È morta pochi giorni or sono. Si chiamava Adriana Bisi. Era una donna. Pochi di coloro che vedevano i suoi disegni; che seguivano la sua battaglia muta a colpi di tosse e di matita; che sentivano la risata implacabile delle sue caricature morire nel fremito appassionato d’un singhiozzo, immaginavano che Adrì fosse una donna. La sua arte aveva veramente il graffio del maschio e la nervosità del combattente. Ella lo sapeva e ne rideva colla larga bocca un poco sfiorita che le donava non so quale bellezza. Ci era capitata qui una sera di maggio, quattro anni or sono. Nessuno la conosceva. Sedette tranquillamente fra noi, posò sul tavolo un rotolo di cartoni e ad uno ad uno ci fece passare sotto agli occhi i “mostri” terribili […]. Da quella prima sera Adrì fu la compagna delle nostre battaglie. […] Adrì era un bello e insolente maschio. Voleva buttare in aria tradizioni e sottane. Correre voleva. Sgualcire quanto le capitava sotto mano. Tirare sassate come un monello e disegnare sui quaderni le sue prime ed atroci caricature […].
Me lo diceva lei, un giorno, mentre mi faceva vedere dei quadri, e sorvegliava con delle occhiate inquiete non so quante pentole che bollivano sul fornello di cucina. « […] L’intelligenza non ha sesso. Io sono, io voglio – capisce che voglio? – essere un’artista. Poi sarò, naturalmente, donna. […] » E correva alle pentole, mettendo il viso sopra il fumo della pappa dei figlioli […]. È morta. Sconosciuta ai più. Sconosciuta anche a se stessa. Rimangono i suoi piccini nella casa vuota – le creature della carne – e rimangono i suoi quadri – le creature dell’anima – malati di troppa luce e di troppa febbre. Povera Adrì. Noi le volevamo bene.
Così si esprime Arros (ARROS 1918), ovvero Arturo Rossato, del gruppo di illustratori del “Popolo d’Italia”, la rivista con cui Adriana Bisi Fabbri collabora con le sue caricature e le sue vignette per tutto il tempo della prima guerra mondiale. Per lavorare deve usare uno pseudonimo maschile e sceglie Adrì. Come è abitudine diffusa all’epoca, nel riconoscere i tratti dominanti del carattere di Bisi Fabbri, che sono sicuramente la forza, la passione e l’ironia, Arros non può risparmiarsi la solita eterna domanda: quanto di questa forza è propria di una donna? Quanto la rende un uomo? E non è il solo a farsela:
La Bisi Fabbri, che ultimamente raccolse bella messe di lodi all’esposizione umoristica di Rivoli non è una pittrice. Caso straordinario: è un pittore. Pittore maschio, dal sangue sicuro, dall’espressione intensa, dalla pennellata precisa e definitiva. Guardando i lavori che ella espose a San Pellegrino non si pensa davvero che essi siano nati da pensiero e da mani femminili. (SCARPELLI 1911)
Adriana Fabbri è nata a Ferrara nel 1881. Il padre è un ricco proprietario terriero che perde tutto il suo patrimonio al gioco. Diventa ispettore del cimitero di Ferrara, ma a causa di gravi irregolarità amministrative gli viene revocato l’incarico e per la famiglia cominciano le difficoltà economiche. Adriana è costretta a seguire corsi di taglio e cucito e impara a fare la sarta. Non perdonerà mai suo padre: quando lui partirà per raggiungere il Brasile nel 1905 scrive a Giannetto Bisi suo futuro marito: «Se l’acqua se lo inghiottisse, sarebbe tanto di guadagnato… ma poi mi dispiacerebbe per gli altri passeggeri… meglio non pensarci e addio» (SANSONE 2007, p.16). Lascia presto Ferrara e si reca a Padova in cerca di lavoro. È ospite di Amelia e Cecilia Boccioni, rispettivamente sorella e madre di Umberto. Sono parenti: Olga Mantovani, la madre di Adriana, è cugina di primo grado di Cecilia Boccioni. A Padova Adriana inizia a disegnare assiduamente nelle ore libere dal lavoro di sarta. Nell’estate del 1904 vive un’affettuosa e breve relazione con Umberto Boccioni, che le fa il ritratto (fig.1).
