epoca di Monaldo fino alle riflessioni di Croce e poi per tutto il Novecento in tutta Europa, dove ha prodotto numerose diverse filiazioni (DE MATTEIS 2016, pp.112-116).
Le rappresentazioni storiche di Pulcinella più si allontanano cronologicamente dal personaggio-maschera della Commedia dell’arte, inserito in un contesto ben determinato, più si avvicinano al mondo del mito e della favola, diventando figure flessibili e funzionali per contenuti diversi.
La maschera di Pulcinella sembra essere leggibile collettivamente anche in contesti non teatrali, permettendo un interscambio culturale fra livelli sociali differenti ed esigenze apparentemente incompatibili.
Monaldo, il conte di provincia convinto reazionario, si porta dietro Pulcinella nel suo viaggio immaginario in Francia, vestendo i panni del Dottore e condividendo con lui i discorsi e i ragionamenti, ma soprattutto il sentire, la percezione delle cose.
Il Dottore. Ma come si può vivere in un paese dove non ci è la Costituzione?
Pulcinella. Sicuro; senza la costipazione è un viver da cani. Ditemi un poco; prima non si trovava la costipazione?
Il Dottore. In qualche luogo ce ne era qualche segno, ma…capite bene…
Pulcinella. Ho capito. Piccole cose; costipazioncella da niente. Ci vuole una costipazione gagliarda per vivere in buona salute. Ditemi un’altra cosa. A Napoli non si trova per niente la costipazione?
Il Dottore. Oibò. Il re di Napoli è un re affatto assoluto. […]
Il Dottore. […] il re non ha da fare le leggi.
Pulcinella. E perché non le ha da fare?
Il Dottore. Perché non è il sovrano.
Pulcinella. Oh diavolo! E chi è il sovrano se non è sovrano il re?
Il Dottore. Il popolo.
Pulcinella. Questa è la più bella di tutte. E il popolo non lo sapeva?
Il Dottore. Si viveva nell’ignoranza. […]
Pulcinella. […] Se il popolo è quello che comanda, a chi toccherà di ubbidire?
Il Dottore. A tutti.
Pulcinella. Oh malora! Tutti hanno da comandare, e tutti hanno da ubbidire? E se avrò da ubbidire, cosa servirà che io sia sovrano?
Il Dottore. Sarai sovrano come popolo, e ubbidirai come Pulcinella.
Pulcinella. Quando è così, ho paura che comanderò poco.
Il Dottore. E perché?
Pulcinella. Perché d’esser popolo non me ne accorgo mai, e d’esser Pulcinella me ne accorgo sempre.
(LEOPARDI M. 2016, pp. 22-24)
In questo breve dialogo la comicità nasce prima di tutto dal linguaggio, dal gioco di parole e dall’equivoco, una tradizione diffusa tipica di Pulcinella che trasforma campioni in lampioni, hofame in infame,potente in fetente e così via. Il gioco di parole non è sempre gratuito, come in questo caso. Costipazione è una malattia che blocca il corpo e ne impedisce le funzioni primarie, e lo stesso si vuol dire della costituzione, elemento nuovo ed estraneo al benessere della collettività. Secondo la tradizione conservatrice fin dall’apologo di Menenio Agrippa, la società è descritta attraverso la metafora del corpo, per il quale il buon funzionamento è garantito dalle relazioni tra organi diversi tra loro, interdipendenti, ma gerarchicamente divisi. Come tutte le metafore tratte dal mondo naturale configura una situazione non modificabile, perché l’ordine della natura non si presta facilmente ai cambiamenti rapidi. Il corpo sociale è quindi malato di costituzione, di novità.
Pulcinella rappresenta il senso comune e nell’ottica di Monaldo questo coincide con quelle verità naturali che ogni uomo sente giuste e vere, anche se non sa spiegarle in modo formale. Pulcinella fa domande ingenue e concrete nello stesso tempo, chiede ragione dell’ovvio, pretende spiegazioni sul significato delle singole parole, un procedimento quasi socratico. Immune dal fascino della retorica, come del resto Monaldo, riconduce sempre ogni astratto ragionamento alla materialità dell’esistenza, al peso concreto del vivere. La sovranità popolare è ridotta in poche battute a uno slogan senza sostanza.
La maschera di Pulcinella qui è un emblema evocatore, un prototipo senza identità individuale, perché rappresenta quel popolo per certi versi enigmatico che sfuggiva spesso alla comprensione dei liberali e dei riformisti e che veniva interpretato come figlio della rivoluzione o della provvidenza divina a seconda delle tesi che si volevano dimostrare.
