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il sublime rovesciato: comico umorismo e affini

Copertina Numero 04

 aprile 2012

Saggi e rassegne

Barbara Ricci

Rammendare l’esistenza. L’ironia crepuscolare di Teresa Ubertis Gray

Corinna Teresa Ubertis (1877? -1964), moglie del giornalista e uomo politico Ezio Maria Gray, pubblicò con lo pseudonimo di Térésah alcuni volumi di poesie, numerose raccolte di novelle e parecchi romanzi. Scrisse anche per il teatro e molto per l’infanzia, con un successo notevole che l’accompagnò dai primi anni del Novecento fino agli anni Quaranta. Tranne qualche racconto nulla è stato ripubblicato in tempi recenti. Gli interventi critici sulla sua opera sono piuttosto rari e non sempre positivi.

La sua scrittura, in genere abbastanza curata, a volte rivela modalità sorprendenti, soprattutto nelle raccolte di novelle. Il tono generale ricorda vagamente la malinconia pacata e dimessa dei crepuscolari. Si incontrano anziane signore e beghine praticanti, figure femminili candide e sprovvedute al limite della sopportazione, contrapposte spesso a donne moderne tormentate e inconcludenti. Nelle prove migliori si esprime però con una sottile e lucida ironia, senza illusioni sul mondo, specialmente quando descrive alcuni caratteri, smitizzando ogni atteggiamento mistificante e artificioso.

Qualche esempio tratto dalla raccolta di novelle Il salotto verde (1913):

Le realtà più tenaci non sono fatte che d’inganno. […] Giulio l’amava assente, inafferrabile, perduta, l’amava come un dolore: come una morta sepolta nell’anima sua. E guai ai morti che risorgono! (Il salotto verde)

A lui piaceva moltissimo vedere il suo amico in qualche guaio. Gli era sinceramente affezionato e non avrebbe potuto durare in quell’affetto se Franco fosse stato sempre fortunato: l’amicizia ha le sue macchie, come il sole. (Addio per sempre)

Quella figliola scappata da casa […] l’appenava moltissimo, ma le dava anche una certa noia. La signora Luisa, creatura equilibrata, con i suoi piedi ben piantati nel piccolo rigagnolo famigliare che serpeggiava lungo le case, odorando di stalla, provava sempre con Gismonda il senso del capogiro, come se la costringessero a salire sulla giostra […].

Voleva essere felice: un’inezia! Il modo, il dove e il quando della sua felicità, le sfuggivano poi completamente. Era, la sua, un’aspirazione oscura di essere scontento; il malessere indefinibile di chi sente l’atmosfera appesantirglisi intorno e gli pare di naufragare senza scampo in uno stagno insidioso dove si affonda a poco a poco: ma non vede cielo più limpido, non conosce riva alla quale giovi approdare. Ella non era ricca, non era né intelligente né ribelle né disonesta; non era neppure una carne tormentata: la carne sa infrangere i gioghi. Era un’anima in pena e nulla più. Con un bagaglio così modesto, non si va lontani. (L’ordine)

Térésah però non si ferma qui. Racconta con ironia del disincanto che a volte si rifiuta di rimanere tale, perché la lucidità, quando si misura con il mondo, sfinisce chi si trova a praticarla. La felicità non esiste, ma per farne esistere almeno un surrogato, bisogna evitare di mettere a fuoco con chiarezza i contorni del reale. La felicità nasce sempre da un equivoco, da una mistificazione, da una visione offuscata delle cose che vengono provvidenzialmente mal comprese. La bontà non esiste, ma esiste il desiderio della bontà, il compiacimento dell’ideale, dell’azione positiva, anche se compiuta per caso, fortunosamente e senza merito. È l’artificio che usano i protagonisti delle novelle più riuscite, la strategia che serve a rammendare i buchi delle loro esistenze claudicanti.

Interventista convinta, vicina al marito che non conoscerà mai dubbi nella sua adesione al fascismo, Térésah riesce a parlare della guerra senza retorica con la sua particolare forma di ironia leggera.

Esemplare il racconto Piccola storia patriottica in Allegretto ma non troppo (1920). I protagonisti sono una coppia di droghieri benestanti, il signor Enrico e la signora Clementina.

La guerra? Sciocchezze!