Nell’autunno del 1905 si trasferisce a Milano e comincia a inserirsi nel mondo dell’arte. Autodidatta e senza aver fatto un corso regolare di studi non può entrare all’Accademia, ma riesce a comprendere il complesso mondo artistico italiano con la costante pratica del disegno, la lettura di libri d’arte, le visite ai musei e i contatti con altri pittori. Ha una grande consapevolezza di sé e della necessità di lavorare senza sosta, mentre cerca di definire i suoi maestri. Scrive al futuro marito nel novembre del 1905: «Segantini, Rodin … quella è roba!!… io lavorerò da morire io non voglio essere una donna… capisci e quando queste catene si infrangeranno che mi legano… allora io volerò in alto, in alto» (SANSONE 2007, p.18).
Le condizioni del suo lavoro sono in quegli anni proibitive, come appare chiaramente in un’altra lettera al futuro marito sempre nel novembre del 1905: «… poiché nel mio corridoio non ho luce ma io piuttosto mi stringo tutta contro il muro lavoro con pochissima luce pur di vedere sulla mia tela l’apparire di essa… sono sempre io benché ho ammirato van Dick ecc.ecc. Ma io adoro la luce» (SANSONE 2007, p.18).
Nel 1907 Adriana sposa il giornalista Giannetto Bisi che aveva conosciuto a Ferrara. È rimasto il fitto epistolario a testimoniare le numerose lettere che si scrissero prima e dopo il matrimonio, nella volontà reciproca di sostenersi e di darsi coraggio contro il mondo. Non mancano le incomprensioni e le difficoltà, anche economiche, perché la carriera di entrambi non era facile, lui giornalista e lei pittrice, specie in una società come quella italiana all’inizio del Novecento. Dopo la nascita dei due figli, Marco e Riccardo, le complessità della vita si erano infittite e i malintesi da superare si erano moltiplicati. Così le scrive il marito nel febbraio del 1916 da Milano a Cremona, dove lei si era dovuta trattenere per lavoro (SANSONE 2007, pp. 38-39):
L’assenza prevista di una settimana diventa di due… Come potrei essere contento? […]. Ma non importa: quello che fai tu, è ben fatto […]. Preme che tu tenga bene in mente questo: che tu sei una creatura combinata in modo da non poter trovare felicità né nel solo successo artistico né nella sola tranquillità familiare. […] A me non fa nessuna paura il pensiero di aver continuato ormai per dieci anni a battere sul muro per aprirti una strada e di dover poi constatare che, sfondato il muro, tu passi di là e io resto di qua. […] Non ti biasimo, ti lodo anzi, e ti sprono. […] Ma dico a te: guardati, guardati e sorvegliati!! Perché se vuoi andare di là dal muro sola, dovrai andarvi veramente sola. E qui smetto, perché le cose crudeli che ti vo dicendo stanno per diventare crudelissime.
La fatica di una situazione difficile non indebolisce la forza di Adriana che consiste anche nella capacità di lavorare in modo instancabile giorno dopo giorno, per migliorarsi e per ottenere un riconoscimento pubblico. Attratta dal futurismo, partecipa, su consiglio di Umberto Boccioni, all’Esposizione d’Arte Libera futurista di Milano (1911) e alle due edizioni dell’Esposizione Internazionale Femminile di Torino, dove ottiene nel 1913 una medaglia d’oro. È inoltre presente alle mostre veneziane di Ca’ Pesaro nel 1911, nel 1912 e nel 1913. Dopo l’adesione al gruppo di Nuove Tendenze, ala moderata del futurismo, espone più volte alla Famiglia Artistica ed alla Permanente. Nel 1914 tiene una personale a Mantova, ricca di cinquanta opere fra pastelli, disegni, oli e acquerelli. Soprattutto dopo il 1915 il suo repertorio si arricchisce di un’abbondante produzione di caricature, che vengono pubblicate dalle testate dell’epoca come “Il Popolo d’Italia”, “La freddura” o “La Baionetta”. In questo settore ottiene significativi riconoscimenti (DE GUZZIS 1993).
