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il sublime rovesciato: comico umorismo e affini

Copertina Numero 14

 aprile 2017

Scuola/Non scuola

Barbara Ricci

«La retorica ci rode le ossa» Narrare la scuola fra Otto e Novecento

Nel 1870 Placido Cerri, giovane piemontese laureato in lettere, dopo aver fatto a sue spese un anno di studio a Lipsia per perfezionarsi in filologia classica, viene destinato dal ministero della pubblica istruzione al ginnasio di Bivona, nella provincia di Agrigento, come insegnante di greco (sulla scuola di Bivona e sul suo preside cfr. RAINCICH 1988). Alessandro D’Ancona – che lo conosce in seguito a Pisa – lo incarica di raccontare la sua prima esperienza di lavoro che verrà pubblicata nel 1873 sul giornale “La Nazione” (sulla figura e l’opera di D’Ancona STRAPPINI 1986).

Nella breve narrazione di Placido Cerri, Tribolazioni di un insegnante di ginnasio, c’è un infinito senso di stupore, di distanza e di straniamento. Riceve la nomina ad anno già cominciato e giunto nella città più vicina alla sua sede, scopre che per raggiungerla può usare solo le mule come mezzo di trasporto, perché non ci sono strade. Una volta arrivato al paese tutti si congratulano per il suo coraggio, visto che ha attraversato quei luoghi senza scorta armata. Con il passare dei giorni il suo disgusto aumenta: in paese le case sono abituri bassi, a un solo piano, dove vivono famiglie numerose insieme ai loro animali, si mangiano solo maccheroni al pomodoro e le olive vengono raccolte in chiesa sotto il pavimento, spostando una lapide, quando non ci sono da conservare i cadaveri.

I rapporti con le famiglie sono difficili, i colleghi hanno ricevuto l’incarico di docente pur facendo tutt’altro mestiere e la scuola è un luogo povero, scomodo e faticoso. L’aula è molto piccola, ci stanno a stento i banchi e la cattedra si trova vicino alla porta. Quando piove il vento spinge l’acqua all’interno e il professore ha sempre la spalla sinistra tutta bagnata. La porta va tenuta aperta perché l’unica finestra non ha il vetro, ma un’imposta di legno nella quale ci sono due fori coperti di tela sudicia e così la luce non è sufficiente per leggere. La scuola inoltre riceve quotidianamente visite inusuali (CERRI 1988, pp.86-87).

Fin dai primi giorni la scuola ebbe visitatori strani. Erano questi talvolta cani, ma per lo più maiali, che entravano, facevano un giro e poi se ne uscivano. Notai che per questo fatto la scolaresca non disturbavasi quanto era da aspettarsi, e ne conchiusi che doveva ripetersi spesso. Tuttavia mi parve cosa da doversi impedire e ne parlai con il direttore. […] Qui il direttore stette di nuovo alquanto pensieroso; poi soggiunse: «Il disturbo che le danno queste bestie (voleva parlar dei maiali) è cosa di poco rilievo, perché non trovando da mangiare nella scuola, escono subito. Se qualche volta si fermassero, li faccia uscire».

«Non faccio il mandriano, io!»

«È per non chiudere loro questo cortile. Povere bestie! I padroni le cacciano fuori al mattino senza più curarsene ed esse sono obbligate a mangiare quello che trovano. Poi vengono qui per rinfrescarsi con un po’ d’erba (in quel cortile cresceva molta erba), ed Ella perché vorrebbe chiuderle fuori, lasciando poi andare sciupata tutta questa roba?»

«Quand’è così, e se fu sempre così, continui pure».

Per tal modo vinse la pietà verso le bestie ed i maiali furono autorizzati a frequentare la scuola, liberamente e senz’obbligo di tassa.

Placido Cerri ritornato al suo paese natio, morirà di tisi nel 1874, solo qualche anno dopo la sua esperienza scolastica. All’acqua che gli bagnava costantemente la spalla sinistra nei giorni di pioggia egli attribuisce almeno in parte la colpa della sua malattia.

