Amalia Guglielminetti nasce nel 1881 a Torino. La famiglia, più che benestante, affida la sua educazione a istituti religiosi e a scuole private. Nel 1903 il suo esordio letterario, la raccolta di versi Voci di giovinezza, passa quasi inosservato.
Il secondo volume di poesie Le vergini folli esce nel 1907 e conosce un discreto successo. Viene recensito positivamente anche da critici di una certa importanza. Seguono due raccolte di versi, una nel 1909, Le seduzioni e una nel 1913, L’insonne. Entrambe hanno un buon successo di critica e di pubblico, ma rivelano una certa trascuratezza stilistica. La successiva produzione in prosa, soprattutto novelle, anche se non sempre banale, si impoverisce con il passare degli anni.
Per i dettagli della biografia e per la bibliografia essenziale si rimanda alla voce Amalia Guglielminetti nel Dizionario Biografico degli Italiani curata da Marziano Guglielminetti. Di seguito il link che riporta questa voce in rete http://www.treccani.it/enciclopedia/amalia-guglielminetti_%28Dizionario-Biografico%29/.
Nel 1927 Giuseppe Zucca, direttore della collana Il Fauno Giallo, chiede ad Amalia Guglielminetti: Che cos’è, secondo voi, l’umorismo? E lei risponde: l’umorismo è la verità in costume di clown, occupata a far lazzi su una corda tesa.
E’ la tarda primavera del 1907. Gozzano ha appena pubblicato La via del rifugio, la Guglielminetti le Vergini folli. Sono le due promesse della società letteraria torinese. Si scambiano i libri e cominciano una corrispondenza epistolare che sarà pubblicata solo nel 1951.
Da subito la Guglielminetti sperimenta l’ironia lucida e spietata di Gozzano e da subito verifica le difficoltà che esistono nella gestione d’immagine di una donna che scrive. Come le racconterà più tardi in una lettera, lui e i suoi amici l’avevano notata presso la Sede della Società di Cultura di Torino. Tutti avevano riconosciuto la sua bellezza e tutti avevano esecrato il fatto che scrivesse, e non male. Detestabili le donne che scrivono, conclude Gozzano, se scrivono male ci irritano, se scrivono bene ci umiliano. Già nella sua prima lettera i complimenti per il libro di poesie della Guglielminetti sono tutti sul filo di un’ironia ambigua. Amalia tra l’altro non sa nulla della maligna parodia in dialetto che Gozzano ha fatto di due sonetti delle Vergini folli, in cui la signorina, in attesa di trovar marito, come la gallina vecchia mette gli sproni.
Le giuro, cara Signorina, che non conosco nella letteratura muliebre italiana, presente e passata, opera di poesia paragonabile alla sua. La «degna ghirlanda» di sonetti che Ella ha saputo forgiare, Le dà il primissimo posto non fra le donne (fra le donne Ella non ha competitrici: le donne non sanno scrivere), ma fra gli ingegni virili di più belle speranze […]Ella conduce il lettore attraverso i gironi di quell’inferno luminoso che si chiama verginità. Ella ha saputo innalzare e nobilitare nell’idealità primitiva quella figura oppressa, ambigua, derisa spesso che ai nostri giorni prende il nome di Signorina.
Le donne non sanno scrivere, stabilisce subito Gozzano con decisione. Amalia scrive, perciò è un ingegno virile, un uomo spirituale. Comincia subito il gioco della separazione: lei non può essere contemporaneamente un poeta e una donna. Per Gozzano la letteratura foggia la vita e fa da filtro all’esperienza vitale; è anche ambizione crudele e tormentosa, volontà di lasciare nel tempo il proprio nome. L’amore passione è quindi per lui un ingombro nel cammino, un inganno della giovinezza e Gozzano ha la fortuna di non essersi innamorato mai, neppure di Amalia e glielo dice chiaramente io non sono innamorato che di me stesso. La bellezza di Amalia è un ostacolo, fa nascere un desiderio fisico che va tenuto sotto controllo. L’amore per lei deve perciò rimanere puro, può essere vissuto solo nella lontananza ed eventualmente vivificato da occasionali fantasticherie letterarie, che però non devono mai uscire dalla dimensione epistolare.
