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il sublime rovesciato: comico umorismo e affini

Copertina Numero 08

 aprile 2014

Saggi e rassegne

Barbara Ricci

Un erudito scherzo. Paolo Bellezza e la follia di Alessandro Manzoni

Paolo Bellezza (1867- 1950; per i dettagli della biografia e della carriera si rimanda a FASANO 1970) diventa per caso un insigne accademico umanista, studioso di letterature straniere e appassionato cultore di Manzoni. Lo diventa per caso in seguito a un errore nell’iscrizione all’università: aveva scelto il Politecnico, si ritrova invece all’Accademia scientifico – letteraria. Decide di non cambiare, in omaggio a un destino che non si sente di contraddire e che lo ripagherà con notevoli successi. Così racconta (BELLEZZA 1914):

Compiuti gli studi liceali in collegio, senza tendenze o attitudini speciali per questa o quella disciplina – eccetto forse un po’ di simpatia per il greco – scelsi l’ingegneria, unicamente perché i miei desideravano d’avermi qui a Milano durante gli studi universitari. Mi reco dunque a questo Politecnico, che aveva ed ha tuttora sede in piazza Cavour, attraverso due cortili, infilo una scaletta in fondo al secondo, a destra, mi trovo davanti a una specie di segretario-bidello, presento le mie carte, e mi iscrivo. Dopo di che, scappo in campagna, e non ci penso più. A novembre ritorno e – a farla breve – mi trovo iscritto all’Accademia Scientifico-Letteraria! Com’era stato? Ecco qua. Questo Ateneo aveva allora la sua sede nello stesso palazzo del Politecnico (l’anno appresso fu traslocato in via Borgo-nuovo, dov’è tuttora), e per l’appunto nell’ala destra di esso: mentre al Politecnico si accedeva dallo scalone di sinistra. Per ignoranza, o per fretta, io avevo preso, invece di questo, la scaletta di destra. Si era così avverata in me alla lettera, salvo l’inversione dei termini, la sentenza di Casanova: «Le hasard, qui se mêle presque toujours de nous faire aller à gauche quand nous voulons aller a droite» (Memoires, vol. VI, p. 346), e così la società ebbe in me, invece di un indifferent ingegnere – per usare una voce inglese di cui non trovo un corrispondente in italiano -un indifferent professore. Il più bello è che, come se io fossi proprio predestinato al Politecnico, pochi anni dopo la laurea vi ero chiamato ad insegnarvi (appunto l’inglese), e vi insegno tuttora!

Genio e follia in Alessandro Manzoni, 1898

Sull’opera e sulla biografia di Manzoni, Paolo Bellezza scrive più di cinquecento saggi, ma uno dei tre a cui si dichiara più affezionato è Genio e follia di Alessandro Manzoni, una parodia dei metodi d’indagine lombrosiani e che costituì per l’epoca un ameno caso letterario.

Il libro fu infatti preso inaspettatamente sul serio da moltissimi lettori che credettero Bellezza un seguace di Lombroso. Perfino il principale bersaglio delle critiche, Cesare Lombroso appunto, all’inizio si congratulò con chi l’aveva voluto schernire, fraintendendo completamente lo spirito del testo. Lo «scherzo erudito» come Bellezza stesso lo definisce, poteva dirsi più che riuscito, in modo quasi imbarazzante.

Il libro esce nel 1898 a spese dell’autore, a Milano, presso di tipi di Cogliati, perché l’editore Hoepli, all’ultimo momento, non ha il coraggio di pubblicarlo. Sul frontespizio, subito sotto al titolo, una frase di Manzoni che dovrebbe già indirizzare i lettori: «La scienza è scienza; solo bisogna saperla adoperare.» (Promessi Sposi, c. XXXVII). E poi l’Avvertenza che però pochissimi sembrano aver letto, meno che mai Lombroso e i suoi seguaci:

AVVERTENZA

In questo scrittarello si vuol denunciare al tribunale del buon senso – per non dire del senso comune – non tanto le teorie lombrosiane, quanto le esagerazioni a cui i loro seguaci le hanno spinte ed il sistema, troppo spesso seguito in simili ricerche, dell’asserire e del conchiudere affrettatamente, sopra dati insufficienti e malsicuri.

Si porge insieme un ampio saggio delle notizie inesatte o false senz’altro, delle affermazioni erronee o gratuite, delle assurdità d’ogni maniera, che furono emesse, e che tuttora si ripetono, circa la persona e l’opera di Alessandro Manzoni.

E dopo l’Avvertenza cominciano i capitoli, un fiume in piena di informazioni dettagliate, di innumerevoli note, di interminabili citazioni, fornite con un tono apparentemente pieno di sussiego. Il lettore ne esce intontito e fatica a ricordare l’intento umoristico del testo, anche se ne è al corrente.

Il capo I, La famiglia, sommerge con le presunte prove di una follia ereditaria nella famiglia Manzoni, derivata soprattutto dal ramo Beccaria.

Il capo II, intitolato I caratteri fisici, prosegue allo stesso modo, incastonando fra le citazioni note come queste (pp. 24-25):

Ora la «vivacità grande dello sguardo» è, secondo il Lombroso, carattere frequente nei genii, come lo è ne’ cretini, ne’criminali e ne’pazzi. Un altro è la «fronte sfuggente». Questa pure – ricorda lo stesso Lombroso – aveva il Manzoni.