Già fragile per il fisico minato dalla tubercolosi, viene colpita dall’epidemia di spagnola e muore il 29 maggio 1918 a Travedona in provincia di Varese, dove si era trasferita per tentare di riprendersi e di ritrovare le forze. È rimasto un manoscritto del marito che ricorda il viaggio compiuto con la moglie verso la campagna, nella speranza di farle ritrovare la salute (SANSONE 2007, p. 41):
La strada si prolungava, si accidentava; treni senza coincidenze, tram senza corrente, vetture senza vetturali, barche malfide – e su tutto, quel vento, quel gran vento che galoppava, in colonne di polvere, a tradursi in un corruccio scuro del lago; e anche quel brivido di freddo con cui tornava febbraio nel cuore del maggio, ti ricordi. La meta si allontanava, si vaporizzava, quasi mitica. Dov’era la terra promessa? Si abbozzava, terribile, il dubbio di un improvviso ritorno, di una caduta repentina, a ginocchioni, sul limitare della speranza. Ma no: tu hai vinto. Hai trovato in te una forza nuova: ti ha fatta rinascere la certezza che lassù, tra la montagnola e il lago, nell’oasi fiorita di sole, la salvezza ti aspettava: seduta sull’erba, con due margherite in mano e un papavero infilato nei capelli e ricadente lungo la guancia. Non erano più candide delle tue mani, né più gracili quelle margherite. Né era più rosso e più carnale della tua bocca quel fiore di papavero.
«Sconosciuta a se stessa»: la pratica dell’autoritratto.
Molto numerosi sono gli autoritratti di Adriana Bisi Fabbri e tutti molto diversi fra loro. Determinati dall’eclettismo artistico che la caratterizza e che le fa provare esperienze sempre nuove, testimoniano un continuo tentativo di autocoscienza, di riflessione e di consapevolezza. Nel Bacio allo specchio, un olio del 1911, una figura femminile davanti alla toeletta, semisvestita, sembra omaggiare questo strumento infido e difficile come fosse quasi un amante. E nello stesso tempo guarda obliquamente verso lo spettatore, con l’occhio allungato, seduttivo, malizioso e allegro (fig. 2).
Ma purtroppo (o per fortuna) Je est un autre e l’io che si vuole circoscrivere sfugge, si presenta polimorfo, si sottrae alle definizioni. L’uso delle maschere e del travestimento segna la molteplicità dei possibili, il gioco che consente di transitare da un’identità a un’altra. Consapevole della sua forza, Bisi Fabbri propone un autoritratto al maschile, che conferma le parole di Arros: è Adrì, un maschio bello e insolente, che vuole correre e saltare. Elegante, in nero, ha uno sguardo ironico e diretto. La mano sinistra è in una posa inconsueta, fuori e dentro la tasca, come se non sapesse decidersi, un elemento lievemente dissonante che evita ogni rigidità della postura (fig. 3).
In questo catalogo di forme dell’essere non poteva mancare il travestimento culturale e Bisi Fabbri si riproduce copiando la maniera rinascimentale e in particolare l’autoritratto di Raffaello. Partecipa così a quel filone dell’arte, anche contemporanea, che usa il repertorio museale saccheggiandolo per deformarlo, per farne parodia o per omaggarlo, praticando una specie di citazione continua (figg. 4, 5, 6). È inevitabile, fra gli altri, almeno il riferimento a Francesco Vezzoli e al suo autoritratto che esplicitamente si richiama a Raffaello (fig. 7).
Il volto è lo specchio dell’anima (dicono) e quindi la meta degli artisti sembrerebbe quella di far affiorare in qualche modo un’interiorità sfuggente e inafferrabile. Le molteplici tecniche di rappresentazione che usa Bisi Fabbri sottolineano le differenze di prospettiva presenti nei singoli lavori. La sua identità si costruisce nella trasformazione continua, nella fluidità delle apparenze. Questa condizione effimera e fragile è anche però condizione aperta, che aiuta e promuove l’ascolto, la crescita e l’apprendimento (figg. 8, 9, 10, 11).
Riuscire a dedicarsi alla propria arte diventa alla fine l’unica misura stabile del proprio io nella concretezza dell’esistenza, l’unico baricentro che consente di uscire dalla nevrosi latente e dalla possibile follia. Per Bisi Fabbri non è una decisione facile in un mondo dominato da figure maschili, dove la conquista del riconoscimento è una fatica quotidiana. Fra i ritratti ce n’è uno che sembra alludere a tutto questo ed è Ritratto in piedi del 1914. In una postura aperta, rivolta verso il mondo e il futuro Bisi Fabbri è una figura spoglia e diritta, senza fronzoli e abbellimenti, spettinata e seria. Sembra incarnare con chiarezza la forza e la decisione dei suoi progetti e nello stesso tempo sembra dichiararne anche la fatica e le rinunce, con fierezza e orgoglio (fig. 12).