Da lontano il gioco può anche diventare perverso, da lontano Gozzano si sente al sicuro e loda i suoi capelli corvini, la bocca, i bei denti, gli occhi di una dolcezza servile. Arriva a immaginare un possibile incontro, in cui prenderebbe le sue mani, le bacerebbe fino a mordere le vene del polso, e poi la mia bocca si troverebbe dietro al vostro orecchio, alla radice dei capelli fini, e vi morderei la nuca[…]il morso è il mio vizio preferito.
Lei comprensibilmente chiede di concretizzarlo questo possibile incontro, lui si sottrae con ostinazione, un meccanismo che diventa una costante nella loro relazione. Non abbiate paura di me, non spaventatevi, continua a ripetere Amalia. Cerca una consonanza, una qualche forma di empatia, sempre in ascolto della sensibilità di lui. Credete voi proprio nel mio fascino spirituale? gli chiede, incerta.
Vi posso dire sinceramente che mai io sono stata amata nel senso un poco elevato di questa parola. Sono stata desiderata qualche volta, ho destato qualche ardore della più pura o meglio della più impura sensualità. Forse – chi sa? – non merito altro. Voi rimpiangete ch’io non sia un uomo. E lo rimpiango anch’io intensamente […]invece non sono che un essere ibrido, male adatta a vivere fra gli schermi anche leggiadri della più pura femminilità, sospettata male e male giudicata se tento di varcarne i confini.
Quando alla fine l’incontro avviene, il resoconto che Gozzano ne fa per lettera è di un’ironia crudele:
Della cosa cattiva più nulla resta fuor che una dolcezza un po’ acre sulle labbra e sulle gengive, come quando si è troppo a lungo masticato la corolla di certe violette[…]quando l’altro giorno uscii dal vostro salotto con la prima impronta della vostra bocca sulla mia bocca, mi parve di aver profanato qualche cosa in noi[…]e quando scendeste disfatta nel vestito, nel cappello, nei capelli, e mi lasciaste solo in quella volgare vettura di piazza, io mi abbandonai estenuatissimo contro la spalliera, dove alla finezza del vostro profumo andava succedendo l’acredine del cuoio logoro[…]E nel ritorno (orribile!) verso la mia casa, sentivo il sangue irrompermi nelle vene percuotermi alla nuca come un maglio, e, col ritmo fragoroso dei vetri, risentivo sulla mia bocca, la crudeltà dei vostri canini.
Gozzano sottolinea sempre, quasi con disgusto, i dettagli concreti e impoetici della fisicità. Si rivelano anche qui l’istinto per il prosaico e il gusto del contrasto presenti nella sua poesia e di cui parla Montale. È necessario dunque cancellare il corpo di Amalia perfino nel ricordo, non solo nella vita quotidiana. Ti penso un po’ come una morta, le dice soddisfatto qualche tempo dopo. La distanza che pretende tra sé e Amalia gli rende possibili atteggiamenti di dubbio gusto. Le chiede di intercedere per lui presso i critici letterari, di essere informato sui pettegolezzi e le chiacchiere dei vari salotti che lei frequenta, vuole sentire il racconto dei suoi amori e sapere dei corteggiatori che la assediano. Mi scriverete e descriverete ogni cosa, si raccomanda.
Nell’epistolario troviamo spesso una situazione, un’osservazione, uno spunto che verranno successivamente rielaborati nella produzione poetica di Gozzano. La Guglielminetti ha probabilmente ispirato almeno in parte il poemetto didascalico incompiuto che Gozzano dedica alle farfalle. Qualcosa di lei rimane in alcuni versi, nel gesto di protesta che lui le attribuisce: mentre Guido parla di rinuncia e di abbandono del mondo, Amalia insofferente gli solletica il viso con un ramo d’ortica.
[…] e Voi
mal soffrendo il velen dell’argomento
con la mano inguantata il ciuffo a sommo
coglieste d’un ortica e mi premeste
sulla gota la fronda folgorante
tortuosamente.