Il capo III, Paure, fobie, malinconie, idee suicide entra più decisamente nel merito, con un’ironia che sembrerebbe facile da identificare (p. 29):

Già Carlo Tenca lo [Manzoni] definiva «un’intelligenza che si schermisce quasi paurosa di sé medesima». Anche a questo proposito si trovano sparsi nelle biografie di lui alcuni particolari degni di menzione. Aveva paura del dentista…

Il capo IV, Sofferenze fisiche, nervosismo e il capo V, Misticismo, ascetismo, fanatismo, scrupoli religiosi, allucinazioni conducono con lo stesso metodo fino al capo VI, Iperestesia, impressionabilità, irascibilità, esaltazione, convulsioni, iperacusia; i termini tecnici producono una sensazione di ineluttabile e incontestabile veridicità (p. 72; p. 73):

Era affetto, come il Musset, il Flaubert, il Carlyle ed altri, di iperacusia […] La notte poi «era intollerantissimo dei rumori, ed è curioso che anche quando invecchiando, diventò un po’ duro d’orecchio, pure non perdette nemmeno allora quella sensibilità notturna».

Ad emianestesia incompleta in lui si potrebbe conchiudere da una notizia dello Stampa: dice che il Manzoni era solito a far scaldare il suo caffè sul camino, e «poco gli importava se contraesse l’odor del fumo, perché non aveva né il palato né l’olfatto molto fine.»

Il capo VII affronta un tema caro agli studiosi di Manzoni e si intitola Epilessia; così comincia (p. 74; poi p. 78):

«Gli epilettici, dopo gli idioti, sono i degenerati per eccellenza.» Così il Tonnini nel magistrale studio sopra le epilessie. Lo stretto rapporto, anzi l’identità fra l’epilessia e la pazzia morale e il genio, nonché la delinquenza, ebbe ampia dimostrazione dalla moderna scuola psichiatrica.

Qui si vogliono ricordare due sentenze, rispettivamente del Tonnini e del Lombroso, che ci sembrano trovare singolare illustrazione nel Manzoni. – «Le famose distrazioni degli uomini grandi assai spesso sono null’altro che assenze epilettiche». – «Nell’epilettico si riscontra ora smemoratezza, ora vivace memoria».

Il capo VIII e il capo IX si intitolano entrambi Paradossi e sono un lungo e ironico esempio di tutti i presunti paradossi manzoniani, minuziosamente corredati da note puntuali che documentano ogni affermazione; il capo X, Contraddizioni continua a mettere il lettore a dura prova, quasi soffocandolo nel dettagliato ciarpame che è costretto a visionare, se non proprio a leggere.

Il capo XI, Pigrizia, abulia, il capo XII, Follia del dubbio, idee fisse, monomanie e il capo XIII, Follia morale, nella messe mortifera di dati e nelle letture sterminate che si intuiscono dietro i lunghi, minuziosi elenchi, fanno nascere nel lettore una qualche comprensione per chi si è lasciato abbindolare da Paolo Bellezza, archivista pedante e spietato di ogni sciocchezza, anche minuscola. L’autore non mostra mai cedimenti di tono, neppure uno spiraglio da cui si possa liberare una qualche comicità diretta. La parodia, come l’ironia, è un codice e se non viene percepito e condiviso, non funziona.

Il capo XV, Bisticci (cioè i giochi di parole che Manzoni a quanto pare amava moltissimo) e il capo XVI, requenza dei versi nella prosa sono lunghi, aridi elenchi.

Più movimentato il capo XVII, Originalità e stranezze, dove per esempio si dice:

Quando (Manzoni) si gabellava per originale egli voleva più particolarmente alludere a certe peculiarità dell’indole sua, delle quali pure aveva coscienza (spesso i genii alienati, ha osservato il Lombroso, sono consci delle loro stranezze). Già fin da’ primi anni egli parve accorgersi che tutto non era normale nella compagine del proprio intelletto e se ne lagnava facetamente…

Gli stessi toni si incontrano nel capo XVIII, Altre caratteristiche, dove si trovano notazioni di questo genere (p. 218, poi p. 224):

[Secondo Lombroso] frequente ne’ genii, non meno che ne’ criminali e ne’ degenerati, è la longevità. Il Manzoni, come tutti sanno, visse circa 88 anni.

Comune alla delinquenza e alla degenerazione è «l’importanza esagerata data alle più futili cose». Valga per questo punto ciò che si disse circa la singolare compiacenza che il Manzoni aveva per certa scatola di tabacco ch’egli si vantava di saper aprire con una sola mano, rifiutandosi ad usarne di più comode […].

Nel capo XIX, Infantilismo, imbecillità, paranoia, mattoidismo, pazzia, ci si pone finalmente la domanda diretta (p. 243):

Era pazzo Alessandro Manzoni? Tra le preziose notizie fornite dai biografi e critici di lui, e delle quali il presente lavoro può dirsi lo stillato, non ci avviene purtroppo di trovare una risposta categoricamente affermativa, sebbene un critico contemporaneo del Cinque Maggio già dichiarasse: «Manzoni non farà mai altro che pazzie strampalate» […].