Quando scoppiò (non pareva vero) ne furono un po’ meravigliati, un po’ scontenti, per la forma. In realtà non se ne occuparono. In che cosa li disturbava? Avevano dei figlioli? Avevano dei nipoti? No, nessuno. Non avevano altro che una bella casa, dei bei vigneti e una bella drogheria, che faceva affari d’oro anche con la guerra. […] Alla guerra, poi, a pensarci bene, come fenomeno sociale, rimanevano piuttosto contrari. Non molto. Tra il sì e il no. La gente malignò e disse: quando il grasso sale al cuore non c’è più rimedio. E la gente malignava senza logica. Infatti il grasso, quando sale al cuore, provoca disturbi seri. I disturbi seri fanno pensare alla morte. Il pensiero della morte rende più cara la vita, e che cosa c’è di meglio, per gustare la gioia di vivere, che immaginarsi con patetica nostalgia (se fossi giovane! ecc.) la morte eroica che si potrebbe, per avventura incontrare?

Il signor Enrico e la signora Clementina, per quanto tondi e rubicondi, non erano ancora minacciati dal grasso che sale al cuore. Godevano ottima salute. Non avevano mai un mal di testa, mai un mal di stomaco. […] C’era la guerra, sissignori: ma loro i giornali li passavano rapidamente, da gente che non ha tempo da perdere. […]

Quell’idea delle calze ai soldati, quando scoppiò improvvisamente, parve al signor Enrico il colmo dell’assurdità. La guerra, chi l’aveva decisa? Il Governo. E ci pensasse il Governo alle calze e al resto. […] Andassero pure al Comitato altri due bei calzerotti, usciti precisi precisi da quell’avanzo di lana delle sei paia di calze che la signora Clementina aveva fatto per il marito. Ci guadagnava anche l’ordine, perché non si è mai veduto che le persone assestate escano dalle cifre regolamentari: sei calzerotti, dodici colli, diciotto fazzoletti ecc.

Al Comitato la reazione davanti alle calze donate non è benevola: tutti sanno che i due commercianti guadagnano moltissimo e quella donazione appare ridicola. Ciononostante alle calze viene attaccato un bigliettino per il soldato che le riceverà «Da Enrico e Clementina Bianchi. Caro soldato, Dio ti benedica». Il soldato risponde con una letterina «ingenua, enfatica, sgrammaticata, eroica e piena di fervida rassegnazione, di dolorosa bontà». Il signor Enrico e sua moglie si persuadono di averla meritata e comincia per loro una nuova vita, un nuovo gustoso piacere.

D’altra parte, a quel soldatino così poetico, che si figura tante belle cose e promette mari e monti per due calzerotti di lana, bisogna pure rispondergli. Gli scriverà il signor Enrico cercando di mettersi all’unisono. Parlerà di patria, di eroi, di dovere, di sacrifizio…

Finirà col prenderci gusto. Il peggior passo, dice il proverbio, è quello dell’uscio: e chi non dà non sa. In certe avarizie quello che manca è l’abitudine di dare. Uno che non ha mai provato ad aiutare nessuno, non può dire se non nasconda nel suo intimo un fervente, un appassionato, un maniaco, un fanatico dell’assistenza…

Ora lui parla di «figli di Roma», di «razze latine», di «bandiera della civiltà». Lei si commuove quando sente i bambini dell’asilo cantare «Gioia bella». Sanno dov’è Trieste, che non confondono più con Trento, vogliono la guerra fino in fondo, e sono madrine tutti e due di soldati senza famiglia. La signora Clementina, come madrina, ha la specialità delle conserve; il signor Enrico, pare impossibile, quella delle lettere. Non sapeva d’essere grafomane.

Quante cose non sapevano! E tutto per un miserabile paio di calzerotti! Il più bello è che ci ingrassano. Mangiano meno, eppure ingrassano. È la felicità.

Conclusione: bisognerebbe essere un po’ indulgenti per il signor Enrico e per la signora Clementina. Ma il piccolo Comitato paesano (che si riunisce, è assodato, per fare il bene) ha i suoi difetti, scusabili: non perdona che lo si trascuri e non sdegna, se può, la mormorazione. Innocente, però, innocente. 
Parlano spesso di quel fervore così inopinato, di quella conversione rumorosa.

«Finita la guerra» dice uno «non sapranno più che cosa fare».

Dice un altro: «Si divertono».

Lo stesso meccanismo lucido di smascheramento fa da struttura alla novella Vico e Rosetta, nella raccolta Il salotto verde (1913). Anni di economie consentono a Dianora, impiegata, curva per anni sulle aride cifre della contabilità, di potersi permettere un mese di ferie al mare.

