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il sublime rovesciato: comico umorismo e affini

Copertina Numero 11

 settembre 2015

Saggi e rassegne

Barbara Ricci

Teorie del comico: Giulio Ferroni

L’ultima fase di una forma storica è la sua commedia. Gli dei della Grecia,
che già una volta erano stati tragicamente feriti a morte nel Prometeo legato di Eschilo,
dovettero una seconda volta morire comicamente nei dialoghi di Luciano.
Perché questo corso della storia?
Perché l’umnaità si separi gioiosamente dal suo passato.
K.Marx, Introduzione alla Critica della filosofia del diritto di Hegel

Nel 1974 esce presso la casa editrice Bulzoni Il comico nelle teorie contemporanee di Giulio Ferroni. Nell’introduzione l’autore stabilisce subito le coordinate del saggio in questione: le teorie affrontate saranno quelle ritenute più significative, senza aspirare a rassegne complete; non si tratterà in nessun caso di definire un’essenza del comico, una struttura oggettiva valida come spiegazione per tutte le sue manifestazioni.

Quello che ci preme è invece estrarre dalle teorie e dalle metodologie contemporanee alcuni schemi d’uso del comico, alcune direttive sulla sua funzione nel contesto della comunicazione sociale e della circolazione ideologico-linguistica.

Detto questo, si procede a definire i tre termini della comunicazione comica:

a. soggetto che fa suscitare il comico (autore, attore, ecc.)
b. soggetto che ride (spettatore)
c. oggetto comico (vittima o materiale comico).

Il gioco delle combinazioni fra questi elementi può essere ampio e variegato e in questa intersezione di rapporti sta la comicità.

Il punto di partenza che viene prescelto è il saggio di Baudelaire del 1855, De l’essence du rire et généralement du comique dans les arts plastique. In questo testo è già presente la concezione del riso come elemento distruttivo, satanico e demoniaco, proprio dell’uomo che ha abbandonato l’innocenza primigenia ed è caduto nella temporalità della storia. La perdita dell’assoluto comporta però una prospettiva critica nei confronti di ogni metafisica, di ogni valore codificato, di ogni norma sociale rigidamente definita, ed è la prospettiva che è propria del comico. Baudelaire definisce comico assoluto la tensione vibrante con cui l’uomo caduto nella storia tenta di rimettersi in contatto con la dimensione infantile del gioco gratuito, oltre tutti i vincoli della razionalità corrente e della seria morale borghese del lavoro.

Il primo capitolo si intitola Il meccanico e la «vita»: Bergson e Pirandello.

Le rire di Henri Bergson (pubblicato già nel 1899 nei fascicoli della “Revue de Paris” e poi raccolto in volume l’anno successivo) tenta un recupero della funzione sociale del riso: il comico è lo schematismo, la rigidità, l’annullamento della tensione e della elasticità della vita e il riso è l’arma gioiosa della sua punizione.

Ci troviamo sempre di fronte a una metafisica del profondo, che – riconosca o meno la possibilità di calarsi nella società, e nonostante l’apertura di molti spunti moderni e originali – risale in definitiva a quelle strutture ideologiche tradizionali che postulano la preminenza di un primum originario, di una presenza pura, di un unicum spirituale, rispetto a cui la ripetizione, il meccanico, lo spostamento rappresentano il male e la morte. Se l’arte è il recupero di quel fondo di interiore trasparenza, di una natura allo stato di piena «purezza», e se il comico è maschera meccanica che, ripetendo, rende opaca ogni interiorità, è chiaro allora che il comico non può essere vera arte.

Il saggio di Luigi Pirandello su L’umorismo (apparso in volume nel 1908 e poi ristampato in una edizione ampliata nel 1920) condivide un nucleo ideologico molto affine alla filosofia bergsoniana e cioè la considerazione della vita come durata, flusso, coscienza, autenticità, presenza a sé. Pirandello identifica però nella contraddizione, nella disintegrazione della norma, nella scomposizione della forma, gli elementi comuni al comico e all’umorismo. Nelle opere migliori di Pirandello emerge che la continua scomposizione non porta al primigenio livello nascosto, alla pura vita, ma di solito a un’altra maschera, a un’altra fissazione, a un’altra forma.