Ma la scienza si ride, come de’ sicuri dinieghi – già lo vedemmo – e così delle pietose dissimulazioni ed eufemie e ci apprende che la pazzia può rivelarsi in età avanzata, e che fra gli alienati, alcuni diventaron dementi negli ultimi giorni della loro carriera. Quest’ultima asserzione è del Lombroso, che ben avrebbe potuto citare il Manzoni fra i suoi esempi.

E infine le ultime righe della Conclusione, con l’immancabile citazione di Lombroso, sono una parodia che in filigrana rivendica, e non solo per Manzoni, la libertà dalla medicina psichiatrica, quando diventa una nomenclatura di degenerazioni presunte, inventate e catalogate quasi per giustificare il proprio statuto di scienza necessaria e autorevole:

Gli è che «se molte volte in veri genii pare che manchi l’anomalia, ciò può dipendere da ciò, che essa non venne cercata, o perché ne mancano i documenti. Chi avrebbe sospettato, senza le rivelazioni di qualche famigliare, un suicida recidivo in Cavour? Un epilettico in Richelieu?».

Venne ora la volta del Manzoni, né certo è questa l’ultima sorpresa che si possa attendere dalla psichiatria. Sebbene, una volta dimostrato che Alessandro Manzoni, il genio sano per eccellenza, come volgarmente si ritiene, fu per lo meno un degenerato, ci sembra pure intrinsecamente dimostrata, «al modo che si dimostra», la degenerazione di tutti gli altri uomini geniali, maggiori e minori, d’ogni classe, di ogni tempo, di ogni paese.

Alessandro Manzoni e le nuove dottrine psichiatriche (1898)

Il libro viene stampato e diffuso, ma le reazioni, come si diceva sopra, non furono quelle che ci si aspettava, tanto che Bellezza si sentì in dovere di scrivere un lungo articolo chiarificatore sulla “Rassegna nazionale”, intitolato Alessandro Manzoni e le nuove dottrine psichiatriche. È un testo che vale la pena di leggere, per la lucidità e il coraggio delle argomentazioni, per la spiegazione franca e diretta di come viene costruito a tavolino lo scherzo erudito ai danni della comunità letteraria nazionale.

Ci sono libri che fanno fortuna e meritano che se ne discorra per i loro meriti intrinseci; altri invece che, anche se mediocri e difettosi in se stessi, presentano pure dell’importanza per l’argomento che in essi, in qualunque maniera, viene trattato, e per le discussioni a cui danno motivo. A questa classe credo poter affermare che appartenga un mio recente scrittarello manzoniano, del quale, con benevola schiettezza, ha dato il mese scorso notizia l’esimio prof. P. Stoppani a’ lettori della Rassegna. E nella Rassegna ho scelto di dire appunto il mio pensiero: e perché nelle sue pagine ebbi già più volte l’onore di scrivere, e perché quella recensione è certo fra le migliori delle troppe che di quel mio scrittarello si fecero.

Invero, di mezzo a molte riserve e restrizioni, vi si esprime chiaramente il sospetto di ciò che è la realtà: esser quelle pagine una parodia delle moderne teorie psichiatriche. Così appunto l’intesero – d’un tratto e senza ambagi – il Fogazzaro, il Graf, il Rossi, il Morando ed altri valentuomini che si compiacquero di scrivermi in proposito. Ma altri critici non iscorsero «il velen dell’argomento», essi «miscontru’d every thing», per dirla collo Shakespeare (J. Caesar, V, 2), cioè press’a poco compreser tutto alla rovescia; e alcuni anzi colsero il destro per sciorinarmi in viso delle insolenze, che io perdonai, senza fare, a dir il vero, uno sforzo eroico di carità. […]

Ma se alle insolenze non si risponde, si ha il dovere di rispondere alle domande ragionevoli. E una è questa: quale fu, proprio, il vostro scopo nello scrivere quel libro? Ragionevole, dico, ma fino a un certo punto, perché avevo già risposto in anticipazione nell’Avvertenza. Lo scopo fu di denunciare le aberrazioni e le enormità d’una scuola che di giorno in giorno va diventando più invadente e sfrenata, e che trova pure ammiratori e seguaci nella gran folla de’malaccorti e de’semidotti.

Ora questa campagna, perché riuscisse efficace, doveva esser condotta in una maniera particolare.

Il dire «la teoria lombrosiana è fondamentalmente falsa», come pure s’avvisò di dire alcuno or non è molto, è come non dir nulla. L’additare alcune cantonate prese qua e colà da’ que’ signori è troppo poco. […]

Bisogna – pensai – battere un’altra via: rinunciare a prendere di fronte il nemico, e al tempo stesso armarsi colle sue medesime armi, insediarsi nel suo proprio campo. Per uscir di metafora, diventare interinalmente dei suoi, apprendere il suo linguaggio, applicare i suoi metodi e le sue teorie, e star poi a vedere – o meglio, far vedere – dove si vada a finire facendo questo con un soggetto scelto a proposito.