Non ci interessa qui stabilire quanto l’atteggiamento di Gozzano sia condiviso dalla società e dalla cultura del suo tempo e quanto sia il frutto di una dimensione psicologica personale. Colpisce la sicurezza degli obiettivi, la forza con cui stabilisce le sue priorità, l’abilità disarmante di confessare subito i propri difetti, così da evitare ogni sforzo per emendarli. Rinvia ad Amalia le proprie contraddizioni come se fossero quelle di lei, che invece, paradossalmente, cerca nell’autorevolezza di Gozzano una forma di riconoscimento. Vorrei vedere me stessa chiaramente nel vostro intimo, conoscere con certezza quale immagine nuova si è forgiato di me il vostro pensiero. Nella stessa lettera gli racconta dell’incisione in rame e del ritratto a olio che le sta facendo un pittore e delle proprie perplessità:
L’incisione in rame[…]è quasi finita, ma per amore di tragicità mi fa un volto scarnito che accentua la sua aria fatale nell’ombra del cappello piumato dove si allargano gli occhi dolentemente. Devo bene avere quell’espressione in qualche momento[…]ora il pittore vuole tentare il capolavoro, col mio ritratto a olio, grande al vero. Sebbene – ve lo dico piano – io dubito molto del suo sogno, ho già posato ieri in abito a lungo strascico grigio perla, viola pallido e oro, scollato a rettangolo lungo e stretto che mi dà un’aria fra ieratica e maestosa d’imperatrice bizantina.
Ormai Amalia è consapevole che il suo crescente successo di pubblico ha avviato una sorta di travisamento della sua persona e che questo serve per vendere le sue opere. Fa spesso amare considerazioni sulla società che la circonda e sui pettegolezzi che la riguardano. Non ha paura della riprovazione sociale e neanche di infrangere le regole della buona società torinese. Cosa che, non senza ironia, le aveva fatto notare anche Gozzano: La nostra fraternità, amica mia, ha invece molti ostacoli, per quanto voi vi siate generosamente adoperata per debellare le convenienze.
Il tema della risata amara e dell’ironia sarcastica si fa sempre più presente nei suoi scritti, quasi un’ossessione. Particolarmente riuscito è il sonetto Un’amarezza (1907). L’amarezza è un sapore, un liquido che sale in gola gorgogliando, in un’onda lenta ed eguale che cancella ogni altra sensazione. La voce, uscendo dalla gola, esala questa amarezza, che da sapore diventa quasi odore, come il profumo cattivo di un fiore malato. La conclusione è inaspettata: l’amarezza diventa riso, un riso sarcastico, duro, senza liberazione e per questo divora l’anima.
Quell’amarezza fu senza parola:
ma l’assenzio ed il fiele ed il veleno,
tutto ciò ch’è più amaro, dal mio seno
saliva gorgogliando alla mia gola.
L’angoscia che nessun bene consola
più non mi urgeva. Sol d’amaro pieno
era il mio sangue, né veniva meno
in me quell’onda lenta eguale sola.
M’ammorbava il palato il suo sapore,
n’esalava il disgusto la mia voce,
come l’acredin di un malvagio fiore.
Pure, un mio riso ritrovai ancora:
quel riso di un amaro tanto atroce
che stride in bocca e l’anima divora.
Versi più banali, ma simili nel concetto di base, sono disseminati nella raccolta Le seduzioni.
L’amarezza è mescolata con il sorriso e con l’ironia, maschere che servono a proteggere una sensibilità troppo accesa e un orgoglio vivace.
E amara è pur la mia voce talvolta,
quasi vi tremi un riso di ironia,
più pungente a chi parla che a chi ascolta.
Come quando a un’amica si confida
qualche segreto di malinconia
e si ha paura che ella ne sorrida.
Infine Amalia prende le distanze pubblicamente da Gozzano, dalla sua poesia e dalla temperie culturale di cui era il rappresentante. Lo fa in un articolo su “La Stampa” nel 1912 intitolato Aridità sentimentale.
Questi piccoli uomini di gelo che ignorano che cosa sia tremore di commozione e angoscia di desiderio, che non sanno l’ansia acerba del dubbio, la corrodente asprezza della gelosia, la febbre mortale delle vane attese, il male divino dell’annientamento passionale, che mancano di ciò che dovrebbe essere uno degli elementi intellettuali più incitatori del desiderio, la curiosità […] e gli scrittori nostri svelano o lamentano o vantano in versi o in prosa la loro inettitudine alla sensibilità d’amore o vestono un sajo di candida umiltà tra francescana e pascoliana o parlano di cose semplici e di sentimenti miti, educando fiori d’orto o bruchi di crisalidi, solo concedendosi a oneste intermittenze la riposante letizia di qualche svago ancillare […].