La vista del mare produsse in Dianora una impressione mediocre. Lo aveva troppo vagheggiato al tempo in cui Vico e lei si amavano perdutamente (credeva Dianora), e c’era l’idea di sposare e di andare a Genova oppure a Napoli in viaggio di nozze. Quando, invece di convolare a giuste nozze, Vico era partito per il Giappone dove si recava a rappresentare una casa di Milano per l’esportazione di tazze da tè, di ventagli e di stuzzicadenti, né dal Giappone aveva più dato segno di vita, Dianora, per abitudine, aveva seguitato a pensare al mare di Genova e di Napoli come si pensa a una chimera fatta di molte chimere; e quel pensiero composto non riusciva più a sdoppiarsi; tanto che adesso il mare, senza l’amore di Vico, le pareva un po’ di cobalto scuro sopra un po’ di cobalto chiaro, nient’altro. Scrisse però all’amica: «Il mare è cosa di paradiso…».

Dianora si trova molto bene nella sua calma vita di bagnante. Come vicino di tavola ha un signore assai distinto, non più giovane, taciturno e contegnoso «che le passava la senape per il lesso con speciale deferenza». Scambiano qualche frase e scoprono di vivere una sofferenza che li accomuna. Insieme cominciano lunghe conversazioni, insieme discorrono dei loro amori perduti, di Vico e di Rosetta, per ore e ore. Va sottolineato il sarcasmo sottile nella scelta dei nomi dei protagonisti, Febo e Dianora, evocanti atmosfere classiche e nobili.

«La nostalgia mi sembra un lusso per gente che non ha mai sofferto» disse Dianora con indulgenza. E chinò il capo, assumendo l’atteggiamento che l’aveva fatta soprannominare dalle amiche Qui giace. I capelli lisci e smorti le spiovevano sugli orecchi e sulla nuca come le fronde di un salice piangente. «Ah!» esclamò il signore distinto. E la sua faccia si illuminò. Egli fu subito un altro, come si è altre persone quando da una condizione di tedio profondo si passa repentinamente ad uno stato di gaudio, pieno, inatteso. «Lei capisce queste cose! Lei ha sofferto!»

«Oh sì!» fece Qui giace, quietamente.

«E il suo dolore è tranquillo? Il suo dolore ama parlare di sé? Il suo dolore sarebbe desolato di dimenticare?»

«Desolato di dimenticare» ripeté Qui giace, come un’eco.[…]

Febo mangiò volentieri; appariva molto contento. Dianora gli mise del ghiaccio nel vino, gli passò il sale, gli offerse una pera sbucciata, pietosamente. […] Si scambiavano occhiate lunghe, espressive, animate dalla più pura commiserazione. […] Dianora finì col conoscere Rosetta come se non avesse fatto mai altro, in vita sua, che conoscerla; Febo conobbe Vico un po’ meno e un po’ più romanzescamente, perché Dianora, non volendo che Rosetta, divenuta gran dama e poi defunta, offuscasse il prestigio di Vico, aveva avuto il gentile pensiero di trasformare il commesso viaggiatore in un giovine eccentrico che viaggiava per diporto.Tolto questo innocente abbellimento, Vico appariva in tutta la sua biondezza fatale, con le abitudini di eleganza, le grazie del linguaggio, i costumi e i capricci che aveva avuti; mentre Rosetta si profilava come in un quadro, bruna e ardita, profumata di ylang-ylang, colle scarpine da bambola e la passione per i tartufi, per i gelati, per lo sciampagna. […] Giunsero ad esaltarsi, esaltandoli; quando non ebbero più nulla da raccontare, inventarono: vissero il più strabiliante dei romanzi, attori e spettatori commossi, creduli, attenti. Se a uno d’essi balenava per un momento l’idea che l’altro esagerasse, si affrettava a ricacciarla indietro. Credendo ognuno a se stesso, si credevano a vicenda. E, quando non si credevano, si tolleravano. Il loro compiacimento giunse a tale da ripiombarli, dopo un periodo di ebbrezza revocatrice, in un abisso di rimpianti: si contemplavano l’uno e l’altra come si contempla l’eroe o l’eroina di un’avventura che fu raramente vissuta e che sarebbe stolto sperare si rinnovi.

