La libertà inizia dall’ironia.
Victor Hugo
Luoghi, fatti e persone sono, in questo libro, reali. Non ho inventato niente: e ogni volta che, sulle tracce del mio vecchio costume di romanziera, inventavo, mi sentivo subito spinta a distruggere quanto avevo inventato. (GINZBURG 1986, p. 899)
Nell’Avvertenza a Lessico famigliare Natalia Ginzburg dichiara di aver scritto un libro completamente aderente alla realtà, con nomi veri, «perché indissolubili dalle persone vere», raccontando in prima persona soltanto ciò che ricordava: immagini curiose e battute ilari, filtrate dall’incanto della giovinezza, un punto di vista estraneo che, tuttavia, presta una tale attenzione all’aspetto uditivo da far sì che la chiave interpretativa del romanzo sia resa manifesta proprio nel titolo. L’intenzione è di «scrivere un libro che raccontasse delle persone che vivevano» attorno alla scrittrice (GINZBURG 1986, p. 899), a partire dall’infanzia sino al definitivo abbandono della dimora paterna, riportando quel lessico in grado di ricreare l’atmosfera «della gabbia di matti» della sua famiglia d’origine (PETRIGNANI 2018, p. 33), che per le sue intemperanze l’aveva soprannominata Maria Temporala.
Quando, nel tardo autunno, cominciai a scrivere, mi accorsi fin dalle prime pagine che avrei scritto non un piccolo racconto o saggio, ma un libro; perché sulla traccia di quelle frasi, parole e storie, m’era venuto l’impulso di ricercare e far vivere sia l’atmosfera in cui venivano pronunciate, sia le persone che usavano pronunciarle. (GINZBURG 1963)
Il padre della scrittrice è l’illustre biologo ebreo e docente universitario Giuseppe Levi, maestro di Rita Levi Montalcini, e soprannominato “Pom”, diminutivo di pomodoro; a lui la figlia riconosceva una grande capacità di penetrazione psicologica (GINZBURG 1986, p. 965). La madre è Lidia Tanzi, sorella di Drusilla (la “Mosca” di Eugenio Montale), amica di Filippo Turati e Anna Kuliscioff; i suoi fratelli sono Gino, Mario e Alberto che diventeranno esponenti della resistenza antifascista; sua sorella Paola si sposerà con Adriano Olivetti e sarà molto legata a Carlo Levi. Nelle case torinesi della famiglia si instaura un rapporto osmotico con la vivace vita culturale della città piemontese e vi si possono incontrare i più importanti rappresentanti della cultura italiana del tempo.
Natalia getta il suo sguardo marginale, da ultima nata, su questo caleidoscopio di mondi, popolato da parenti e da amici di famiglia, che lei riscoprirà narrativamente da adulta. La stesura del romanzo procede rapidamente: come ricorda Carlo Ginzburg, figlio della scrittrice: la madre scriveva il libro a mano, seduta sul divano, egli lo leggeva e insieme, a più riprese, scoppiavano a ridere (PFLUG 2004, p. 109).
L’estate passata, pensai che desideravo scrivere un breve racconto, o meglio un breve saggio, dove fossero enumerate, su un tenue filo di ricordi d’infanzia, le frasi, le parole e le storie che avevo nell’infanzia udito, che nelle mia infanzia usavano ripetere sempre: di simili frasi, parole e storie, ogni famiglia ha le sue proprie, e costituiscono il nucleo e il fondamento di ogni circolo familiare. (GINZBURG 1963)
La scrittrice intesse «una rete di parole, modi di dire, slogan, sentenze, tic verbali» (GINZBURG 1999, p. 131), battute che piacevolmente vibrano d’ironia e sembrano i frammenti di uno specchio che ci restituisce una realtà in costante divenire. Il dinamismo narrativo porta le battute a forgiare un lessico multiforme in grado di riflettere e far rivivere la vivacità del clan dei Levi, microcosmo familiare che ci fornisce un interessante spaccato del Novecento italiano. Quello che si delinea è un lessico che, ripetuto tra i congiunti, diviene il protagonista di questa opera, in cui si susseguono frasi insolite, stravaganti espressioni gergali, giochi linguistici, espressioni idiomatiche, battute sagaci, ridicoli epiteti, curiosi Witz, «scherzettini», buffe filastrocche, puerili componimenti, proposti e riproposti nel testo a breve distanza allo scopo di suscitare riso e complicità nel lettore, legato al testo da una sorta di un «cemento affettivo» (MONTALE 1963).
Abilmente la scrittrice abolisce la distanza tra pubblico e opera, addirittura tra la sua biografia e quella dei lettori, con una sorta di travaso biografico. Si tratta quasi di «un contagio di memorie altrui» (SCARPA 1999, p. 225), che avviene anche con la condivisione dell’ebraismo, solo apparentemente vissuto in sordina nel Lessico. Spesso la Ginzburg ha affermato che essere ebrei significa avere un’invisibile virgola nel sangue (IPPOLITO e SPITI 2017), elemento che non ha bisogno di essere conosciuto e documentato, cioè appoggiato a una tradizione, ma vissuto. Per la letterata si potrebbe definire «ebraitudine»: una condizione interiore che appartiene a chi non è completamente ebreo, una sensazione di sradicamento e di straniamento interiore. Tale percezione emerge anche nel brano intitolato Gli ebrei, in cui la scrittrice ricorda di essere giudea per parte di padre e di avere sempre vissuto la parte ebraica come la «più pesante e ingombrante» di sé, perché si manifesta in pensieri e gesti anche contro la sua volontà cosciente (GINZBURG 1987, p. 643). Tale doppia identità racchiude una dose di mistero, che nelle pagine si esprime sia con i Witz, sia negli spazi bianchi, tra una parola e l’altra, nelle pause vuote, nel “non detto”. Si tratta di un’omissione più o meno consapevole, che denuncia il fascino che l’ebraitudine esercita sulla letterata: un aspetto da sondare, proprio perché mimetizzato nell’indicibile.