Mi fermai ben presto sopra Alessandro Manzoni, il tipo sano per eccellenza nella famiglia de’ grandi, eppure tale che si prestava mirabilmente all’assunto, in parte per le caratteristiche di lui come uomo e come scrittore, ma molto più per le tante corbellerie che sul suo conto furono messe fuori. Poiché è incontestato che più importante è uno scrittore, e maggiore è il numero delle inesattezze, degli errori, delle assurdità d’ogni maniera a cui egli dà occasione; se non altro per questo, che di lui si occupano moltissimi, e, ne’ moltissimi, gli inetti e i tristi non sono mai pochi.

Ed ecco a un tempo il modo ch’io tenni nel compilare quel lavoro, e la chiave di esso – per non aver trovata la quale avvenne che tanti pusilli rimanessero scandolezzati: il mio lavoro è compilato sopra i libri più erronei, più inesatti, più menzogneri che mi fu fatto di scovare sulla persona e sull’opera di Alessandro Manzoni.

Degli autori che cito per la parte letteraria, più di 120 (60 circa sono quelli che reco per la parte scientifica), parecchi sono stranieri, e per di più scrittorelli di riviste popolari e giornaletti di provincia, compilatori di manuali scolastici di letteratura, di dizionari biografici, di enciclopedie economiche. […]

Un’altra classe di fonti per necessità non attendibili, ma che appunto per ciò erano preziosi per me e a cui attinsi largamente, sono certe pappolate di clericali e temporalisti: articoli della Civiltà Cattolica, la triste Vita del Manzoni per cura di un sacerdote milanese, (dove tra l’altro si deplora che il governo austriaco non era abbastanza cattolico per avere la forza di combattere vittoriosamente la rivoluzione), ed altre scritture dello stesso conio, piene zeppe di accuse infami e di madornali errori. […]

La biografia a cui mi riporto più di frequente sono le Reminiscenze di Cesare Cantù: ebbene lo Stampa ha impiegato tutto il primo volume della sua opera, 500 pagine, a rettificare le inesattezze e gli errori che vi si contengono. […]

Senonché l’aver ammassato cattivi materiali per il mio edificio era qualcosa, ma non era tutto; bisognava architettarli alla peggio, e così feci. Talvolta recai la stessa testimonianza in due luoghi, contraddicendo ad essa o accentandola secondo mi facesse comodo; tal’altra troncai addirittura il testo, recandolo monco di quel tanto che avrebbe potuto infirmarne o diminuirne il valore e l’effetto. […]

Nel dossier da me elaborato per convincerlo di assenze, distrazioni e rilassamenti di attenzione, onde poter poi gabellarlo come epilettico, misi l’aneddoto del cinque regalatogli dalla maestra per la famosa analisi logica da lui fatta per la nipotina; ma tenni per me il sospetto che la colpa sia stata della maestra anziché dello scolaro; sospetto legittimo quando si guardi a che razza di criteri ancora oggi si informi in certe scuole l’operazione di quell’analisi che, per bizzarria dell’accidente, si chiama logica. […]

Su questi bei fondamenti, concludo vittoriosamente all’epilessia del Manzoni, sebbene lo Stampa, che da lui non si staccò mai per tanta parte di sua vita, la neghi risolutamente, e due soli fra tutti i biografi ne faccian parola, il Petrocchi e il De Leonardis, e l’uno e l’altro senza confortare la grave asserzione di alcuna testimonianza. […]

Un altro stimmate che io gli affibbiai è l’irritabilità che io allegramente dedussi da un emistichio del suo sonetto-ritratto, dove si chiama «all’ira presto»; e per ritenere che egli andava soggetto ad allucinazioni, mi bastò un’asserzione del De Gubernatis – formalmente smentita dallo Stampa – e quel passo dell’Imbonati, dove il giovine poeta dice, che tanto s’invaghì dei prischi sommi che gli sembrava di vederseli davanti e ragionar con loro; passo che, come si vede, non è nulla più di un luogo comune, fra i più triti e sfruttati di ogni tempo. […]

Che se alcuno ancora si pensasse ch’io abbia esagerato in quella mia parodia, gli dirò cosa che gli leverà di testa ogni dubbio. Appena pubblicato quel mio scherzo – posso dire? – erudito, e mentre appunto il Graf […] lo salutava come una «canzonatura riuscitissima», il Lombroso stesso, prendendolo come un serio contributo alle sue dottrine, se ne rallegrava, assicurando che il lavoro non poteva essere meglio fatto. Ora il professore torinese è certo uno degli intellettuali più chiari che noi abbiamo; se non giunse a comprendere ciò che ad altri riuscì perspicuo, è appunto perché il metodo della sua scuola era in quelle pagine troppo fedelmente riprodotto, per lasciar campo a sospetti. […]

C’è invece un altro italiano, pure vivente, a cui quella porta [del genio] è inesorabilmente barrata: è il maestro di musica Giuseppe Verdi. La sentenza, inappellabile, fu pronunciata dal Lombroso in persona: «Se vi hanno celebrità bene studiate senza evidenti caratteri epilettici – così egli scriveva solo qualche mese fa – sono solamente quelle che io chiamo di grandi ingegni, come Verdi». […]

Lasciando che i lettori giudichino da sé codesta sorte di procedimento scientifico, e in attesa che que’signori ci dicano una volta alla stregua di quali criteri essi giudichino detta genialità, io mi limito a chieder loro per il momento qual sia l’estremo o il quantitativo di malinconia e di pessimismo – indubbi segni d’anormalità, secondo loro – che si richiede per farne l’applicazione ne’singoli casi.

