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il sublime rovesciato: comico umorismo e affini

Copertina Numero 18

 aprile 2019

Saggi e rassegne

Barbara Ricci

Le donne del posdomani. Rosa Rosà e la scrittura futurista

 

Rosa Rosà nasce a Vienna nel 1884 da una famiglia aristocratica con il nome di Edith von Haynau. Viene educata in casa, ma riesce a frequentare, contro il parere della famiglia, la scuola d’arte a Vienna. Nel 1907, durante una crociera a Capo Nord, conosce lo scrittore italiano Ulrico Arnaldi che sposa l’anno seguente. Si trasferisce a Roma e tra il 1909 e il 1915 ha quattro figli. Durante la guerra, mentre il marito è al fronte, si accosta al futurismo. Sceglie lo pseudonimo di Rosà da una cittadina del Veneto e lo raddoppia: Rosa Rosà. Collabora con la rivista “Italia futurista” (1916-1918) e si dedica alla scrittura, al disegno e alla grafica. Sulla rivista pubblica anche una serie di articoli sulla questione femminile, oltre a numerosi racconti. Il gruppo futurista fiorentino è caratterizzato da una concezione cerebrale dell’arte, con forti interessi per l’occultismo, la magia, la metapsichica e tutti i relativi fenomeni, secondo una poetica che si propone un’arte «asimmetrica, sproporzionale, mostruosa magari». L’attività cerebrale è intesa come un terzo occhio spalancato oltre i limiti della materia. Si realizza in questo modo un linguaggio poetico libero, bizzarro, inatteso. Il poeta, moderno sciamano, diventa una specie di veggente, capace di vedere oltre la sfera degli oggetti visibili, tattili, olfattivi, gustativi, sulla scia di Rimbaud, verso lo sgretolamento di tutti i sensi. Sono parecchie le donne che collaborano con la rivista e che condividono questa poetica. Rosa Rosà si presenta in questo gruppo come un’artista eclettica che intende l’arte anche come laboratorio. La sua attività di disegnatrice è preponderante, ma si occupa anche di ceramica, scultura, realizzazione di arti applicate: stoffe, copertine per i libri, carte geografiche, manifesti. Considera l’arte investimento di energia psichica, oggettivazione del sé, condividendo così lo spirito del gruppo fiorentino, che funziona come un ‘collettivo poetico’, secondo l’espressione di Mario Verdone.

 

Una donna con tre anime (1918)

Nel 1918 Rosà pubblica il romanzo Una donna con tre anime. Il testo è costruito attraverso immagini e atmosfere giustapposte, senza connessioni, quasi una serie di disegni o di quadri. La scrittura è comunque molto chiara e le spiegazioni vengono fornite in tono quasi didascalico. Le descrizioni sono dettagliate ed è sempre presente una certa arguta e leggera ironia, pur nella serietà dell’impianto generale. Nel corso del racconto, Giorgina Rossi, la protagonista, subisce tre successive trasformazioni che sono le tre anime del titolo. Esse sono parzialmente giustificate dagli effetti devastanti di un esperimento scientifico che si svolge parallelamente alla vicenda della protagonista. Questo esperimento scatena energie preziose che l’autrice chiarirà solo nell’ultimo capitolo. Il romanzo comincia con la descrizione di Giorgina Rossi, nella sua dimensione quotidiana, in un certo senso la base delle successive trasformazioni.

La vita fra i coniugi Rossi si sgomitola con semplicità perfetta, sopra un unico piano, senza ramificazioni e senza prospettive in profondità. Ogni cosa appare così com’è, unilaterale e trasparente, priva di ogni significato remoto. I loro spiriti semplici ignorano la moltitudine poliedrica degli aspetti che si cela sotto gli avvenimenti.
Giorgina Rossi è giovane, ma di una gioventù quasi polverosa. Anche per chi la conosce bene, non è facile ricordare un qualsiasi particolare della sua persona. Si direbbe che la natura abbia voluto concretare in lei tutte le doti di temperanza, dandole un viso troppo insignificante, con un paio di occhi troppo inespressivi, per essere avvenente: ma ha saputo fermarsi in tempo prima di darle un’apparenza di vera bruttezza. Le ha creato un corpo che non ha mai destato in alcuno un interessamento erotico, ma le ha dato nel medesimo tempo una certa armonia sobria e snella che fa deplorare che ella porti certi vestitini miseri senza colore definito, rattoppati e rimodernizzati da un anno all’altro per spirito di economia. […]
È buona, è mite, è timida.
Umberto Rossi, suo marito, è commesso viaggiatore di una fabbrica di conserve alimentari. Porta un corno di corallo alla catena dell’orologio e uno stuzzicadenti, alquanto usato, accanto alla penna stilografica nel taschino del gilet (ROSÀ 1981, pp.33-34).