Colpisce in questa breve narrazione la mancanza assoluta di attenzione e di curiosità umana per il mondo circostante, attitudini fondamentali per chi aspira a essere un uomo di cultura e non un semplice erudito. Non c’è il ricordo di un solo alunno e i colleghi, gli abitanti del villaggio, le persone che incontra sono tratteggiate sinteticamente come i tipi di una commedia triste. Registra solo fetore, disgusto, ignoranza, modi rozzi, incomprensibili e alieni. Alieni come vengono descritti anche oggi gli studenti in certe pubblicazioni di dubbia utilità conoscitiva.

D’Ancona nella sua lunga introduzione in modo indiretto fornisce delle attenuanti: la disillusione dopo la laurea, quando la possibilità di fare ricerca si dimostra difficile; la lontananza da casa, la cronica mancanza di denaro in una realtà comunque costosa (bisogna mangiare, trovare un alloggio, vivere decorosamente). Soprattutto però quello che manca in gran parte del territorio nazionale sono i librai, le biblioteche, quelle cittadine, ma anche quelle scolastiche, per creare un ambiente scientificamente colto, in cui svolgere il proprio lavoro. Questo aiuterebbe anche chi vede nella carriera universitaria l’unico fine supremo, meta che sembra fatta apposta per far accumulare frustrazioni e quindi inefficacia nell’insegnamento.

Quindi conclude D’Ancona:

Per molto tempo, e con ragione, si è data la colpa dell’ignoranza in che si trovano popolazioni del resto intelligentissime, alla incuria ed alla perversità dei passati governi; ma adesso, dopo quasi tre lustri di libera vita, è colpa nostra, e gravissima colpa, se le cose non cangiano, se già, anzi, non sono interamente cangiate da quelle che erano. (CERRI 1988, p.45)

Nonostante l’assunzione di responsabilità e il tentativo di proporre ragioni e rimedi, l’introduzione che D’Ancona fa al racconto di Cerri riecheggia temi e pratiche recenti. Non resiste al gusto per la discutibile derisione dell’ignoranza altrui, stigmatizzata sulla base di uno ‘stupidario’ accurato e per certi aspetti divertente. Dopo essere stato per molti anni un commissario per la licenza liceale e dopo aver letto di conseguenza un duemila componimenti all’anno, dichiara di aver preso una serie di appunti utili a formare un concetto sullo stato dell’insegnamento, sul grado dell’istruzione dei licenziandi e sul valore degli insegnanti. Ha infatti raccolto una serie di spropositi gravi per forma e sostanza, di cui dà un lungo saggio, fra le migliaia e migliaia di esempi, avvertendo che parecchi degli estensori sono stati comunque promossi. Ne riportiamo qui solamente alcuni:

Italia! Impero del sole, io ti saluto. Conoscete voi quella terra dove tutti gli alberi fioriscono?

L’eroe tebano Epaminonda, Galileo, Colombo furono martiri dell’Italia per farne una. Vediamo questi grandi sagrificarsi per l’unità dell’Italia, e l’Eopardi disperato abbruciare, anzi lanciarsi nel fuoco dell’Eternità.

Non bisogna starsi con le mani in panciolle.

La patria desidera che la gioventù fosse sempre robusta, onde sostenere la madre sua da tutte le intemperie.

L’Italia vanta molte calamità e sventure, per esempio la peste di Milano, il terremoto di Lisbona, ecc.

Galileo fu acciecato perché le sue idee non erano conformi alla religione.

Le teorie di Galileo furono più tardi sostenute e dimostrate dal grande Colombo; e già che dico di Colombo, dico che quest’ammiraglio si rese molto utile alla Geografia aggiungendovi una nuova terra e dando un limite al mare.

L’antitesi è uno scialacquamento inutile ed in arte una furfanteria, un brutto espediente per uccidere la ragione.

Dopo il seicento viene il secolo decimosettimo.

Annegata la lirica, strozzato il dramma, seppellita l’epica si ebbe il melodramma aulico.

Galileo diede origine a molte scuole e esercitò un’influenza sui suoi posteriori.

I gesuiti ebbero la scaltrezza di allettare i giovani sull’amene vette dei monti.

Virgilio fin da fanciullo traduceva i classici greci e latini.

Siccome gli italiani si esprimono in italiano, per capire le loro idee e i loro concetti, bisogna capire il significato delle loro parole.

La poesia sarà vera perché sentita, perché escremento di un sentimento universale.

Il greco fu introdotto in Italia sotto Ponzio Pilato.

Dante morì in esilio a Sant’Elena.