Perché, se qualche istante di prostrazione e di sconforto, se qualche frase scoraggiante nella vita e negli scritti di un uomo rispettivamente, bastasse all’uopo, io non so vedere quale di tutti i mortali, resterebbe fuori di quel nosocomio così fatto. […]

Quel ch’io ebbi di mira fu di illustrare praticamente le esagerazioni e le intemperanze a cui i troppo baldanzosi e inesperti discepoli di lui [Cesare Lombroso] sono trascorsi, e ch’egli – forse per troppa indulgenza di maestro – mai seppe raffrenare e smentire; e insieme le lacune e i punti deboli delle teorie che da lui emanano direttamente e che passano sotto il suo nome illustre. Teorie che noi -parlo qui, ne sono sicuro, in nome di molti – vorremmo scorgere, sfrondate da ogni dannosa superfetazione e sgravate della zavorra che ancora le impacciano, condensarsi e appurarsi dallo stato di nebulosa in cui per troppa parte ancora si trovano. Allora soltanto, dopo essersi raffinate attraverso il processo di una critica inesorabile e refrattaria a rimpianti, spogliata dalle ingombranti scorie e saggiando continuamente se stesse – allora soltanto potrà reclamare e ottenere quella considerazione scevra d’ogni men che rispettosa diffidenza o riserva, a cui la scienza ha sacro diritto.

Casaro, agosto 1898

Dopo questa conclusione, molto seria e condivisibile, Paolo Bellezza aggiunge in coda all’articolo alcune impietose osservazioni:

Di ritorno dalla campagna, dove stesi queste pagine, trovo ora qui, all’atto di licenziare le bozze, altre recensioni, gentilmente inviatemi dai rispettivi autori. […]

Egli [Cesare Lombroso] naturalmente piglia tutto per oro di coppella, senza esprimere il minimo dubbio circa le notizie allegate e le conseguenze che se ne traggono. La degenerazione manzoniana rimane per lui dimostrata «con una preziosa ricchezza di documentazioni». Solo – grazia sua! – fa qualche riserva circa l’imbecillità del Lombardo, la quale non gli sembra bastantemente provata.

Il fascicolo stesso dell’Archivio di psichiatria si apre con un lungo articolo (sotto cui ahimè si legge: continua) intitolato I criminali in A. Manzoni. Di questo non dirò altro – almeno per ora – se non che è una enormità – e uso una parola ancor troppo mite. Ma non s’accorge l’illustre direttore che, accogliendo simili sproloqui, egli va screditando il suo Archivio insieme alle teoriche di cui esso è l’organo? Ma non ha fra i redattori uno che sia, non dirò letterato di professione, ma solo studente liceale o dilettante di lettere?

Milano, 24 settembre 1898

Riportiamo la lettera del Lombroso (SCARPAT, 1951, p. 191, nota 6):

Egregio Signore,

Proprio in questo momento che la grandine dei pseudo-critici e pseudo-letterati che non sentono il soffio dell’aria moderna – ci tempesta da tutte le parti – mi è riuscito tanto più gradito il suo volume sul Manzoni che non poteva esser meglio fatto e che, con l’aria di volerci ammazzare almeno nella prefazione, ci dà invece l’ossigeno. Ella ha prevenuto un lavoro che io volevo fare per la biblioteca di Bocca, ma che non riuscii, mancando di letterati che capiscano le nostre idee.

Volevo farlo ultimamente io con la mia ragazza se Graf ci avesse aiutato, ma Graf ha mostrato una certa timidezza di suoi colleghi. Avrebbe però seguito lo stesso piano del suo [omissis]. Scriverò a lungo sul mio Archivio e se posso sul Corriere su questo libro [omissis].

Con cordiali saluti

Suo dev.mo C. Lombroso

Torino, 23-M-1898

Fra quelli che avevano capito lo scherzo c’era Arturo Graf che gli aveva scritto (SCARPAT, 1951, p.192, nota 6):

Chiarissimo Signore,

La ringrazio molto del dono del suo volume. La canzonatura è riuscitissima e per farla riuscire a quel modo non ci voleva meno che l’amplissima ed esattissima cognizione ch’ell’ha di tutto quanto appartiene al Manzoni. Credo ch’ella prenda di mira le esagerazioni e gli errori, ma riconosca ciò che può aver di buono l’indagine medica seriamente condotta. Purtroppo i più non la conducono saviamente. Avrà veduto ciò che del Leopardi giunge a dire il Sergi nella Nuova Antologia. [omissis].