La villeggiatura finisce ed entrambi devono rientrare nelle città d’origine. Non passa molto tempo che Febo invia per lettera a Dianora una regolare proposta di matrimonio, prontamente accettata da lei. La novella termina così:

Sposarono, e andarono molto d’accordo; non ebbero figli, ma in compenso tennero un gatto, tre canarini e due tortore. Furono insomma felici. E, insieme con varie piccole realtà, buone, pratiche, confortevoli, ebbero ancora per molti anni la loro parte di ideale, giacché Febo parlò sempre di Rosetta e Dianora parlò sempre di Vico.

I contemporanei descrivono Teresa Ubertis Gray come una signora composta ed elegante, «fisicamente quale a leggere le sue novelle, i suoi romanzi, i suoi versi ce la possiamo immaginare: bionda, fine, aristocratica, con un po’ di mestizia nel viso stanco e negli occhi cerulei» (C. Giachetti, Profili di scrittori, in “La fiera letteraria”, 1 maggio 1927).

Così se ne parla in un articolo apparso sull’”Almanacco Italiano” del 1922: «L’immagine che si profila nella mente di chi si lascia cullare dal fascino di questa sua arte soave è, come ben definì Luigi Tonelli, un’immagine di madonna fiorentina, alta e sottile, passeggiante solitaria e silenziosa lungo prode fiorite nel crepuscolo mattutino».

Questa iconografia delicata e sognante che sembra ignorare ogni qualità sottilmente ironica della sua scrittura, trova forse una sua corrispondenza nelle novelle che Térésah dedica all’infanzia. I bambini che descrive, spesso incompresi e in difficoltà, disorientati e sensibili, immersi dentro sogni trasparenti, fedeli alla parola data, sono più vicini a quella parte di ideale che gli adulti non conoscono e nel migliore dei casi si sforzano di inventare. Anche in questo caso Térésah riesce a evitare ogni retorica banale sull’infanzia, con un realismo minuto e un andamento a tratti onirico che si può leggere ancora senza fastidio.

La novella La cartolina illustrata, nella raccolta Il salotto verde (1913), comincia descrivendo Amedeo Rascella, giovane frivolo, egoista e vanesio. È di pessimo umore perché ha litigato con l’amante, quando riceve una lettera da un cugino, che lo prega di recarsi in stazione a Milano. Sono in arrivo due bambini, suoi lontani parenti, Maria e Giacomo Rascella. Deve aiutarli a cambiare treno, salendo su quello che parte per Roma. Vivevano a Londra, dove la madre, vedova, dava lezioni di italiano. Alla morte della madre erano stati accolti dagli zii, troppo poveri per tenerli ancora con loro. Si recano dai nonni, a Taranto. La reazione di Amedeo è irata, poco generosa e seccata. Malvolentieri e in ritardo si reca alla stazione.

Quando il treno arrivò, Deo vide subito una ragazzina, mingherlina, vestita di nero, scendere da uno scompartimento di terza classe e farsi porgere da un ragazzo uno, due, tre fagotti: erano fagotti solidi e rotondi, fatti con dei grembiuli da cucina e un pezzo di stoffa da mobili. In seguito fu la volta di una valigia di tela rossa e di un porta scialli ricamato a punto croce. […] Improvvisamente Deo si sentì il cuore pieno di quella bontà evocata dal cugino Bovio.

Amedeo Rascella si agita, trova un facchino, li porta al treno, compra delle costose riviste illustrate, diventa verboso.

I bambini non gli toglievano più gli occhi di dosso. Lo contemplavano ingenuamente, affascinati e felici […] Gli si palesò, in confuso, l’angoscia delle loro piccole anime sperdute, gettate in un gran deserto da più di trenta ore […] Non pensavano ad altro che a essere tutto orecchi per raccogliere le sue parole. E Deo si commosse. Si vide, bello, elegante, espansivo, perfino amorevole, con quei poveri bimbi sconosciuti. Aveva la sensazione curiosa di non essere più Deo e di guardare il suo nuovo io compiacersi in un’opera buona, un po’insueta. […] Finalmente, con dieci minuti di ritardo, il treno partiva. I bimbi salivano in fretta, chiudevano già gli sportelli. «Addio, addio! Buon viaggio, arrivate bene, scrivetemi… Amedeo Rascella, via ***, numero ***». Agitava il cappello, camminando a lato del treno che cominciava a muoversi: «Una cartolina, arrivando, per farmi sapere se avete fatto buon viaggio!»