(CERRI 1988, pp.55-62)

Dopo la lunghissima serie di strafalcioni, D’Ancona sottolinea che lo stupiscono non solo gli spropositi di ortografia, lingua, sintassi, ma anche gli oltraggi al senso comune, specialmente se considera che si tratta di persone che concorrevano per la licenza liceale, quindi venivano da otto anni di studio fra ginnasio e liceo.

«Tutto quello che non so, l’ho imparato a scuola» verrebbe da pensare, citando Ennio Flaiano.

Si intravede però sullo sfondo la trasmissione di un sapere retorico, infarcito di frasi fatte e di formule vuote, quelle che servivano alla scuola per l’autocelebrazione dell’Italia unita, ma destinate inevitabilmente a produrre sviste ed errori. Alcuni poi di una qualche profetica bellezza, come quello che afferma: «Occorre adesso educare la classe più ragguardevole e perfezionarla nei suoi difetti».

Grande assente nella preparazione complessiva dei giovani italiani alla fine dell’Ottocento sembra essere la diacronia: in sostanza questi studenti non sanno collocare correttamente nel tempo personaggi ed eventi, mescolando senza criterio passato prossimo e passato remoto. Di solito si pensa invece che tale ignoranza sia appannaggio di epoche più recenti, devastate dalla tecnologia imperante dentro società liquide e smemorate. Forse sarebbe più sensato pensare che l’acquisizione di competenze storiche non sia poi questione così banale e che meriterebbe la stessa indulgenza che si riserva all’ignoranza in campo scientifico, spesso fonte di simpatia più che di riprovazione.

Qualche anno più tardi nel 1907 quando D’Ancona riprende in mano la sua pubblicazione, accende un barlume di speranza, dicendo di aver fiducia che la situazione sia migliorata. Comunque però aggiunge:

Prevale sventuratamente una forma di scrivere fiacca, sciatta e non senza errori grammaticali. Quello che si chiama comunemente livello degli studj medi si è abbassato e fermato a una mediocrità non veramente aurea. Sarebbe fuori di luogo cercarne e qui esporne le cause; che non dipendono tanto da poco valore e da scarso zelo degli insegnanti – se ne ha nell’insegnamento medio degli ottimi – quanto dal poco pregio in che, in generale, al dì d’oggi si tengono gli studj della nostra lingua, e alle incerte dottrine intorno allo stile. (CERRI 1988, p.63)

L’abbassamento degli studi medi, la mediocrità, le incerte dottrine intorno allo stile: una litania riconoscibile e molto diffusa anche ai nostri giorni. Il discorso sulla scuola si avvia così a diventare un topos letterario con tutto il suo corredo di ripetizioni, di luoghi comuni, di zeppe. Secondo i manuali di retorica, le zeppe sono quelle parole o frasi che si inseriscono senza una vera giustificazione logica o estetica, ma solo per completare un verso zoppicante in poesia o per arrotondare un periodo incompleto in prosa. La zeppa era in origine il pezzo di legno che serviva a rincalzare un mobile, a tappare un buco, a sostituire una qualche parte mancante, a colmare un vuoto. Davanti alla difficoltà che comporta parlare di scuola con competenza e con cognizione di causa, di fronte al vuoto interpretativo e alla mancanza di idee e di prospettive, si preferisce la retorica delle zeppe.

Una zeppa irrinunciabile è costituita dalla nostalgia del buon tempo antico, di cui si favoleggia spessissimo parlando di scuola. È un tempo che si immagina limpido e sicuro, dominio incontrastato del rigore e della cultura, dell’educazione e dell’ordine. Anche solo una rapida elencazione delle colpe che si è vista addossare la scuola negli anni ne rende assai difficile la sua collocazione cronologica concreta.

Per citare solo alcuni esempi: alla fine degli anni venti John Dewey venne accusato di essere il responsabile, con il suo magistero, del crollo di Wall Street; i maestri elementari sarebbero stati responsabili del clima nel quale maturò l’attentato di Monza e l’uccisione di Umberto I per mano dell’anarchico Bresci. Secondo Adolfo Omodeo (sulla sua complessa figura IMBRUGLIA 2013), che fu anche ministro dell’istruzione in anni difficili, la sconfitta di Caporetto sarebbe colpa della scuola che avrebbe formato una generazione di soldati imbelli e senza ideali: si sarebbe dovuto licenziare il 70% degli insegnanti per questo (DE MICHELE 2011). Non era il solo: nel 1919 Ernesto Codignola, pedagogista peraltro interessante (AMBROSOLI 1982), aveva denunciato la cronica insufficienza della scuola italiana che «come le altre nostre istituzioni, [aveva] condotto piuttosto a Caporetto che a Vittorio Veneto» (La Corrente,14 maggio 1919, p. 2).