La prima anima di Giorgina Rossi appare all’improvviso nella trama delle azioni abituali, mentre Giorgina sta rientrando in casa dopo aver fatto la spesa. Regge con la mano destra la sua sporta di rete piena di provviste alimentari, cammina con il suo solito passo stanco, inelegante, privo di vivacità. Lungo le scale viene raggiunta da Alberto Boni, uno studente che abita sul suo stesso pianerottolo, con il quale scambia qualche banale osservazione sul rincaro delle patate. Poi di colpo un insieme di sensazioni varie travolge Giorgina, con un’intensificazione profonda di tutto il suo essere vivente e pensante e con un’esplosione improvvisa di sensualità. Il giovane studente sta per girare la chiave nella serratura ed entrare in casa, ma viene sfiorato dalla forza di quel cambiamento. Si volta a guardare Giorgina e gli appare sostanzialmente cambiata, anche se non saprebbe dire come. Si avvicina a lei, ma la trasformazione si spegne, come in un’evaporazione rapida e Giorgina rientra confusa in casa. Ma la prima anima si presenta di nuovo, senza preavviso.

Giorgina è spesso sola in casa e passa intere giornate facendo la calza vicino alla finestra. La monotonia del lavoro non la stanca, anzi trova uno svago piacevole nel maneggiare i ferri interminabilmente, vagando con il pensiero tra le due o tre occupazioni centrali della sua vita intellettuale: l’arrivo prossimo della nipote Maria e la speranza di riuscire ad ammortizzare un piccolo mutuo fatto in un anno disgraziato. Si sente dalla porta della cucina lo stillare monotono di un rubinetto d’acqua mal chiuso. Ella passa ore di quasi immobilità fisica e psichica in una calma senza desideri e senza impazienza, perfettamente intonata con la staticità dell’ambiente.
Nel suo viso tranquillo e buono, chinato sul lavoro, non passa nessun brivido e nessuna luce che riveli una qualsiasi coscienza di tutto il tumulto di vita ribollente fuori, nelle altre case, nelle vie, nei ritrovi. Nel momento preciso in cui suonano le sei a un orologio lontano, per la seconda volta, in uno scoscendimento improvviso di tutte le sue sensibilità, si apre in lei la rivelazione di una sensibilità nuova (ROSÀ 1981, p. 50).

Invasa dalla prima anima, Giorgina si veste, si trucca, esce di casa, cena in una trattoria, accoglie e provoca le attenzioni maschili, assiste al gioco d’azzardo in una bisca clandestina, si allontana con un uomo e si trova all’alba davanti al portone di casa. Incerta, constata con meraviglia di aver dimenticato la sporta di rete: è l’ora in cui ogni mattina è abituata a uscire per la spesa. Sale le scale, entra nel suo appartamento, prende la sporta ed esce di nuovo. Incontra la signora Boni e insieme si avviano verso il mercato.
La seconda anima si manifesta appunto lì, al mercato, in mezzo a prosaiche discussioni sul prezzo delle verdure. Giorgina sale su una sedia e arringa la folla, con toni e gesti da oratrice esperta. L’argomento della sua perorazione sono oscure scoperte scientifiche che, Giorgina assicura, cambieranno il destino dell’umanità. Il suo aspetto fisico è di nuovo mutato: il suo profilo è duro ed energico, i gesti violenti, angolosi e precisi, la voce tagliente e decisa.
La terza anima si manifesta quando Giorgina sta scrivendo una lettera al marito ed è quasi un’esperienza di scrittura automatica.