Le caricature
La produzione di Bisi Fabbri in questo ambito è varia e intensa, con filoni diversi che si incrociano negli stessi anni, quasi negli stessi mesi. Il 10 giugno 1911 si inaugura a Torino al castello di Rivoli la mostra “Frigidarium” dedicata all’arte umoristica internazionale, a cui partecipano molti caricaturisti italiani. Bisi Fabbri è presente con trenta opere, tra oli, pastelli, tempere, inchiostri e acquerelli. Unica donna presente nella sezione italiana riceve una medaglia di bronzo. Per alcuni critici dell’epoca si tratta di una rivelazione e viene sottolineata l’audacia nel disegno e nelle tinte. Altri, come Enrico Cavacchioli, rimangono colpiti dai disegni «strani» della Bisi Fabbri, «caricaturalmente corrotti di futurismo». Per il critico inoltre «la sua non è una risata normale. È piuttosto l’esaltazione delirante di una maniaca» (CAVACCHIOLI 1911).
Era difficile per la critica contemporanea collocarla in un movimento o in una corrente e questo non l’aiutava a farsi comprendere e apprezzare. Ma il fatto di essere stata un’autodidatta e di non aver frequentato l’Accademia probabilmente potenziava la sua originalità espressiva, fino all’elaborazione di uno stile personale, elegante e deciso, capace anche di una critica sferzante nei confronti della società e della politica. Per certi aspetti fa pensare a un Otto Dix o a un George Grosz, specie per quanto riguarda la produzione che si riferisce alla guerra. È del 1911 la serie delle caricature che propongono donne sotto forma di animali e che sono una parodia delle figure femminili celebrate da Boldini e d’Annunzio. Civetta, Pavonessa e Lucertolina (fig. 13, 14, 15) con il tratto elegante, gli sfondi e i colori delicati sottolineano gli stereotipi culturali diffusi all’epoca, e la loro vanità. Le donne vere però sono altra cosa e Bisi Fabbri propone anche altre raffigurazioni, piene di sarcastico realismo. La vita delle donne non è per tutte la stessa, anche se a volte la stessa donna è costretta a interpretare ruoli diversissimi.
Bisi Fabbri gioca ironicamente con le diverse accezioni dell’espressione «essere occupata». La prima vignetta, In famiglia (fig. 16), mostra una madre ormai allo stremo delle forze, con quattro pargoli scatenati, un marito a cui deve tagliare i capelli e sullo sfondo una pentola che bolle sul fuoco. «Mamma, mamma» grida uno dei figlioli tirandole la gonna. «Non vedi che sono occupata?» risponde lei. Nella vignetta successiva, Il salotto (fig. 17), un gruppo di donne eleganti e apparentemente annoiate sembra esistere solo per esibire la propria eleganza e in alto a sinistra il commento:«…sono occupate…?». Nella terza vignetta, Il servizio (fig. 18), una donna che prosaicamente si sta occupando del figlio e del suo vasino, si sente chiamare da uno degli uomini seduti intorno a un tavolo che le dice: «Vieni dunque a sentire…» e lei risponde: «Vedi pure che sono occupata!». Nell’ultima, Al ricevimento (fig. 19), una donna, circondata da uomini eleganti, presumibilmente ricchi e potenti, semisdraiata in una comoda poltrona, mentre un ammiratore le bacia la mano, si sente chiedere da un valletto in divisa: «Il signor conte desidera la signora contessa» e lei risponde: «Ora sono occupata».
Tra le opere che Bisi Fabbri vorrebbe esporre alla mostra di Rivoli c’è Salomè, di fronte e a tergo, una donna voluminosa, appena velata, che accenna passi di danza (figg. 20, 21). Si tratta di una deformazione grottesca e caricaturale dell’affascinante Salomè déco di fine secolo, protagonista in vario modo nel teatro e nella pittura come elegantissima e distruttiva femme fatale. Bisi Fabbri viene invitata a ritirare la sua opera perché potrebbe turbare i frequentatori della mostra, data la sua ripugnanza. Lei si affretta a farlo, per non pregiudicare il successo delle altre creazioni.