Il secondo capitolo, Il riso e l’economia psichica, è dedicato a Freud. Nel 1905, con l’ampio saggio Der Witz und seine Beziehung zum Unbewussten, Freud concentrava la sua attenzione sul motto di spirito e sulla battuta arguta, il Witz. Più tardi integrava le sue riflessioni con il breve saggio su L’umorismo del 1927. In sintesi, il puro gioco di parole, anche solo acustico, la soddisfazione infantile per il riconoscimento e la ripetizione, l’allontanamento dalla logica, l’assurdo e il controsenso, sono forme di allentamento della tensione psichica necessaria per mantenere il controllo e la razionalità dei comportamenti quotidiani; in sostanza, per Freud il riso non condanna, ma alleggerisce e allevia la fatica del vivere sociale e delle sue convenzioni.

Freud si attiene al rilevamento di un processo psicologico, escludendo ogni preminenza di valori a priori, ogni scelta ontologica e metafisica. […] Si può ribadire che il piacere del comico e quello del Witz hanno il senso di aprire una sonda verso un piacere più profondo e nascosto, identificabile con la dimensione dell’infanzia: siano ascrivibili al preconscio o all’inconscio, essi sono in definitiva meccanismi di allusione e di designazione mascherata di una situazione originaria, di un piacere iniziale. […] Le diverse tecniche di produzione di senso (dal Witz, al comico, al gioco, al sogno, alla nevrosi, a tutte le diverse forme culturali ecc.) possono così essere viste, in ultima analisi, come manifestazioni della coazione a ripetere quell’irraggiungibile ed irripetibile luogo di felice quiete psichica. Ma in Al di là del principio del piacere questo luogo fondante di ogni piacere umano, in quanto stasi e immobilità assoluta, scopre il proprio corrispettivo nella morte: la pulsione di morte appare come la forza minacciosa che guida ogni espressione della psiche e della civiltà umana […]; si può allora concludere che il comico, come apertura di un rapporto con la non-produzione energetica, col risparmio psichico totale, si svela essere, in ultima istanza, un rapporto alla morte.

Il terzo capitolo Il riso, il gioco, la distruzione nelle avanguardie storiche è una carrellata fra futurismo, dadaismo e surrealismo, movimenti anche molto diversificati al loro interno e che fanno comunque dell’umorismo e del comico un vero e proprio metodo di intervento culturale, per una liberazione dal peso della tradizione e delle regole sociali.

Le provocazioni ludiche del futurismo italiano, il gioco che nega se stesso del dadaismo, le riflessioni di André Breton e di René Daumal sono passate rapidamente in rassegna, mentre a nostro avviso meritavano un maggiore approfondimento, forse un altro libro, in effetti.

Il quarto capitolo Il riso e lo spreco è tutto dedicato al pensiero di Georges Bataille. I testi di riferimento sono L’expérience intérieure (1943), Le coupable (1944), Sur Nietzsche (1945), Méthode de mèditation (1947), L’Alleluiah (1947). Per Bataille

sapere e conoscenza sono fatti storici, meccanismi di organizzazione e di produzione del lavoro umano, sempre decostruibili e smontabili, che non possono mai ambire a risolvere in se stessi l’universo; gli stessi concetti di assoluto e di essenza sono prodotti del lavoro e dell’accumulazione e un’effettiva uscita da essi sarà possibile rovesciandoli nello spreco e nella dilapidazione gratuita. […] In questo movimento distruttivo del pensiero (che non è un fatto puramente speculativo, ma chiama in causa l’intera vita sociale, i suoi stessi fondamenti antropologici) il riso assume un peso strategico di primo piano, tanto che riesce difficile districare le pagine che Bataille dedica alla teoria del riso e del comico dal contesto più ampio del suo discorso […]. In questa prospettiva Bataille ha come punto di riferimento fondamentale Nietzsche, di cui gli capita più volte di citare questo aforisma: «E falsa sia per noi ogni verità, che non sia stata accompagnata da una risata!». […] Il comico non è una proprietà di natura, inerente soltanto a oggetti di una sfera separata e marginale, ma deriva da una direzione d’uso, da una disposizione a fare il vuoto, a contestare e rovesciare tutto ciò che si pretende serio e carico di senso.