Sono le dieci di sera.
Giorgina Rossi è sola in casa, curvata sul tavolo della cucina. Scansati i resti del suo modesto pranzo, sta scrivendo una lettera a Umberto Rossi. Egli è sempre in giro per le Puglie occupato a piazzare le sue conserve alimentari.
Ella scrive coprendo faticosamente e lentamente la carta con la sua grossa calligrafia di persona poco abituata a quel lavoro: «Caro Umberto! Ti scrivo per farti sapere che sto bene di salute e spero lo stesso per te. Ho pagato il frutto del mutuo. La Maria mi ha scritto che arriverà fra pochi giorni. Qui dopo alcuni giorni di pioggia è ritornato il bel tempo».
A questo punto Giorgina si interrompe. Rimane per qualche istante con gli occhi fissi nel vuoto e poi ricomincia a scrivere:
«Tu non ci sei. Io tocco la ruvida città, ostile e vuota, con le mani sfibrate dalla desolazione, palpando pietra per pietra per rintracciarvi qualche tuo vestigio. Le cupole vuote si innalzano tremende al di sopra delle vie ricolme di mille corpi addensati frettolosamente, ma più deserte di una pianura di neve. Vi è l’irrequietezza della mia ricerca folle di te inalberata su ogni palo di lanterna, vi è la mia angoscia disperata ferma davanti a ogni casa. Tu non ci sei e io ti amo. Ti amo senza sapere chi sei, né dove sei. Ignoro se sei un corpo, se sei un’anima oppure se sei semplicemente la proiezione nell’infinito di tutte le mie bramosie assetate di Irrealtà. […] Sento il peso degli eterni germi fecondati di peccato e di lussuria, carcere esasperante fatto dalle braccia materne della Natura, che mi imbavagliano con gli istinti incessanti. […]».
Giorgina si interrompe una seconda volta, rimane per qualche istante con gli occhi fissi nel vuoto, poi ricomincia a scrivere:
«Sono stata a vedere la stoffa per il vestito color nocciuola che volevo farmi, ma adesso anche le stoffe sono diventate carissime e così ho pensato di aspettare ancora. Sperando di vederti presto, mi firmo tua carissima moglie
Giorgina» (ROSÀ 1981, pp. 63-65).

Nell’ultimo capitolo l’autrice dà la spiegazione del fenomeno per bocca degli scienziati che hanno studiato nel frattempo le conseguenze del loro esperimento. Le esperienze vissute da Giorgina sarebbero astrazioni materializzate di tempo, schegge astrali, frammenti di epoche destinate a spazi futuri. Le anime sono tutte e tre lembi di ciò che sarà nel futuro la vita della donna.

 

Le donne del posdomani

Nel 1917 la rivista “Italia futurista” ospita un articolato dibattito sulla questione femminile. Rosa Rosà partecipa con una serie di articoli che fanno emergere convinzioni chiare e nette sul tema. Le sue argomentazioni sono inserite nel contesto di una approfondita analisi storico-sociale che fa da sfondo alle riflessioni generali sulla donna.

La guerra ci ha scosse come gli uomini. Inutile ripetere che in questo istante milioni di donne hanno assunto – al posto di uomini – lavori che fin ora si credeva che solo uomini potessero eseguire, riscuotendo salari che fin ora il lavoro onesto della donna non aveva mai saputo ottenere. […] E se anche dopo la guerra dovranno ricedere agli uomini molte delle possibilità che ora amministrano come un capitale in prestito, il campo ristretto loro si è in tutti i modi allargato e non diventerà mai più unilaterale come prima. Dopo la guerra, quando milioni di uomini ritorneranno presso le loro compagne che hanno lasciate in lacrime, deboli come bimbe di fronte allo strazio delle separazioni […] troveranno in queste donne non la passione delle bambole vanitose, ma quella di compagne temprate dalla grandiosità del tempo, creature coscienti del loro compito presente e futuro: cioè mantenere viva l’energia del paese (ROSÀ 1981, pp.113-114).

La guerra ha dato forza e visibilità alle donne perché le ha costrette a entrare nel mondo del lavoro e ha fatto scoprire loro la possibilità di essere autonome e indipendenti. Si tratta di un percorso irreversibile che è nato dalle circostanze e non è frutto di volontà politica o di scelte personali: le donne dopo la guerra diventano compagne dei loro uomini in una dimensione del rapporto trasformata in senso paritario. Fatta questa premessa, è netto il rifiuto della divisione dell’umanità in generi, il maschile e il femminile, nel nome della libertà individuale. Rosà è sicura e categorica:

Siamo alla vigilia di rivoluzionamenti non solo politici, sociali, geografici, ma anche sulla soglia di profonde metamorfosi psicologiche, sessuali, erotiche. […] Spero che un giorno non si dirà più: sì, benissimo, ma è una donna, o sì, benone, ma è un uomo. E si giudicherà un individuo così: «è un cretino» oppure «ha ingegno» (ROSÀ 1981, pp. 115-116).