Uscito dalla stazione, commosso dalla sua propria bontà, Amedeo Rascella torna subito a fare la vita di sempre. I bambini rimangono soli e durante il viaggio ricordano tutti i dettagli di quel signore ricco, bello, gentile ed elegante. Hanno pochi soldi e hanno fame. Fanno e rifanno i conti, a Napoli il treno si fermerà un’ora, sarà forse possibile comperare qualche cosa da mangiare.

«Ci sarebbe» disse Maria «la cartolina. Perché i nonni, sai…»

La mamma, quando parlava dei suoceri, diceva sempre: « Avari, avari!» Ed anche la zia era avara. […] « Non si può fare a meno. Se non ce l’avesse chiesta! Ma ce l’ha chiesta. È stata una gentilezza, anche quella.» […] A Napoli c’era un’ora di fermata. Nella sala d’aspetto di terza classe, piena zeppa di emigranti, Giacomo si occupò d’altro e si divertì. «Tu custodisci la roba» gli disse Maria. E sgusciò via rapidamente. Aveva fatto i suoi conti. Ma c’è un bisogno di bellezza che dorme, chiuso e ardente, in fondo allo spirito delle creature sensibili. Quando Maria, palpitante, chiese una cartolina, e il giornalaio scherzoso ripetè: «Una cartolina? Bella, eh? Di Napoli, col Vesuvio?» un impulso più forte di lei la costrinse a rispondere di sì. Infatti, non si poteva mandare una brutta cartolina postale, di quelle solite, al signor Amedeo Rascella che era stato così buono. Ne scelse una colorata, col mare, le paranzelle e la montagna di un rosa ardente, impennacchiata di carminio.

Maria compra anche un francobollo da dieci centesimi, e non da cinque, per poter scrivere di più, risolutamente. Rinuncia così alla sua parte di panini e di arance, i soldi le bastano solo per quella del fratello.

Il treno di Taranto andò verso la montagna rosea che, nella sera calante, accendeva il suo cuore come un faro. Poi il treno si addentrò fra i monti alti, spettrali. Giacomo dormiva già, lungo disteso, col portascialli sotto la testa ed i pugni stretti al mento. Il treno ritrovò l’aperto, Maria sentì ventarle in faccia l’alito fresco del mare. Cercò di vedere: era troppo buio. Allora non guardò più dal finestrino e rimase immobile nel suo cantuccio, cogli occhi aperti. Le ore passavano. Maria non poteva dormire; aveva fame; pensava. Pensò a tante cose tristi, alla mamma, a Londra, a quei nonni sconosciuti. Pensò anche alla cartolina. Era proprio bella. E arriverebbe il giorno dopo, e il signor Rascella direbbe: si sono ricordati.

Nella novella Duccio e l’uomo che vola, sempre nella raccolta Il salotto verde (1913), il protagonista ha cinque anni e mezzo e fa parte di una famiglia numerosa.

In casa le cose stanno così: Armida è la primogenita, Oreste, il primo maschio, Brunetto, il più intelligente, la Tosca, la più piccina: tutte ragioni incontestabili per essere qualche cosa. Duccio non ha ragioni e quindi non è niente. Sono fatti che accadono, a essere in molti in famiglia. E tuttavia, Duccio sarebbe quasi felice se tra i permessi che riceve ci fosse quello di stare sempre a guardare; guardare e fantasticare. Invece, quando s’incanta, […] uno lo tira di qua, uno lo manda di là, uno gli soffia negli occhi, uno gli dà un pizzicotto: bisogna svegliarlo. Anche Duccio vorrebbe svegliarsi: per sapere, per domandare… allora nessuno più gli risponde, e chi gli risponde lo beffa o lo inganna. Più della beffa, Duccio teme la bugia […] pure Duccio non ha ancora imparato a diffidare.

La domenica la famiglia va a vedere gli aviatori al Campo di Marte. Per Duccio è un’esperienza intensa, sconvolgente.