Gradisca l’assicurazione della mia sincerissima stima e i miei saluti

Aff. A.Graf

Torino, 31-5-1898

D’Ancona aveva definito il testo «una parodia atroce» e Fogazzaro in una lettera gli aveva raccontato: «Ma sa che qualche troppo rapido lettore non s’era accorto della parodia e ha preso sul serio il prof. Bellezza per un lombrosiano o quasi? La cosa è avvenuta a persona intelligentissima e dottissima che io trassi d’errore. Questa persona, del resto, s’era molto divertita nella lettura e aveva molto ammirato» (SCARPAT, 1951, p.192)

Il Lombroso finalmente si rende conto dell’abbaglio e risponde. Bellezza risponde di nuovo nell’aprile del 1899, con una certa asprezza. L’intervento è più corto e meno articolato e si conclude così:

E finalmente, a chi parve quasi deplorare ch’io impiegassi tempo e fatica in ciò che non è altro se non uno scherzo e una parodia, ricorderò la sentenza manzoniana (Promessi Sposi, c. XIV) che metto qui come morale di tutta questa faccenda: «Negli errori, e massime negli errori di molti, ciò che è più interessante e più utile a osservarsi, mi pare che sia appunto la strada che hanno fatta, l’apparenza, i modi con cui han potuto entrar nelle menti, e dominarle».

È quello appunto ch’io intesi fare, additando i procedimenti speciosi quanto fallaci d’una scuola che, avendo i piedi nel vuoto e la testa nelle nuvole, non cessa di proclamarsi scientifica e positiva.

Bellezza era insoddisfatto della scarsa risonanza che ebbe il suo testo: «Se un libro di quel genere fosse uscito in un paese (per es. Inghilterra o Stati Uniti) dal livello culturale più alto del nostro, esso avrebbe levato grande scalpore, se ne sarebbero moltiplicate le edizioni, il nome dell’autore sarebbe divenuto per tutto famoso. In Italia non fece né caldo né freddo» (SCARPAT, 1951, p.191). Forse poi non immaginava il permanere del fraintendimento e dell’equivoco fra i suoi lettori.

Scrive Gianfranco Contini (1987, poi 1989, pp. 73-74):

Di primo acchito può venir fatto di pensare che i due scrittori milanesi [Manzoni e Gadda] sono anche congiunti dall’essere i più nevrotici scrittori d’Italia. Né sarà un caso che ci vengano incontro proprio dalla più grande città protoindustriale, poi industriale del paese: dove quasi si parificano, pur in condizioni talmente remote, le infelicità infantili del piccolo aristocratico e del medio borghese, a un po’ più di un secolo di intervallo. Della sua nevrosi Gadda non fa che discorrere, toccando il culmine con la Cognizione del dolore, e si avvale dell’equivalente culturale del suo tempo, cioè ovviamente della psicanalisi (che già dall’essere tanto vulgata è ferita nel suo valore terapeutico), applicandola al massimo della caricatura, salvo rettifica dei tecnici, in Eros e Priapo. Della sua, Manzoni parlava il minimo indispensabile. […]

Se Gadda è stato da sé e da altri traguardato al lume di Freud, a Manzoni è toccato un modesto Genio e follia di Alessandro Manzoni, titolo lombrosiano se mai ce ne fu, eppure pubblicato dall’editore per eccellenza dei cattolici detti liberali o rosminiani, il Cogliati, e per opera di un manzonista di quell’osservanza, Paolo Bellezza.

Un giudizio ambiguo, che fa intuire il probabile fraintendimento: il titolo di Bellezza era sicuramente lombrosiano e sappiamo perché; ma non ci fa meraviglia che il Cogliati lo abbia pubblicato, lui che appunto lombrosiano non era, come non lo era in nessun modo neanche Paolo Bellezza. Lo scherzo erudito continua nel tempo, malgrado le avvertenze e le chiarissime dichiarazioni di poetica.

In memoria di Paolo Bellezza

Nel 1951, a un anno dalla morte di Paolo Bellezza, nell’indifferenza generale, il giovane (allora) Giuseppe Scarpat gli dedica un commosso ricordo, con una valutazione equilibrata e intelligente della sua opera culturale:

[…] Paolo Bellezza è morto solo da un anno, dopo essere sopravvissuto a se stesso, e alla sua generazione. Nessun giornale lo ha ricordato, nemmeno il Corriere della Sera, nemmeno la Domenica del Corriere, dei quali era stato a lungo collaboratore. La colpa non è certo imputabile alla Redazione dei quotidiani o delle riviste: forse non si trovò chi del Bellezza avesse impressioni vive e chiare. Gli amici i coetanei gli ammiratori erano tutti scomparsi:amarezze della longeva età.

[…] E ci pare di fare cosa utile a ricordare l’attività del Bellezza alla nostra generazione. Seguendo le varie tappe della sua vita, vedremo animarsi uomini e idee di mezzo secolo fa, ritroveremo i nostri nonni e bisnonni, i maestri dei nostri maestri. E non sarà la nostra solamente opera di erudizione ma un grato dovere di pietas, verso un uomo che ha lavorato durante tutta la vita con onestà, intelligenza e abnegazione. Invece di affidarmi ai ricordi dei pochi congiunti o amici viventi, preferisco lasciare al Bellezza il racconto della sua vita. Egli aveva steso un particolareggiato curriculum sulla sua attività, sperando di poter essere accolto come ospite nella Casa di Riposo di Appiano Gentile. La Casa ospita persone illustri che si siano distinte in qualche ramo dello scibile, con pubblicazioni e opere pubbliche. Il Bellezza per raggiungere l’intento si trovò quindi costretto a dichiarare tutte le vittorie conseguite e le lodi tributategli: cosa che mai avrebbe fatto se una triste necessità (o forse lo spirito di indipendenza) non ve lo avesse spinto. Del resto lo scritto che gli era costato l’umiliazione di chiedere e quella più grande di parlare di sé e bene, restò nel cassetto, inutile. […]