È netto anche il rifiuto della prescrizione alle donne di nuovi modelli di comportamento, rigidi e schematici come i precedenti. È un fastidio che coinvolge anche gli atteggiamenti dei futuristi, non tutti omogenei. «Chi mi può dire come bisogna essere?» esclama Rosà. Il libero io immortale delle donne sarà inaccessibile alla seduzione, anche alla più esperta, con evidente allusione al libro di Marinetti Come si seducono le donne, la cui prima edizione è appunto del 1917.
La riflessione sul femminile e sul maschile aveva già attraversato il movimento futurista alcuni anni prima con il Manifesto della donna futurista del 1912 e il Manifesto futurista della lussuria del 1913. Entrambi i manifesti erano opera di Valentine de Saint-Point, intellettuale francese dalla spiccata personalità. Prima di incontrare Marinetti e aderire al futurismo aveva studiato pittura con Mucha, aveva pubblicato un poema e tre romanzi, e si era affermata come poetessa del «sentimento cosmico panteista». Aveva inoltre cominciato una complessa rielaborazione della questione femminile. Anche per Valentine de Saint-Point è assurdo dividere l’umanità in donne e uomini: essa è fatta di mascolinità e femminilità. Il superuomo, l’eroe, è un composto di entrambi gli elementi. Il mondo è «fradicio di saggezza» e la donna deve recuperare il suo istinto senza misura e far rivivere le Erinni, le Amazzoni, le guerriere, le distruggitrici. Il femminismo è un errore politico per eccesso di cerebralità: accordare troppi diritti alla donna annullerebbe le sue capacità creatrici e determinerebbe un eccesso di ordine.
La lussuria è liberazione di istinto e di energia. È liberazione della carne, è sana (ciò che è malato sono «i sinistri stracci romantici», i veli sentimentali che la deformano) ed è eterna (non segue le mode come i sentimentalismi, nati dalle varie società e civiltà). È superamento dell’io perché il desiderio rinasce continuamente e spinge l’individuo a espandersi per trovare soddisfazione. La lussuria è una battaglia mai vinta, uccide i deboli ed esalta i forti, coopera alla selezione.
L’analisi di Rosà si confronta inevitabilmente con queste suggestioni e con le contemporanee affermazioni di Marinetti che interpretava le rivendicazioni delle donne in quegli anni come un contributo forte per superare l’istituzione famiglia e il parlamentarismo italiano. Rosà riesce comunque a conservare una sua originalità specifica che si chiarisce meglio quando descrive il temperamento materno:

I temperamenti veramente tipicamente materni non posseggono oggi quel grado di libera personalità che li rende coscienti del proprio io forte e oggettivo che esiste staccato dalla comunanza con gli altri, destinato a percorrere le metamorfosi della vita principiando e terminando in se stesso. […] Donne del posdomani, saprete voi affrancarvi dalla maternità mentale per essere le amiche vere dei vostri figlioli? […] Che cosa aspettiamo a pronunciare apertamente che non è più l’amore che forma il perno principale attorno al quale gira la vita muliebre ma che vi sono subentrati mille elementi che navigano ancora sempre sotto la bandiera dell’amore e che in fondo non hanno più nulla a che fare con quel sentimento sublime che tra non molto diventerà leggendario, come le visioni religiose e i sonni catalettici che finivano con l’apparizione delle stigmate nel palmo delle mani degli eletti? (ROSÀ 1981, pp. 123-125)