Nella sezione La guarigione della raccolta L’insonne (1913) viene riletto l’incontro con Gozzano in chiave ironica, senza nessuno di quegli incantesimi che lo caricavano di significati vitali e profondi. Gozzano diventa il protagonista di una scena piuttosto ridicola, dove tutto il suo onesto rifiuto si rivela essere in fondo solo la paura di un coinvolgimento fisico ed emotivo.
Egli scrutò con faccia perplessa se un’arme o un veleno
non traessi dal seno fra sguardi di bieca minaccia.
Non soffocare di riso, mio cuore. Congiunse le dita,
– la sua voce smarrita tradiva un timore indeciso –
E s’atteggiò a fallace mitezza, a tristezza soave
supplicandomi grave di non conturbar la sua pace.
Cuore, mi soccorresti di tutto il tuo orgoglio più folle:
non fosti carne molle, ma fiamma di voce e di gesti.
Non fosti pianto umano, ma flutto di mar violento,
non femineo lamento, ma impeto d’arduo uragano.
E il vampo di flagello e l’odio onde il cuor mi era avvolto
mi plasmavano un volto funesto di demone bello.
Egli aveva paura. Retrocesse fino alle soglie,
come chi non raccoglie sfide e a rischi non s’avventura.
Allora un lungo riso mi venne squillando alla gola:
mi sentii calma, sola e libera all’improvviso.
Si sollevò l’inferma, senz’odio, guarita d’un tratto,
gli tese con franco atto di saluto la mano ferma.
E fu l’ultima volta[…]
Scrive Daniela Curti (1987)
Nel passaggio dalla poesia alla prosa la scrittrice si rivolge presumibilmente allo stesso pubblico che le aveva riservato il proprio consenso fino ad allora: c’è infatti in tutte le novelle un’ evidente pretesa di letterarietà in rapporto all’ambiente e ai personaggi descritti e in cui si sentono chiaramente suggestioni dannunziane[…]l’ambizioso tentativo dell’autrice di inserirsi nella tradizione letteraria aulica si scontra con le esigenze di un pubblico che chiede sì ambienti e personaggi raffinati in cui identificarsi, ma che pretende anche di accedere a quel mondo attraverso canali che non gli risultino eccessivamente difficoltosi e impegnativi. Proprio dall’esigenza di conciliare questa doppia richiesta deriverà l’ambivalenza di linguaggio di tutta la sua narrativa, in bilico fra tradizione letteraria alta e moduli narrativi bassi, con uno spostamento progressivo verso il prevalere deciso di questi ultimi.
Queste osservazioni sono indiscutibili e le difficoltà che incontra la Guglielminetti sono le stesse di chi cerca il successo di pubblico e la vendibilità del proprio prodotto sul mercato, questione complessa e difficile. Parecchie novelle non mancano però di interesse, soprattutto quando la Guglielminetti sceglie di fare dell’ironia proprio sul tema della seduzione e della sua artificiosa teatralità. Esemplare in questo senso il racconto Le violette tratto dalla raccolta I volti dell’amore del 1913.
Dopo due mesi di attivissima corrispondenza con Vittore Ivaldi, giovine romanziere di bella fama, la signora Isa Rengani, da tre anni e mezzo vedova di un illustre scienziato, si decise finalmente ad accettare quel convegno che molte lettere esasperate d’impaziente desiderio imploravano e sollecitavano. Ella non conosceva il letterato che attraverso i suoi libri e qualche imperfetto ritratto veduto a caso[…]né meglio lo conosceva ora.
La comunicazione fra la protagonista e Vittore Ivaldi è dominata dalla letteratura: l’epistolario apre all’esaltazione intellettuale e narcisistica dei protagonisti, venata di notevole presunzione. Dopo questa corrispondenza interessante, ma non rivelatrice, viene il momento dell’incontro reale e concreto. È lui a imporre tutte le regole, anche quelle dell’abbigliamento.