Nella prima metà di dicembre del 1911 Bisi Fabbri si reca a Roma per l’inaugurazione della sua mostra personale nelle sale del Lyceum, al piano terra del palazzo Torlonia, in via Tritone. È una preziosa occasione per farsi conoscere e per conoscere a sua volta pittori e intellettuali importanti, che possono incoraggiarla ed essere di stimolo per la sua maturazione artistica. Tra gli altri, conosce Omero Vecchi, ossia Luciano Folgore, che le scrive per congratularsi con lei e spronarla a continuare sulla strada che ha intrapreso:
La sua mostra d’arte al Lyceum ha molto interessato i giovani e i vecchi pittori di Roma, che pur discutendo la tecnica, hanno sentito e riconosciuto nella sua opera qualche cosa di bello, di sincero e di veramente artistico […]. In lei vi è una squisita tempra di pittrice che non derivando da nessuna scuola, che non imitando alcun maestro trae dalla propria sensibilità profonda e talvolta morbosa, motivi arditi e originali. […] Ho scritto a Marinetti circa le sue caricature futuriste, ma temo che non se ne faccia nulla perché Marinetti è un uomo bizzarro e un po’ esclusivista […]. Per ora non credo opportuno per lei di accomunarsi con una scuola pittorica molto scapigliata e troppo attaccata dalla critica. (SANSONE 2007, p. 29)
Sono particolarmente riuscite le caricature che ritraggono tipi sociali comuni, come per esempio Lusingatrice, una figura femminile che per le fattezze del volto potrebbe anche essere un autoritratto (fig. 22), o come Congressista (fig. 23). Nel 1912 la sua opera Futurismo artistico. Saggio del programma futurista (fig. 24) è premiata al concorso indetto dal giornale “Il Secolo XX”; si tratta della Gioconda che viene strozzata da due mani maschili ed è una parodia della polemica antipassatista che era propria dei futuristi. Sempre dello stesso periodo sono le numerose copie caricaturali di dipinti famosi, come Saint Marsault, scudiero di Francia di Clouet e Ritratto di ignota del Pollaiolo (figg. 25, 26).
Il 1914 è un anno ricco di soddisfazioni, coronato dall’adesione al gruppo Nuove Tendenze. Il marito in una lettera del maggio 1914 le scrive sulla mostra allestita dal gruppo a Milano: «Tu rappresenti, nella mostra, il momento di trapasso fra le punte più avanzate d’arte riconosciuta e quelle dell’arte futurista. Di modo che sarai un elemento ottimo nell’insieme della mostra e faciliterai al pubblico la comprensione» (SANSONE 2007, p.31).
Dal 1915 comincia una fitta collaborazione con “Il Popolo d’Italia”, il quotidiano interventista fondato da Benito Mussolini. Fornirà al giornale parecchie vignette sarcastiche e polemiche sui temi sociali e politici inerenti alla guerra. Riportiamo fra le altre alcune immagini satiriche sui tedeschi e i loro governanti come Si dice che i tedeschi fanno incetta di ghiande per il pane (fig. 27), Franceschino e Guglielmone contano con terrore le ultime ore di agonia (fig. 28), Sogno di primavera (fig. 29). Non manca il sarcasmo anche nei confronti dell’Italia, rappresentato qui da due esempi Il gallo canta e non ti vuoi svegliare (fig. 30), dove un’Italia addormentata ha deposto la corona turrita sul comodino e O Trieste del mio cuore ti verremo a liberare (Giolitti) (fig. 31). Particolarmente riuscite per le immagini nitide e vigorose, per il segno sicuro ed efficace sono: Il papa esce dal Vaticano (fig. 32), rappresentato come un grosso ratto dalla coda lunga e serpentina e Adesso non puoi più ritirare le corna! (fig. 33): una grande lumaca, l’Italia, lentamente ha deciso di prendere una posizione e ha tirato fuori due affilate corna/spade per combattere. Sono anni di lavoro, di grande impegno anche civile e le collaborazioni le vengono richieste da testate diverse. Bisi Fabbri recupera anche la sua formazione di sarta e disegna moltissimi modelli per abiti femminili.