È singolare come Rosà si inserisca facilmente nel dibattito contemporaneo sul materno, centrato ancora sulla domanda: il materno, quello reale e quello simbolico, è indissolubile dall’identità femminile? Nei suoi scritti Rosà nega la relazione materna come esclusivamente fondante per la madre e per il figlio/a. Rifiuta l’annullamento simbiotico e la fusionalità del primo legame madre e figlio/a, vissuto dalle donne sia come pienezza totalizzante sia come angoscia devastante per l’esclusiva dipendenza che viene a crearsi fra le due creature. Rifiuta soprattutto l’antitesi tra il chiuso tepore materno, confortante, ma regressivo, e il gelido, ma razionale mondo esterno del padre. Non accetta in altre parole l’opposizione fra una figura materna che dà affetto, ma genera dipendenza, e una figura paterna che sviluppa la razionalità e insegna l’autonomia. Esige di essere riconosciuta dal figlio/a nella sua interezza di persona e non essere solo empaticamente percepita nel segno del legame biologico connesso all’accudimento che caratterizza i primi anni dell’infanzia.
Rosà sa bene che il pensiero conservatore vede nell’emancipazione della donna il tramonto dei valori femminili e la scomparsa dell’ideale materno, differenziando in modo irriducibile gli ambiti di competenza: dove esiste la madre non vi può essere l’emancipata e viceversa. Rosà sembra perseguire invece una logica di interconnessione e di reciproca differenziazione, cioè dare spazio ai valori di cura e di accudimento, rivendicando però anche quelli legati all’indipendenza e alla razionalità, da sempre iscritti solo al maschile. Per Rosà è proprio il dissolvimento della polarizzazione di genere a permettere la ricostruzione della tensione vitale fra riconoscimento e affermazione, fra dipendenza e libertà.
Rosà rifiuta di interpretare in modo totalizzante qualunque relazione amorosa, anche quella fra uomo e donna, perché comporta la fusione, l’annullamento, la ricerca di una radice del vivere che non abita più nell’individuo singolo, ma nell’altro.
Rosà ammette che la fusione amorosa è felicità totale nella sua precarietà, ma anche in questo caso ritiene che il processo avviato nella società moderna dalla guerra sia irreversibile, perché insito nelle trasformazioni inevitabili della storia dell’uomo.
Indipendentemente dalla sua volontà, la donna del domani non potrà più fare l’esperienza dell’annullamento di sé nell’altro. Il suo «libero io immortale», il suo «metàcentro astratto» accetta la solitudine della libertà e della dignità personale. La solitaria è la donna che accetta la separazione dagli altri per conoscere e riconoscersi, che vive la propria solitudine come una conquista.
E quindi Rosà proclama:

Le donne avvertono gli uomini che […] esse stanno per acquistare una novità: un metàcentro astratto, inconquistabile, inaccessibile ai consumatori di tonici uso «Fernet». Stanno per acquistare la coscienza di un libero io immortale, che non si dà a nessuno e a nulla. […] Ed è un male fondamentale della nostra epoca di continuare ad opporsi a questa constatazione e alla creazione di nuove possibilità e nuove forme di vita, per queste donne nuove, che vogliono la loro atmosfera da respirare – perché oramai – le mura del gineceo sono saltate in aria (ROSÀ 1981, p. 126)