I miei occhi mortali coglieranno finalmente nella loro retina tesa l’immagine vostra, tanto e tanto a lungo sognata[…]ch’io presento e prevedo con una sicurezza mirabile. La vostra veste sarà semplice e scura come quella delle più dolci figurazioni dell’arte; le vostre mani esigue stringeranno un grande mazzo di violette pallide e sarà questo l’unico segno esteriore che distinguerà, per me solo, la vostra persona tra la folla ignota[…]scendete, vi prego, da una carrozza di signore sole perché io sappia che venite a me non profanata dallo sguardo cupido e desideroso di altri uomini.
Consapevolmente la Guglielminetti fa il verso alla prosa d’imitazione dannunziana, smontandola ironicamente nelle righe successive. Isa Rengani si trova sola davanti alla realtà concreta delle cose: non è stagione di violette pallide, il viaggio in treno si rivela fonte di disagio e di malessere.
L’ancor giovine autunno era ancora scarso di quei fiori invernali ed ella dovette appagarsi di un mazzo di fiori di serra piccole e scure, appena visibili sul panno azzurro cupo della lunga giacca di taglio inglese[…]inoltre lo scompartimento per signore sole era già quasi completo e donna Isa dovette sedere a disagio fra due bambine in lutto sepolte sotto due enormi cappelli a fungo che la costringevano all’immobilità[…]Ma nell’angolo presso lo sportello, un’altra signora la considerava invece con una curiosità appena dissimulata dalle convenienze. Era la marchesa Spinabelli, che ella conosceva soltanto di nome e per molta eco di mondana maldicenza[…]si narrava che la malattia l’aveva resa eccessivamente sensibile alle cortesie maschili, costringendo i congiunti a vigilarla più che la sua età non comportasse.
L’incontro con l’altra donna è un gioco di specchi: l’abito, l’atteggiamento, la forma del volto, una certa fama di libertà equivoca, tutto nell’altra sembra assomigliare a lei. Isa Rengani comincia a sentirsi preda dell’inquietudine.
Vittore Ivaldi non la conosceva di persona[…]egli non aveva voluto cercare la sua forma esteriore in nessun ritratto, perché la brutalità di un occhio meccanico non si frapponesse fra l’immagine reale e la figurazione ideale creata da lui e cara al suo spirito[…]e si proponeva di venirle incontro con la certezza di una divinazione, di tenderle la mano sicura in mezzo a una folla di sconosciuti[…]Donna Isa meditava conturbata su queste deliziose fantasie del suo amico[…]che le apparivano ora, sul punto di mutarsi in fredda realtà vissuta, terribilmente infide ed avventate.
Contrattempi banali, ma decisivi impediscono a Isa Rengani di scendere per prima dal treno e di farsi riconoscere subito come avrebbe voluto. È da sottolineare la concretezza del racconto nell’affollarsi delle circostanze che favoriranno l’equivoco finale.
Nella zona di luce di un lampione la sottile figura nera della Spinabelli si disegnava a netto rilievo presso quella di un giovine alto, glabro, dal profilo romanamente imperatorio[…]e Donna Isa Rengani, passo passo li raggiunse, sostò presso il gruppo, ignota all’uno, quasi ignota all’altra, sentendo d’un tratto la sua esaltata commozione cadere nel gelo improvviso di quella mistificazione grottesca. La Spinabelli le volgeva le spalle e non la vide; Vittore Ivaldi non la degnò di uno sguardo, e mentre ella lo considerava curiosa e sarcastica, meditando sulla potenza certa e mirabile della sua divinazione, scoperse finalmente la ragione più certa e decisiva del suo inganno. L’enorme volpe nera che avvolgeva le spalle della marchesina Spinabelli stringeva tra gli aguzzi incisivi belluini un enorme mazzo di pallide violette. Finte.