Bataille definisce riso minore, riso innocente quello che rafforza il senso comune e la piramide sociale, emarginando tutto quello che non si adegua o non è adeguato. Definisce riso maggiore quello che mette in discussione la stessa struttura sociale, svelandone l’insufficienza. Bataille ne individua alcune forme storiche nei riti di tipo carnevalesco, come i saturnali, le feste dei folli, le uccisioni di re, gli sprechi della festa, il rovesciamento dei ruoli. Il riso maggiore dovrebbe essere affine alla compenetrazione erotica che spezza la separatezza degli esseri, mentre in realtà il suo schema più diffuso è quello dello spettacolo.

Al termine del capitolo si fa riferimento agli sviluppi che avrebbe avuto il pensiero di Bataille: da una parte la filosofia del «gioco del mondo» che corre il rischio di riproporre schemi e ideologie di valori rovesciati, e dall’altra

tutto un lavoro «post-strutturalistico» di decostruzione ideologica, che fa leva sulla spinta, ricavata da Bataille, alla contestazione continua, all’eccedenza e alla liquidazione del discorso intellettuale, attraverso schemi legati alla riflessione sul comico, come quelli di simulacro, di differenza, di ripetizione (in primo piano per noi i nomi di Derrida, Foucault, Deleuze).

Il quinto capitolo si intitola La commedia e gli archetipi: Mauron e Frye.

Così Ferroni si esprime su questo metodo di lavoro:

Ma anche per chi, come noi, non creda in nessun modo alla persistenza assoluta, metastorica di alcunché (e tanto meno dei generi letterari), questo studio di modelli «costanti» può rivestire un interesse di primo piano: si tratta infatti di utilizzarli cambiandoli di segno, leggendo storicamente la loro stessa «persistenza». Questa cioè deve essere definita non come matrice di immodificabili archetipi, ma come uno schema storico di lunga durata prolungatosi nell’arco di molti secoli, in collegamento con strutture di dominio sociale e culturale che in ultima analisi sono rimaste costanti (al di là della stessa dialettica di avvicendamento delle classi al potere), ma che non per questo debbono restare eterne e continuare a durare.

Charles Mauron scrive Psychocritique du genre comique (1964) applicando i metodi della psicocritica in particolare sulle commedie di Molière e identifica immagini e situazioni presenti nel genere comico, luoghi comuni inconsci che arrivano da un sostrato condiviso. Nella commedia si assiste a una fantasia di trionfo comico del principio del piacere che si attua in tre direzioni: trionfo su un’angoscia edipico-prometeica, superamento di una angoscia narcisistica di abbandono oppure di un’angoscia per sottrazione di identità.

Northrop Frye scrive Anatomy of Criticism nel 1957 e formula una articolata teoria del simbolo archetipico, definito come modello letterario di convenzione e di comunicazione sociale. Per quanto riguarda il comico, egli ritiene che la base fondamentale di tutta la tradizione comica occidentale si possa far risalire a un modello teatrale, e cioè la commedia nuova come ci è stata trasmessa da Plauto e da Terenzio e che quindi è la prima e più integrale incarnazione dell’archetipo comico.

Il rovesciamento e la liberazione che offre la commedia non aprono per Frye universi effettivamente nuovi, ma si riducono a ribadire una integrazione già data anteriormente, a riconfermare un mito sociale (l’età dell’oro): il rifiuto e la condanna dei canoni di una vecchia società non significa una rottura con il pubblico e con i suoi valori di fondo, ma la formulazione di una nuova connivenza sociale, di un nuovo livello di accordo con lo stesso pubblico […]. Questa dialettica tra rovesciamento e integrazione è del resto quella reale con cui nel corso della tradizione si è svolto l’uso sociale del comico, il suo continuo riassorbimento nel cerchio dei valori costituiti […]. Non si tratta mai di una liberazione effettiva, ma di un movimento che conferma un sistema globale ben saldo e definito, che aggiunge una semplice tessera di colore all’interno del tranquillo equilibrio di una cultura umanistica.