Nel 1917, in piena guerra, sulla rivista “Il Secolo Illustrato” scrive: «Penso alla donna che nella vita civile sostituisce l’uomo e non posso fare a meno di immaginarla sempre attiva. Così me la figuro nel costume semplice, pratico, economico che rappresento nel modello qui accennato» (SANSONE 2007, p. 37). Bisi Fabbri immagina vestiti lineari e senza fronzoli, dai costi contenuti; il cappello è una semplice calotta che preannuncia lo stile che si sarebbe affermato a Parigi nel 1925 con l’Esposizione Internazionale (figg. 34, 35).
Scrive Paola Pallottino, sintetizzando il percorso artistico ed esistenziale di Adriana Bisi Fabbri:
Adriana Bisi Fabbri, pittrice, caricaturista e decoratrice di rilevante personalità e indiscusso spessore artistico, fu penalizzata dalla ventura di essere donna, di essere un’autodidatta inquietamente eclettica, di essere scomparsa a soli trentasette anni […], ma, soprattutto, di avere operato in quel decennio, antecedente la prima guerra mondiale, nel quale la concentrazione delle avanguardie europee avrebbe rivoluzionato il panorama dell’arte, rendendo ancora più problematica la sua collocazione. […] La sua inesausta ricerca di una cifra espressiva personale, oscillante fra tecniche deliberatamente classiche e soluzioni tardo simboliste, cedimenti al gusto preraffaellita e violente incursioni in ambito espressionista […] vedrà […] in quell’eclettismo giudicato un limite, il segno di una lacerante consapevolezza dei tempi e di una modernità molto più ricca e complessa di quanto le singole opere consentano di valutare. (PALLOTTINO 2007, pp. 101 e 107)
L’arte umoristica
Nel 1913 Bisi Fabbri partecipa all’Esposizione d’arte umoristica di Bergamo per la quale disegna la cartolina e il grande manifesto. L’immagine a due colori, inequivocabilmente fillidea, fra secessione e déco, è di grande potenza visiva e di immediata efficacia. L’arte umoristica è una figura femminile nuda e flessibile, leggera e ridente, senza freni inibitori. Porta il giocoso berretto dei giullari con i sonagli sonori, ma tiene in mano un frustino con picche taglienti. Cavalca a pelo un centauro muscoloso e pesante nella sua parte equina, che termina con il volto di un signore grasso, calvo, in marsina elegante. Con la mano sinistra l’amazzone gli tira all’indietro la testa, governandolo con forza impietosa. La leggerezza folle e trasgressiva dell’umorismo domina la pesantezza dei rapporti sociali e scardina ogni potere che tenti di impedire l’espressione della creatività personale. L’immagine comunica contemporaneamente il riconoscimento della forza e la rivendicazione della libertà.
Bibliografia
Le illustrazioni sono tratte dal volume Adriana Bisi Fabbri (1881-1918), a cura di Luigi Sansone, Mazzotta, Milano 2007, ad eccezione dell’ultima, la figura n. 43, che proviene invece da Paola Pallottino, Storia dell’illustrazione italiana. Cinque secoli di immagini riprodotte, Usher/Arte, Firenze 2010, p. 294
ARROS (1918), La vita degli sconosciuti – Adrì, in “Il popolo d’Italia”, Milano, 7 giugno
BOATTO Alberto (2002), Narciso infranto. L’autoritratto moderno da Goya a Warhol, Laterza, Bari
CAVACCHIOLI Enrico (1911), Umorismo ed umoristi. Torinetto paese alpino e terre circonvicine, in “Il Secolo”, 17 giugno
DE GUZZIS Stefania (1993), Fabbri Adriana, in Dizionario Biografico degli italiani, vol. 43, Treccani, Roma; in rete qui (consultato il 03/10/2018)
PALLOTTINO Paola (2007), Breve la matita felice di Adriana Bisi Fabbri. Illustrazione e grafica 1908-1918, in Luigi Sansone (a cura di), Adriana Bisi Fabbri (1881-1918), Mazzotta, Milano, pp.101-107
SANSONE Luigi (2007), Vita e opere di Adriana Bisi Fabbri, in Luigi Sansone (a cura di), Adriana Bisi Fabbri (1881-1918), Mazzotta, Milano, pp. 11-52
SCARPELLI (1911), Un’esposizione fra due bicchieri di San Pellegrino, in “Il Giornale del Mattino”, Bologna, 21 settembre