Il giudizio della critica su un’opera prevalentemente di erudizione a distanza di tanti anni potrebbe essere facile: caduca è l’erudizione e facilmente si dimenticano e sfuggono le influenze esercitate dall’erudito: poco dell’erudito rimane di attuale e di utile, tanto più che quanto di nuovo egli scopre o illumina diventa in breve tempo patrimonio comune. Così idee e dati acquisiti con molta fatica e con molte ricerche diventano presto possesso pacifico della generazione seguente, la quale non sempre ha il tempo di ricercare i nomi ai quali dovrebbe essere grata.

Il curriculum di Paolo Bellezza è notevole e la bibliografia delle opere infinita. Negli ultimi paragrafi è tristissimo il sobrio racconto delle sue privazioni e della concreta miseria che accompagna i suoi ultimi anni, un tormento che non aveva meritato.

Allego i certificati (di nascita, di buona condotta ecc.) che mi trovo ad avere. Qualcuno sarà da aggiornare; lo farò, se occorrerà e se sarà accolta la presente mia domanda di ammissione nella Casa. In caso contrario – cioè se non fosse accettata per insufficienza di titoli, oppure per il fatto di non essere io in grado di pagare la retta che immagino mi sarà richiesta – io ho una calda preghiera, anzi una supplica da rivolgere a codesta Spett. Presidenza: che mi sia restituito tutto l’incartamento che ho allegato alla presente lettera, anzi, se fosse possibile, la lettera stessa, o copia di essa. Dico anche il motivo di tale vivissimo desiderio e confido che le V/Signorie Ill.me siano per trovarlo legittimo anche nel caso che io sia accettato: vorrei poterli lasciare ai miei congiunti, perché esse – e in particolare i piccoli (nipotini) – sappiano un giorno che non devono arrossir di me, che non ho disonorato io nome e la famiglia, che se sono morto in miseria dopo aver mangiato, negli ultimi giorni di mia vita, il pane della beneficenza e dell’accattonaggio della strada, non fu colpa mia, ma di eventi avversi, che non sono mai stato né un ignavo, né uno sciupone, né un vizioso, e che ho lavorato tutta la vita, fino allo stremo delle mie forze, meritandomi la stima che si deve ai galantuomini, e talvolta la lode ed il plauso.

Presento a codesta spett. Presidenza i più devoti ossequi.

Dev.mo Dr. Paolo Bellezza

Abitante in P. Piola I

(Città degli Studi)

Breve divagazione bibliografica

Per uno scherzo molto più recente, quello delle false teste di Modigliani (1984), ma che presenta qualche analogia con l’erudito scherzo di Paolo Bellezza, cfr. http://www.doppiozero.com/dossier/anniottanta/i-falsi-modigliani

La beffa riesce a mettere in ridicolo l’intero sistema italiano della gestione dei beni culturali, rappresentato dai responsabili delle sovrintendenze (come Dario Durbé) e dai più famosi critici d’arte (come Cesare Brandi e Giulio Carlo Argan). Entra trionfalmente nel novero degli scherzi più famosi e riusciti mai compiuti in Italia.

Per approfondire l’argomento, si può scaricare liberamente il PDF del saggio di Francesco Mangiapane Teste e testimonianze: i falsi Modigliani, pubblicato nel volume a cura di Luisa Scalabroni, Falso e falsi. Prospettive teoriche e proposte di analisi, ETS, Pisa 2011.

Per un sobrio e a tratti anche umoristico racconto delle nevrosi di Manzoni e della sua famiglia è consigliabile il libro di Natalia Ginzburg, La famiglia Manzoni (1983).

Così l’autrice: «Ho tentato di rimettere insieme la storia della famiglia Manzoni; volevo ricostruirla, ricomporla, allinearla ordinatamente nel tempo. Avevo delle lettere e dei libri. Non volevo esprimere commenti, ma limitarmi a una nuda e semplice successione di fatti. Volevo che i fatti parlassero da sé. Volevo che le lettere, accorate o fredde, cerimoniose o schiette, palesemente menzognere o indubitabilmente sincere, parlassero da sé […]. Non volevo che [Alessandro Manzoni] avesse più spazio degli altri; volevo che fosse visto di profilo e di scorcio, e mescolato in mezzo agli altri, confuso nel polverio della vita giornaliera. E tuttavia egli domina la scena; è il capo-famiglia; e gli altri certo non hanno la sua grandezza. E d’altronde egli appare più degli altri strano, tortuoso, complesso…».

Per una testimonianza diretta su Manzoni padre, di grande interesse è la pubblicazione del diario della figlia Matilde (1992), a cura di Cesare Garboli.