L’ultimo capitolo Il carnevale e l’ambivalenza, è dedicato a Bachtin e al suo L’opera di FrancoisRabelais e la cultura popolare nel Medio Evo e nel Rinascimento (pubblicato nel 1965, ma risalente, nel suo impianto centrale, ad un periodo intorno al 1940). L’opera di Rabelais appare il punto di confluenza della cultura comica popolare: contro la cultura dominante seria, atemporale, unilaterale, immobile e assoluta esprime una visione del mondo integralmente alternativa. Il comico popolare è essenzialmente carnevalesco e festivo e si distingue nettamente dal comico borghese, pieno di risvolti amari, malinconici o satirici. Attraverso le strutture ricorrenti del gioco carnevalesco (incoronazione/scoronazione, l’immagine degli escrementi, il realismo grottesco centrato sul corpo umano) si sprigiona un’energia creatrice di storia, di vita collettiva attiva e solidale che può trasformarsi in liberazione.

Nel 2012 esce Il comico: forme e situazioni, Edizioni del Prisma. Il libro raccoglie una serie di saggi sul comico pubblicati dal 1977 al 2005. Così Giulio Ferroni nell’introduzione:

E certo, di fronte ai caratteri della comunicazione contemporanea e all’invasione dello sciocchezzaio mediatico, ogni pretesa di insistere sulla natura alternativa, contestativa o almeno «liberale» del comico rischia di affogare nella banalità, nella più corriva adesione alla chiacchiera culturale. Resta il fatto che lo sguardo alle forme e alle situazioni del comico che si sono date storicamente ci invita a prendere atto di una sua forza contraddittoria, ci invita a sfuggire, anche nell’interpretazione, a ogni posizione precostituita, a interrogare lo spostarsi e il complicarsi dei significati, nel loro incontro e scontro con il mondo: ci confronta con quella necessità della contraddizione che oggi lo spazio pubblico e l’industria culturale invitano a cancellare.

Le prime cinquanta pagine si intitolano Il tempo della teoria e passano in rassegna alcuni nodi interpretativi che erano rimasti in sospeso nel testo precedente. Il primo è il ruolo del ridicolo nei confronti del comico e la messa a fuoco della inevitabile spinta aggressiva e prevaricante che esiste nell’espressione comica.

La riflessione sul ridicolo è antica: nel Filebo di Platone, Socrate vede la radice del ridicolo nell’ignoranza di se stessi rispetto ai beni materiali, rispetto alle qualità fisiche e alle qualità dell’anima, cioè quando ci si illude sul proprio valore e sul proprio sapere. L’ignorante, per suscitare il riso, deve però essere privo di forza e di potere, altrimenti suscita odio e timore e non si ride più. Aristotele definisce l’ambito del ridicolo in modo più determinato, dentro confini che escludono le commistioni tra chi provoca il ridicolo e chi lo subisce. Il ridicolo è per Aristotele «qualche cosa come di sbagliato e deforme, senza essere però cagione di dolore e di danno», e la maschera comica «qualche cosa di brutto e come di stravolto, ma senza dolore».

Cicerone e Quintiliano elaborano teorie che sottolineano una o l’altra delle riflessioni di Platone e Aristotele nell’ottica di un discorso retorico efficace e convincente.

I trattatisti del Cinquecento rielaborano tutti gli spunti della tradizione precedente, come per esempio Giangiorgio Trissino, che nella Sesta divisione della Poetica fa sue le osservazioni di Cicerone sul ridicolo come «attesa delusa di un bene», e sottolinea che vi sono mali di cui è impossibile cogliere il ridicolo, perché il soggetto che ride avverte la possibilità di diventarne vittima a sua volta. Condizione fondamentale del ridicolo è dunque la netta separazione e la lontananza fra soggetto e oggetto, che non possono mescolarsi fra loro.

Ludovico Castelvetro, nelle pagine dedicate alla commedia del suo grande commento Poetica d’Aristotele volgarizzata e sposta (1570), distingue quattro maniere del riso: 1. incontro con persone e cose care (meccanismi della sorpresa e del riconoscimento) 2. gli inganni altrui (la beffa in tutte le sue varianti) 3.le malvagità dell’animo e le magagne del corpo 4. «le cose che pertengono a diletto carnale».