Pulcinella, come in quegli stessi anni Belli a Roma, racconta invece di una storia immobile, di un destino immodificabile, di cui partecipano tutti, i poveri e i potenti del mondo. L’umorismo, l’ironia e il sarcasmo servono a smascherare le illusioni, l’ottimismo senza fondamento, le astrazioni vuote.
Monaldo Leopardi, convinto negatore di ogni possibilità di cambiamento politico e sociale, perché stravolgerebbe le leggi di natura, in conclusione cerca però di definire una qualche forma di attivo disincanto, accettando consapevolmente, ma senza conflitto, l’impossibilità di una «perfezione immaginaria».
L’aspetto dell’ingiustizia mi sdegna, il vedermi trattato come una pecora mi irrita, e mi attacco, e mi batto non contro l’uomo o contro l’autorità, ma contro l’errore e l’abuso. Insomma però chi ha ragione? I superiori sono uomini, e come tali debbono essere difettosi, come devono essere difettose tutte le istituzioni umane poco più, poco meno. Pretendere la riforma del genere umano, e dell’ordine sociale è follia, e l’uomo saggio deve ricevere il mondo come lo ha costituito la Provvidenza, godendone i beni, e tollerandone i mali senza presumere di ridurlo ad una perfezione immaginaria. (LEOPARDI M. 2012 p. 171)
Ignoto napoletano prima metà secolo XIX, Pulcinella e i Borboni di Napoli, Napoli, collezione Giuliana Gargiulo
In primo piano a destra è Pulcinella con coppolone e maschera nera, insignito degli ordini di San Gennaro e del Toson d’oro, in atto di accarezzare il naso adunco e prominente di Ferdinando I.
Al centro è Maria Carolina d’Austria, a destra Carlo III, verso cui si volge un cane da caccia, a ricordare l’antica passione del vecchio sovrano. In secondo piano, a sinistra, è Francesco I, a destra Ferdinando II; sullo sfondo il Vesuvio fumante. Il dipinto testimonia in modo chiaro il rapporto affettivo che unisce la famiglia dei Borbone alla maschera. Il legame con Ferdinando I è testimoniato da una ricca aneddottica, ma non fu meno amato da Francesco I, Ferdinando II e Leopoldo di Borbone.
Se Pulcinella in questo dipinto è il popolo, «il re è al suo servizio, e gli amori regali sono la gloria del popolo». La morte di Pulcinella coinciderebbe con la fine del Regno delle due Sicilie, con la fine di un mondo e non è difficile cogliere questa sensazione in parecchie raffigurazioni ottocentesche (DE MAIO 1990, pp. 6-8). La maschera godeva di grande libertà di espressione in un regime totalitaristico e repressivo come quello borbonico, mentre paradossalmente nel periodo francese il teatro, e quindi Pulcinella, furono oppressi da una rigida censura. (CAPOBIANCO 1990, p. 204)
Pulcinella, incisione di Giovanni Fusaro dal disegno di Teodoro Duclère, in Francesco de Bourcard, Usi e costumi di Napoli e contorni, Napoli, 1853-60
«Linguaggio precipuo di Pulcinella è il gesto, soprattutto nell’interrogativo sofistico ‘e pecché?»
(DE MAIO 1990, tav. XIV).
LEOPARDI Monaldo (2012), Autobiografia, a cura di Anna Leopardi, Ancona, Il lavoro editoriale
LEOPARDI Monaldo (2016), Monaldo e Pulcinella. Dialoghi sui rischi della libertà, a cura di Roberto Marchesini, Verona, Fede&Cultura
CAPOBIANCO Fernanda (1990), Scheda di Ignoto napoletano prima metà secolo XIX, Pulcinella e i Borboni di Napoli, Napoli, collezione Giuliana Gargiulo, in Pulcinella maschera del mondo, Electa Napoli, p. 204
DE MAIO Romeo (1989), Pulcinella. Il filosofo che fu chiamato pazzo,Sansoni, Firenze
DE MATTEIS Stefano (2016), Il ritorno di Pulcinella, da Agamben a Marcello, in “Lo straniero”, n. 188, pp.112-116
FOSCHI Franco (2012), Postfazione a Monaldo Leopardi, Autobiografia, a cura di Anna Leopardi, Il lavoro editoriale, Ancona
MORAVIA Alberto (1964), L’uomo come fine e altri saggi, Bompiani, Milano
VALENTINI Alvaro (2012), Prefazione a Monaldo Leopardi, Autobiografia, a cura di Anna Leopardi, Il lavoro editoriale, Ancona