L’uomo dal berretto rosso riprese le grandi ali che adesso rombavano, fremebonde, come se fossero una folata di vento prigioniera. Partì, tra un palpito d’aria smossa. Salì, salì, salì. Fu come un nodo di nastri bianchi, come un fuscello bruno e sottile, come una piuma: fu un punto. Andava in cielo, spariva… gli occhi di Duccio si riempirono di lacrime: non vide più. […] L’uomo dal berretto rosso aveva atterrato: Duccio non vide la discesa, non udì l’applauso: piangeva sempre. Più tardi, quando si riebbe, il cielo era sgombro. Guardò in su, timorosamente: dov’era l’uomo? Non si vedeva. Era ancora su, era andato chissà dove! Lo attese. Tutto finì; la gente si mosse, sfollò; Duccio fu tirato per un braccio dall’Armida. Si andava via. […] Duccio si fece coraggio: «Se l’uomo discende stanotte e non trova nessuno?» chiese.

[…] Finiscono di cenare. […] Com’ è buio, stasera! Tutte le cose, in quell’oscurità, sembrano cessare di esistere.Il merlo nella sua gabbia è invisibile, il cielo non ha una stella. C’è soltanto quell’uomo solo, lassù, che ha cominciato la discesa chissà da quando, e non arriva mai. Quando toccherà terra? Chi ci sarà ad aspettarlo? Che cosa racconterà? E gli daranno da mangiare? … […] Giusto gli ha dato la sua parte di datteri e di biscotti che Duccio ha nascosta nel berretto con la parte avuta per sé. Dal berretto, i datteri e i biscotti sono passati segretamente nel panierino della merenda. E il panierino è appeso al muro, nell’andito, accanto all’uscio di casa… […] «Caro uomo» mormora Duccio «sei salito fino in cielo e ti hanno dimenticato!» Ha il cuore gonfio, amareggiato dal ricordo di quell’ingiustizia.

Duccio esce di nascosto e corre fuori, verso il Campo di Marte, seguendo la linea del tram, che trova e perde, lungo il cammino. Le luci fra le case lo guidano e finalmente raggiunge il posto che cercava. Per un attimo il rumore del treno lo illude, ecco l’aeroplano che scende! Poi si rifà il silenzio.

C’è qualche timido cri in mezzo al prato; i primi grilli si arrampicano lungo gli steli del trifoglio. C’è anche un odore acuto di acacia fresca che sventola grappoli bianchi, come bandiere. […] Duccio capisce d’essere solo, d’aver freddo, d’aver paura; capisce che ha fatto il viaggio per nulla, che l’uomo è morto o è già disceso, già andato via, e che, in ogni modo, non ha più bisogno di mangiare. Allora, adagio adagio, prende dal panierino un dattero, poi un altro, poi un altro: mangiare gli tiene compagnia. E mangia tutti i datteri e tutti i biscotti, tremando di freddo e di febbre […] le palpebre gli ricascano su quegli occhi che non ne possono più, la testa ciondola per un po’, di qua, di là; Duccio cade rovescioni e dorme. Dorme e sogna che tutti volano.

Bibliografia

Per la biografia e per le incertezze relative alla data di nascita e perfino al luogo, si rimanda al link dell’Enciclopedia Treccani ( http://www.treccani.it/enciclopedia/teresah/) e alla tesi di laurea di Roberta Terzi, La narrativa di Teresah (Univ. degli Studi del Piemonte Orientale A. Avogadro, Facoltà di Lettere e Filosofia, Corso di Laurea in Lettere Moderne, relatore: Giuseppe Zaccaria, anno 2003-2004, http://www.tesionline.it/default/tesi.asp?idt=12512).

Per la bibliografia si rimanda ancora alla tesi di laurea di Roberta Terzi e al link http://www.maldura.unipd.it/italianistica/ALI/ubertis.html, un progetto di ricerca dell’Università di Padova (http://www.maldura.unipd.it/italianistica/ALI/principale.html).

Carlo Emilio Gadda costruisce un ritratto di lei svagato e approssimativo, la considera solo come poetessa e fa la parodia dello pseudonimo allungandolo in Térésaaah. Lo si trova nell’Appendice I a L’incendio di via Keplero, nell’edizione Adelphi 2011 degli Accoppiamenti giudiziosi (pp.451-454).

Atmosfera crepuscolare e malinconica decadenza dominano invece il ricordo di Riccardo Rovere, un lontano parente che si recava da lei in visita quando era bambino: La vecchina abitava là (dicembre 2010, http://www.letteraturadimenticata.it/Teresah.htm).

Per la biografia del marito si rimanda al Dizionario Biografico degli Italiani (http://www.treccani.it/enciclopedia/ezio-maria-gray_%28Dizionario-Biografico%29/).