Il secondo paragrafo si intitola Ideologie del carnevale ed è una severa requisitoria sull’uso strumentale delle categorie carnevalesche negli anni Settanta in Italia.

Nella cultura contemporanea si sono dati numerosi casi di dura reazione alla marginalizzazione del comico, alla sua svalutazione da parte delle culture ufficiali: la negatività del comico è divenuta una bandiera rivoluzionaria per gran parte delle avanguardie storiche (specie per futurismo, dadaismo e surrealismo); mentre più vicino a noi, nell’Italia degli anni Settanta, si è avuta una larga ripresa dell’interesse per il comico […]. Tutti gli attributi tradizionalmente «negativi» del comico, i suoi legami con lo sconveniente, il turpe, l’osceno, il corporeo, il «basso» si sono di conseguenza presentati come modelli alternativi, espressioni di una liberazione capace di darsi attraverso la pratica ininterrotta del rovesciamento della logica del potere e del dominio. […] Sul piano del discorso «intellettuale», c’è stata una sorta di inflazione di formule retoriche, un disordinato espandersi di esaltazioni stereotipe (applicabili ai testi e ai comportamenti più diversi) della forza dissacrante dei fenomeni comici, della loro comunicazione col basso, con i desideri, con il profondo, con l’inconscio, con le pulsioni, con l’altro ecc. […] Si è insomma diffuso uno schematico linguaggio critico-teorico sul comico, con il suo bravo formulario per articoli, contributi, saggi, interventi a dibattiti, seminari, congressi. Da questo punto di vista il discorso sul comico non è stato che una delle tante componenti del chiacchiericcio culturale tuttora in atto, della inquietante estensione che ha assunto una retorica del discorso intellettuale-teorico, sulla cui carica di inessenzialità sarebbe forse il caso di riflettere più ampiamente […]. Al di là della complessa e affascinante problematica del lavoro di Bachtin, la vulgata bachtiniana presto diffusasi si è risolta nella produzione di un formulario «alternativo» […] Il principio del rovesciamento indicato da Bachtin come struttura essenziale della cultura carnevalesca, è diventato un meccanismo cucinabile in tutte le salse […] spesso insieme ad altre suggestioni in altri modi operanti nella vulgata intellettuale, in un pasticcio tra bataillano e pseudofreudiano […]; il carnevale diventava l’emblema di una utopia realizzata, di una trionfante rivitalizzazione di forze corporee e naturali oppresse dalla discriminante azione secolare della cultura «alta». […] Per altra via, i rovesciamenti che il carnevale opera nei confronti dei valori costituti si risolvono spesso non in una contestazione, ma in una riproduzione «scenica», rovesciata e controllata, dei rapporti di forza e di potere della vita sociale (riproduzione non sempre dissacrante, ma spesso ingannevolmente consacrante); e a parte i casi di diretta utilizzazione del carnevale da parte di regimi assolutistici e repressivi, saranno forse da prendere in considerazione le nuove ferree leggi di prevaricazione, i nuovi principi di esclusione che si pongono entro l’universo carnevalesco. […] Più che di schemi totalizzanti e di formule interpretative generali, c’è bisogno di verifiche di situazioni particolari e concrete.

La riflessione teorica prosegue con la rapida analisi dell’espressione il teatro del mondo, in particolare nell’elaborazione che ne fa Erasmo da Rotterdam e più tardi Giordano Bruno, l’Academico di nulla Academia detto il Fastidito, che pone in esergo al Candelaio il motto In tristitia hilaris, in hilaritate tristis:

All’errore e all’illusione di una stultitia che crede che il proprio teatro e le proprie maschere siano verità, la folle sapientia erasmiana oppone la coscienza piena del teatro e delle maschere, in un incessante rapporto dialettico tra la verità (sul cui definitivo valore Erasmo non nutre comunque dubbi) e l’apparenza (che resta insuperabile fondamento della vita sociale).