S’insinua qui il vero tema della novella, ripetuto come un’ossessione in molte altre, con gli stessi toni ironici: l’interscambiabilità dell’oggetto d’amore, perché la seduzione vive di travestimenti e di fantasticheria e significa depistare e fingere, per trasformare se stessi e il mondo in un incanto. Per Amalia questo gioco non consente mai una vera conoscenza interpersonale e non coincide mai con la fredda realtà vissuta. Il riconoscimento infatti non c’è stato, Vittore Ivaldi parlava e parla con se stesso, non con Isa, ma presumibilmente nemmeno con la Spinabelli. Le violette finte sono emblema e metafora del fallimento di ogni rapporto d’amore, segnato fin dall’inizio da un vizio d’origine, il necessario mascheramento della seduzione.
Anche se apparentemente ingorgata nei temi di un dannunzianesimo semplificato, nei momenti migliori la Guglielminetti rivela una certa lucidità d’analisi che la porta quasi alla parodia di certe scenografie decadenti, come per esempio nella novella Il sacro anello indù, tratta dalla raccolta Tipi bizzarri del 1930:
L’ appartamento a terreno, sempre immerso in discrete penombre crepuscolari, che ospitava da molti mesi le loro frequenti ore di stordita felicità, era qualche cosa di mezzo fra l’asta pubblica di oggetti di arte antica e il moderno bazar. Fausto Armani apparteneva a una nota famiglia di antiquari da poco ritiratasi dal commercio e aveva arredato coi residui dei magazzini paterni il suo misterioso rifugio d’amore. Ovunque venerabili e bizzarre sagome scolpite, intarsiate, corrose; reliquiari d’avorio ingiallito, quadri nebulosi, specchi verdastri su stoffe a ricami d’oro consunto, vasti cuscini rivestiti di vecchi piviali un po’ logori, buttati sul pavimento coperto di tappeti di Smirne[…]accanto al letto basso, coperto da una lucida stoffa liturgica, ammorbidita dal tempo e dall’uso, un millenario sarcofago di pietra grigia rinvenuto a Pompei, che suo padre non era mai riuscito a vendere[…]sopportava alcune preziose coppe umbre ridotte alla funzione di scatole per la cipria e diverse fiale del Quattrocento colme d’acqua di Colonia e di profumo di Coty.
Come si vede, tutto il kitsch rimasto invenduto serve a creare un’atmosfera grottesca, in cui l’amore affoga nelle sue miserie senza estetismi. È difficile, anche per certi dettagli, non pensare all’alcova di Andrea Sperelli.
Apparenze ingannevoli dominano la vita quotidiana delle persone e rovesciano nel paradosso le aspettative comuni, come nella novella Quando avevo un amante, tratta dalla raccolta omonima (1923). Il racconto si apre con i rimproveri di un marito alla moglie, colpevole di darsi alla vita mondana in modo eccessivo e si conclude con un colloquio risolutore fra amiche.
Mio marito Paolo afferma che pochi mesi or sono i miei gusti erano sobri e le mie abitudini tranquille, che la nostra casa era un modello di regolarità e io una moglie esemplare. Lo credo! Allora io avevo un amante e due o tre volte per settimana passavo quasi tutto il pomeriggio nella garḉonniere del mio amico e non mi occorrevano certo altre distrazioni[…]E rientravo ogni sera con una puntualità ammirevole, perché il mio amico teneva d’occhio l’orologio, affinché non destassi sospetti rientrando tardi. E mi vestivo di scuro, con semplicità e severità, perché egli esigeva che andando ai miei convegni d’amore passassi inosservata. Ora invece, poiché la coscienza è pura e la mia condotta irreprensibile, mi trattengo fuori quanto mi piace e mi vesto come voglio.
L’amante in questione si è sposato e si è stabilito lontano con la nuova famiglia. L’amica premurosa le comunica il suo imminente rientro in città con queste parole:
Mi ero proposta di non dirti nulla per non turbarti, credendoti ormai guarita e obliosa, ma poiché tuo marito esige che tu ritorni ad essere la moglie esemplare di allora, del tempo in cui avevi un amante, mi sento in diritto di avvertirti che il tuo felice passato può fra poco ricominciare. Eccoti la lettera di conferma.