Dopo il dibattito pubblico sulle pagine della rivista, Rosà affida al romanzo la sua visione del futuro.
La dichiarazione che Rosà fa subito all’inizio del testo aiuta a comprendere il senso del suo impegno artistico: «La vita dei coniugi Rossi si sgomitola con semplicità perfetta, sopra un unico piano, senza ramificazioni e senza prospettive di profondità. Ogni cosa appare ad essi così com’è, unilaterale e trasparente, priva di ogni significato remoto». La realtà va quindi rivelata e scoperta, deve in un certo senso diventare irreale per acquistare spessore e poliedrico movimento, deve farsi visione. È una prospettiva condivisa dagli intellettuali/artisti del gruppo fiorentino, anche se forse l’effetto di straniamento cercato da Rosà viene più decisamente strutturato sulla concreta esperienza quotidiana della protagonista. È proprio l’insistito contrasto fra la vita di Giorgina, il suo aspetto, i suoi modi e tutto quanto le accade in seguito a costruire l’ossatura del romanzo. La descrizione accurata dell’atmosfera nel piccolo appartamento in cui Giorgina lavora in modo silenzioso e ripetitivo è lo sfondo grigio che si spalanca e si frantuma quando le anime prendono possesso di lei. La prima anima è dominata dalla scoperta del corpo sessuato, capace di seduzione e di piacere, è un’anima che si muove, che agisce, che fa. La seconda anima sceglie la parola, il linguaggio razionale, l’idea che deve essere energicamente comunicata alla folla e che serve a convincere e a cambiare il mondo. Perciò è un’anima dura, forte, fredda. Entrambe le anime cambiano il corpo di Giorgina e lo trasformano fisicamente, almeno nella percezione che ne hanno gli altri.
La terza anima si manifesta solo nella scrittura: ormai completamente spiritualizzata, è in grado di liberare il desiderio. È un desiderio senza oggetto «volo di luce opalescente», che annulla le distanze, alleggerito «dalle piaghe roventi della vita», dal «carcere esasperante fatto dalle braccia materne della natura», estremo lembo di libertà che si può raggiungere con «i nuovi sensi irradiati immaterialmente nell’Infinito». Rosà spiega con grande chiarezza nell’ultimo capitolo del romanzo che questa sarà l’anima della donna in un futuro remoto, quando sarà reso possibile il superamento della sensibilità materiale e la liberazione dal corpo, dato derministico, impastoiato dentro i ruoli e le necessità naturali.
Ma Rosà non si ferma qui nella sua visione di futuro: dopo aver dissolto, come abbiamo visto negli interventi teorici, l’antagonismo dei due termini maschile e femminile, distrugge anche l’idea di un’identità unitaria e compatta a cui fare riferimento. La nevicata di futuro è destinata ad aumentare e andrà ripetendosi il fenomeno accaduto a Giorgina: il raddoppiamento, la moltiplicazione e l’alternarsi delle personalità saranno eventi quotidiani, fino all’abolizione della continuità della coscienza. Questa identità libera e frammentaria è destinata a rivoluzionare i rapporti sociali: che cosa rimane dell’etica e della responsabilità personale di fronte a un io che è solo una necessità grammaticale?
La lettura di Rosà attiva risonanze, cade dal passato direttamente sul presente, sulle difficoltà di un dibattito ancora aperto. Oggi gli sviluppi in campo tecnologico ci promettono la liberazione del corpo dai limiti del suo immediato spazio vitale. Internet è il mezzo disincarnato in cui il corpo materiale si avvia a non avere più valore. Una gamma di possibili fusioni tra l’umano e il tecnologico (impianti, protesi ecc.) apre la possibilità di nuove forme incarnate. Donna Haraway nel suo Manifesto (termine molto vicino alla cultura di Rosà), per descrivere gli abitanti di questo nuovo mondo mediato dalla tecnologia, usa la figura metaforica del cyborg, un ibrido di macchina e corpo naturale, «una risorsa dell’immaginario che può suggerire accoppiamenti fecondi». È una figura che va oltre le tradizionali dicotomie (maschio/femmina, cultura/natura, umano/animale), che non usa l’altro per costruire il sé, che lascia spazio a confini aperti e/o dispersi, «una carta geografica mobile».
Rosà definisce Una donna con tre anime un romanzo futurista. Si potrebbe anche pensarlo come un romanzo di protofantascienza, considerando che negli ultimi anni le scrittrici di fantascienza hanno rivoluzionato i modelli e il linguaggio di questo tipo di narrativa. Si sono interessate alla fantascienza antropo-sociologica, interrogandosi sui temi relativi all’ecologia, alle nuove forme di comunicazione, ai rapporti non monogamici, alla maternità, alla tecnologia. Questa produzione letteraria presenta una critica ai modelli tradizionali, un tentativo di sperimentazione linguistica, il soggetto multiplo che diventa protagonista, la fluidità spazio-temporale, tutte categorie in cui il romanzo di Rosà si ritrova facilmente.
Può sorgere comunque il sospetto che il sogno, spostato di necessità nel futuro remoto, serva soprattutto a sostenere il peso di un quotidiano senza vie d’uscita, chiuso al cambiamento e alla fantasia. Un’anonima Giorgina qualunque che sul tavolo di cucina mescola la faticosa scrittura privata e il volo opalescente sulla città, sogna il sogno di una fuga solo virtuale o davvero il desiderio liberato prefigura un’utopia possibile?

 

BIBLIOGRAFIA
HARAWAY DONNA J. (1995), Manifesto Cyborg. Donne, tecnologie e biopolitiche del corpo, Feltrinelli, Milano
RICCI BARBARA (2003), Rosa Rosà, in Fuori norma. Scrittrici italiane del Novecento, Luciana Tufani editrice, Ferrara, pp. 135-174
ROSÀ ROSA (1981), Una donna con tre anime, a cura di Claudia Salaris, Edizioni delle donne, Milano, con appendice di articoli e disegni.