Riportando la riflessione erasmiana al mondo contemporaneo, si propone una forma di resistenza al simulacro (pura apparenza derealizzata, neutralità operazionale, segno combinatorio in un’assoluta riproducibiltà) e al gioco fantasmatico (identificare l’apparente come reale, rimanere subalterni alle figure, immagini, recitazioni esterne, praticare l’autoinganno narcisistico e l’aggressività individuale) che Ferroni chiama il metodo della maschera:

Come ha insegnato Erasmo, il metodo della maschera è il metodo della differenza, rifiuto dell’identificazione immediata dello spettacolo sociale e insieme coscienza dell’insuperabilità di quello stesso spettacolo. La capacità di spostarsi tra le due facce della maschera, di avvertire come dietro ogni cosa c’è sempre un’altra cosa, rivela razionalmente la natura illusoria dei fantasmi e decontestualizza la vuota neutralità del simulacro: se la vita sociale è spettacolo e relazione fra maschere, non si deve pretendere di distruggere lo spettacolo, né accettarne la riduzione a puro processo operazionale, ma occorre attraversare la sua contraddizione e la sua ambivalenza, renderlo al massimo cosciente di sé, eliminandone tutte le identificazioni illusorie, riducendo il peso dei residui violenti ed aggressivi, delle prevaricazioni comunque contrabbandate che ogni identificazione porta con sé. È l’ipotesi di una costituzione civile del mondo […]; per essa è allora fondamentale la conoscenza delle regole (non normative e meccaniche, ma dialettiche e contraddittorie) su cui uno spettacolo razionale si può fondare: regole teatrali e sociali, artificiali e fittizie, ma costruitesi attraverso un lungo cammino storico, e certamente meno costrittive e repressive di ogni furiosa rivendicazione di autenticità sostanziale, di ogni metafisica aspirazione all’origine o al fondo assoluto delle cose.

Gli stessi temi, declinati in modo diverso, ritornano nei paragrafi dedicati alla retorica, all’ironia e alla parodia con il loro utilizzo pervasivo nelle teorie del Novecento.

I restanti capitoli affrontano temi specifici: Baudelaire e la morale del giocattolo, eros e obliquità nella terza giornata del Decameron, il doppio senso erotico nei canti carnascialeschi fiorentini, il confronto fra Folengo e Rabelais, una rapida rassegna dei morti dal ridere in letteratura, le forme della comicità barocca, l’aggressiva contraddizione del comico del Belli.

Nel capitolo Le vie della satira nella tradizione italiana, pur nella difficoltà della definizione di un genere complesso e multiforme, si identificano tre modelli di satira: 1. la satira dell’oggetto codificato (contro particolari categorie, figure, tipi umani) 2. l’aggressione/invettiva rivolta verso obiettivi precisi, personaggi, gruppi sociali 3. la satira che riconduce al limite, cioè che propone una saggezza relativa, provvisoria, basata sul giusto mezzo. Le Satire di Ludovico Ariosto sono il grande e insuperato modello.

Nell’odierna diffusione del ridere a tutti i livelli, culturali e sociali, notevole rimane il rischio per il comico di «corrività, di sottoscrizione dell’esistente, di complicità con l’aggressore», l’ormai raggiunta impossibilità della satira e dell’ironia di cui parlava Adorno.

E che dire poi del potere che ride, ride sempre, nella smorfia aggressiva del perenne attore comico?

Concludiamo riportando un sonetto del Belli, analizzato da Ferroni, sul riso del papa (sonetto 1348, novembre 1834), icona e immagine del potere, crediamo di una certa attualità:

Le risate der Papa

Er Papa ride? Male, amico! È sseggno
C’a mmomenti er zu’ popolo ha da piaggne.
Le risatine de sto bbon padreggno
Pe nnoi fijjastri sòssempre compaggne.
Ste facciacce che pporteno er trireggno
S’assomijjeno tutte a le castaggne:
Bbelle de fora, eppoi, pe ddio de leggno,
Muffe de drento e ppiene de magaggne.
Er Papa ghiggna? Sce sò gguai per aria:
Tanto ppiù cch’er zu’ ride de sti tempi
Nun me pare una cosa nescessaria.
Fijji mii cari, state bbene attenti.
Sovrani in alegria sò bbrutti esempi.
Chi rride cosa fa? Mmostra li denti.

BIBLIOGRAFIA

FERRONI Giulio (1974), Il comico nelle teorie contemporanee, Bulzoni, Roma

FERRONI Giulio (2012), Il comico: forme e situazioni, Edizioni del Prisma, Catania