Dal 1914 per una decina d’anni Amalia vive un intenso rapporto con Pitigrilli. Spigliato frequentatore di salotti alla moda, provvisto di una certa cultura, ama scandalizzare e sorprendere, soprattutto in campo sessuale. Proprio la sensazione che Amalia gli sia compagna solidale nei suoi atteggiamenti trasgressivi è il probabile fondamento del loro rapporto. Nel 1919 Pitigrilli pubblica una biografia di Amalia Guglielminetti, in cui il personaggio di femmina elegante, bella, sessualmente libera, nonostante la cultura, viene delineato senza sfumature. Amalia Guglielminetti è tipo, non persona e questa operazione, anche pubblicitaria, la vede consenziente.
I malati di impotentia coëundi dei giornali clericali, i moralisti di ambo i sessi, i gesuiti con o senza cotta, si scaraventarono contro questa poetessa che non chiudeva le imposte prima di accendere la veilleuse del suo boudoir…tutto il modo di pensare di questa stupida città di provincia, la regale Torino, la cui mentalità si riassume in tre ambienti: la Fiat, il Variété Maffei e la Madonna della Consolata.
Fra il 1920 e il 1922 Pitigrilli fa uscire i romanzi che ne decretano il successo come scrittore erotico-mondano, immagine di quello che Eco chiama il superuomo di massa. Fra essi c’è il romanzo Cocaina (1921), dedicato ad Amalia, definita istrice di velluto. Dopo il 1928 il rapporto degenera, fino alla svolta giudiziaria. Scrive Marziano Guglielminetti:
Una forte rivalità si instaura di nuovo fra Amalia e il suo amante e questa volta l’esito è giudiziario…il procedimento si concluderà solo nel 1931: quando Amalia, solo dopo essere stata riconosciuta inferma di mente, verrà prosciolta dall’accusa di aver falsificato lettere di Pitigrilli in suo possesso, sulle quali aveva aggiunto, simulando la calligrafia del mittente, affermazioni ingiuriose nei riguardi del duce. Si aggiunga che, ad istigarla, era stato Pietro Brandimarte, gerarca e picchiatore fascista, per sbarazzarsi di chi, da amico, gli era divenuto crudelmente ostile e, non ultimo, rivale in imprese giornalistiche.
Dopo vengono anni difficili per Amalia Guglielminetti, al limite del disfacimento fisico e mentale. Il ruolo della donna fatale, un classico degli stereotipi di genere, l’ha in parte aiutata a ottenere un certo successo in un mondo letterario ostile o comunque perplesso nei confronti della scrittura delle donne. Non riesce però a vivere questo ruolo con il distacco necessario, confonde pubblico e privato, affronta lo scontro con la società che la circonda in modo quasi autolesionista e il costo psicologico di questa continua sovraesposizione finisce per distruggerla. Le critiche nel frattempo si sono fatte feroci, gravemente offensive nei confronti del suo aspetto fisico, del suo abbigliamento, del suo atteggiarsi ormai fuori moda.
Già in altri anni non aveva mancato di avvertire su di sé lo scorrere lento della morte passeggera, il fastidio di una vita che addosso cade male, come un vestito tagliato per qualcun altro, l’imperfezione di una maschera di cui però è ormai impossibile fare a meno.
Talvolta anche si muore pur senza spezzar l’esistenza,
senz’urto alcuno, senza violenza, in lento torpore.
[…]
La vita mi sta addosso siccome una veste non mia
ch’io trascino per via con sdegno e deporre non posso.
[…]
[…] Riprendo il mio abito, adagio.
L’esistenza […] su me ricomponesi, quasi.
Muore a Torino il 4 dicembre del 1941 in seguito alle conseguenze di una caduta. Sulla lapide vuole che venga inciso uno dei suoi versi
Ella è pur sempre quella che va sola.
BOSSAGLIA R., BRAGGION A., GUGLIELMINETTI M. (1993), Dalla donna fatale alla donna emancipata. Iconografia femminile nell’età del Déco, Ilisso, Nuoro
CURTI D. (1987), Il linguaggio del racconto rosa: gli anni ’20 e oggi, in CECIONI C.G., DEL LUNGO CAMICIOTTI G. (a cura di), Lingua letteraria e lingua dei media nell’italiano contemporaneo, Le Monnier, Firenze
GUGLIELMINETTI M. (2007), La musa subalpina. Amalia e Guido, Pastonchi e Pitigrilli, Olschki, Firenze