Del resto già nel 1914 Giovanni Papini aveva provocatoriamente proposto Chiudiamo le scuole! perché inutili, se non dannose:

Non venite fuori colla grossa artiglieria della retorica progressista: le ragioni della civiltà, l’educazione dello spirito, l’avanzamento del sapere… Noi sappiamo con assoluta certezza che la civiltà non è venuta fuor dalle scuole e che le scuole intristiscono gli animi invece di sollevarli e che le scoperte decisive della scienza non son nate dall’insegnamento pubblico ma dalla ricerca solitaria disinteressata e magari pazzesca di uomini che spesso non erano stati a scuola o non v’insegnavano.
Sappiamo ugualmente e con la stessa certezza che la scuola, essendo per sua necessità formale e tradizionalista, ha contribuito spessissimo a pietrificare il sapere e a ritardare con testardi ostruzionismi le più urgenti rivoluzioni e riforme intellettuali.
Soltanto per caso e per semplice coincidenza – raccoglie tanta di quella gente! – la scuola può essere il laboratorio di nuove verità.

Pasquale Villari, lo storico forse più noto dell’Italia liberale, in un famoso articolo pubblicato sulla rivista “Il Politecnico” nel settembre 1866 e intitolato significativamente Di chi è la colpa? analizza le ragioni della sconfitta subita dall’esercito italiano a Custoza e a Lissa. Invita gli italiani a guardare non solo le colpe dei politici, ma quelle di tutto un popolo (PATRIARCA 2010). Sono colpevoli infatti:

[…] le moltitudini analfabete, i burocrati macchina, i professori ignoranti, i politici bambini, i diplomatici impossibili, i generali incapaci, l’operaio inesperto, il contadino patriarcale, e la retorica che ci rode le ossa.

Come si vede non potevano mancare fra i colpevoli i professori ignoranti, ma il dato interessante è attribuire alla retorica una certa parte della colpa. Secondo Villari infatti c’era (e c’è) bisogno di uomini che, al contrario della tradizione dei retori, affrontino la realtà osservandola in maniera diretta ed empirica, senza automatismi e senza mistificazioni, senza frasi fatte e senza luoghi comuni, assumendosene la responsabilità civile. Prima di ogni altra cosa il discorso sulla scuola doveva (e deve) partire da qui.

BIBLIOGRAFIA

AMBROSOLI, Luigi (1982), Ernesto Codignola, in Dizionario biografico degli italiani, vol.26, Treccani, http://www.treccani.it/enciclopedia/ernesto-codignola_(Dizionario-Biografico)/

CERRI, Placido (1988), Tribolazioni di un insegnante di ginnasio. Prefazione di Alessandro D’Ancona, con una nota di Marino Raincich, Passigli, Firenze

DE MICHELE, Girolamo (2011), Processo alla scuola, in “Gli asini”, 5-6(2011), p.21

PAPINI GIOVANNI, Chiudiamo le scuole!, in “Fillide”, 1(2010), http://www.fillide.it/tutti-gli-articoli/41-giovanni-papini-chiudiamo-le-scuole

PATRIARCA, Silvana (2010), Italianità. La costruzione del carattere nazionale, Laterza, Bari

IMBRUGLIA, Girolamo (2013), Adolfo Omodeo, in Dizionario biografico degli italiani, vol.79, Treccani, http://www.treccani.it/enciclopedia/adolfo-omodeo_(Dizionario-Biografico)/

RAINCICH Marino (1988), Un piemontese in Sicilia, in Cerri 1988, Passigli, Firenze, 1988, pp.5-34

STRAPPINI, Lucia (1986), Alessandro D’Ancona, in Dizionario biografico degli italiani, volume 32, Treccani, http://www.treccani.it/enciclopedia/alessandro-d-ancona_(Dizionario-Biografico)/