Ultima dei nove figli di Enrichetta Blondel, Matilde morì tisica nel 1856 a soli ventisei anni. Una vita breve e dolorosa, segnata dalla malattia, ma soprattutto dall’esperienza dell’abbandono. Durante i dieci anni passati in Toscana, Matilde vide il padre una sola volta.

Segnaliamo inoltre il recentissimo saggio di Paolo D’Angelo, Le nevrosi di Manzoni. Quando la storia uccise la poesia (2013), come prova del perdurare dell’interesse per certi temi.

Il secondo capitolo si intitola Psicopatologia della vita manzoniana.

Dopo aver citato il libro di Bellezza (pp. 29-31) con qualche perplessità, e dopo aver fatto un rapido epilogo delle nevrosi manzoniane con relativa bibliografia, così prosegue:

L’agorafobia di Manzoni, indubbiamente la più rilevante tra le sue patologie psichiche presenta una sintomatologia da manuale. Si tratta di una nevrosi d’ ansia fobica, un’agorafobia con attacchi di panico. Il soggetto prova ansia e tende ad evitare le situazioni nelle quali gli risulterebbe difficile o gli provocherebbe imbarazzo ad allontanarsi e nelle quali potrebbe essere soggetto a panico senza avere nessuno che possa porgergli aiuto. Per questo ha paura di avventurarsi negli spazi aperti e può farlo solo se trova qualcuno a cui appoggiarsi. […]

Ebbene, l’artista sembra soffrire di una patologia simile a quella di cui soffre l’uomo. Lo spazio aperto della creazione letteraria lo inquieta, lo angoscia, finisce per paralizzarlo. Tutto quello che si origina da una libera invenzione, che non può vantare un riscontro esatto nella realtà storica, gli pare immotivato, pericoloso, appunto un abisso nel quale si rischia di cadere. […]

Occorre allora trovare per la creazione letteraria un punto di appoggio, un riferimento che le tolga quell’inquietante aspetto di libertà assoluta e di gratuità. Questo punto di appoggio Manzoni lo cercherà e lo troverà nella storia. Ma, a poco a poco, la storia si prenderà tutto lo spazio, ridurrà sempre di più il campo percorribile dall’immaginazione. […]

La storia finirà per uccidere la letteratura.

BIBLIOGRAFIA

BELLEZZA Paolo (1898), Genio e follia di Alessandro Manzoni, Milano, Tip. Edit. L.F. Cogliati, a spese dell’Autore

BELLEZZA Paolo (1898), Alessandro Manzoni e le nuove dottrine psichiatriche, in “Rassegna nazionale”, ottobre, estratto

BELLEZZA Paolo (1899), Ancora il Manzoni e gli psichiatri, in “Rassegna nazionale”, aprile, estratto

BELLEZZA Paolo (1914), Carriere casuali. Contributo alla questione degli studi elettivi, in “Rivista Pedagogica”, VII, fasc. 2, febbraio-marzo, estratto

SCARPAT Giuseppe (1951), Paolo Bellezza 25.1.1867 – 10.4.1950. In memoriam, in “Lettere Italiane”, anno III, n. 4, ottobre-dicembre

(Giuseppe Scarpat (1920 –2008) docente di letteratura latina all’Università di Parma dal 1966 al 1991, organista di fama internazionale e appassionato biblista, è anche fondatore a Brescia della casa editrice Paideia.)

CONTINI Gianfranco (1989), Quarant’anni d’amicizia. Scritti su Carlo Emilio Gadda (1934-1988), Torino, Einaudi

GINZBURG Natalia (1983), La famiglia Manzoni, Torino, Einaudi

MANZONI Matilde (1992), Journal, a cura di Cesare Garboli, Milano, Adelphi

D’ANGELO Paolo (2013), Le nevrosi di Manzoni. Quando la storia uccise la poesia, Bologna, Il Mulino, 2013; è in rete l’estratto dell’ultimo capitolo del libro, Verità e finzione nella narrativa contemporanea,  a cui segue un vivace e articolato dibattito, 11/6/2013, http://www.leparoleelecose.it/?p=10816

Segnaliamo inoltre:

ERBANI Francesco, Fobie, ossessioni, panico. Paolo D’Angelo spiega in un libro la parabola creativa che seguì l’uscita dei Promessi sposi, “La Repubblica”, 13/05/2013 http://ilmiolibro.kataweb.it/booknews_dettaglio_recensione.asp?id_contenuto=3739922

BROGI Daniela, Su Paolo D’Angelo, Le nevrosi di Manzoni. Quando la storia uccise la poesia, http://www.laletteraturaenoi.it/index.php/interpretazione-e-noi/184-su-paolo-d-angelo,-le-nevrosi-di-manzoni-quando-la-storia-uccise-la-poesia.html

LI VIGNI Anna, L’errore di Manzoni, “Il Sole 24ore”, 23/6/2013 http://www.ilsole24ore.com/art/cultura/2013-06-23/lerrore-manzoni-084223.shtml?uuid=Ab3Dde7H

FASANO Pino (1970), Paolo Bellezza, in Dizionario Biografico degli Italiani, http://www.treccani.it/enciclopedia/paolo-bellezza_%28Dizionario-Biografico%29/.