L’argomento è introdotto ad apertura di romanzo in termini per così dire «invertiti», come scrive Magrini. Emma, la nonna paterna, «provava, per quelli che non erano ebrei, come lei, un ribrezzo, come per i gatti»: il sentimento di intolleranza della donna ribalta la percezione comune della persecuzione. La descrizione dell’avara giudea, che recita «ogni giorno le sue preghiere in ebraico, senza capirci niente perché non sapeva l’ebraico» (GINZBURG 1986, pp. 7-8) si contrappone alla condizione delle «squinzie» (le amiche ebree di gioventù di Natalia), che abitano con il loro padre in un ambiente molto modesto, trasudante di tradizioni giudaiche. Indifferenti alle leggi razziali, le sorelle vivono in aperto dissidio con la società, ed esibiscono un atteggiamento trasgressivo.
Le frequentazioni in casa Levi erano in gran parte costituite da persone di origine semita, come gli amici Terni, Colombo, Lopez, Olivetti, Coen e Foa: in questo ambiente ebraico o mezzo-ebraico viene utilizzato un linguaggio che, in parte segnato dalla specifica appartenenza, rappresenta un ulteriore collante familiare e sociale. Una caratteristica che emerge anche dalla particolare vibrazione caricaturale dell’ironia, che risuona nelle pagine. Come un magma fluido e inarrestabile, l’inchiostro dalla penna della Ginzburg registra il variegato frasario familiare con uno sguardo ricco di humour sulla vita della sua tribù. Vengono messe in primo piano soprattutto la rumorosa prorompenza fisica e morale del burbero padre e la soave gaiezza della gioia di vivere della madre (GARBOLI 1999, pp. V-IX).
Non desideravo molto soffermarmi sulle mie sensazioni infantili, e non l’ho fatto; e in genere, non avevo molta voglia di parlare di me. Desideravo invece parlare di tutti quelli che mi circondavano; ma non tanto in relazione a me, quanto in relazione ai miei genitori, i quali sono i veri protagonisti di questa storia. (GINZBURG 1963)
I protagonisti affiorano dalla pagina come veri e propri ritratti, con elementi che Cesare Segre definisce marionettistici, cioè fortemente caratterizzanti, poiché ogni figura viene tipizzata e associata a una particolare immagine; agli attributi individuali si sommano ridicoli epiteti, frasi o parole che i membri della famiglia si sono reciprocamente attribuiti.
Mia madre era milanese, ma di origine triestina anche lei; e d’altronde aveva sposato, con mio padre, anche molte espressioni triestine. Il milanese veniva a mescolarsi nel suo parlare, quando raccontava ricordi d’infanzia. (GINZBURG 1986, p. 16)
La particolare coloritura è legata anche al dialetto: triestino per lui con sempio, tanghero, potacci, sbrodeghezzi , babe, ciuciottare, sgarabazzi, sempiezzi e fufignezzi, milanese per lei conbaslettona, catramonassa e spussa. Il Lessico è, secondo Segre, un operatore mnesico, tanto efficace e innovativo da avere contribuito a far vincere all’autrice il premio Strega nel 1963.
Nonostante il riconoscimento e il gran successo editoriale, molti critici coevi hanno espresso riserve sull’opera e sulla sua scrittura che, con le sue scivolature sintattiche, rompe consapevolmente con la tradizione precedente. È un romanzo che porge un forte tributo a Marcel Proust, un lavoro a cui tuttavia secondo l’autrice non bisogna chiedere «nulla di più, né di meno, di quello che un romanzo può dare» (GINZBURG 1986, p. 899).
Due anni prima, nell’Introduzione de Le voci della sera (GINZBURG 1961), la scrittrice aveva già reso protagonista il linguaggio della borghesia e in quella occasione Italo Calvino ne aveva evidenziato l’aspetto innovativo rispetto alle pubblicazioni precedenti: non più un magnetofono linguistico, ma la registrazione di un lessico che voleva rendere il clima e l’atmosfera di quel mondo accusato di snobismi. Si tratta quasi di un’autodifesa sociale, poiché soprattutto le battute delle signore, pur rendendo la durezza di quell’ambiente, permettono di cogliere l’intonazione ironica della scrittrice verso il suo microcosmo di origine. Nel Lessico, come già segnalato, si coglie la medesima tendenza, che non arriva al cinismo, ma talvolta risulta crudele nella forza della sua sincerità. Tutto questo è alleggerito dalla vitalità ludica della lingua, basti pensare a Mario e al suo «Baco del calo del malo», ai buffi insulti paterni, ai neologismi. Una fortunata operazione che, amplificata, è arrivata con grande successo sino a tempi più recenti, ad esempio con il Grammelot di Dario Fo (FO 1969).
Il linguaggio del romanzo tende a depotenziare l’io, permettendo all’elemento ironico di assumere un particolare valore. La Ginzburg arriva fino alla caricatura, tipico modello dello humour ebraico, già presente nelle opere con tratto espressionistico di Carlo Michelstaedter, intellettuale e artista goriziano, che ama ritrarre passanti, amici e membri della sua famiglia. Con gesto rapido e scherzoso, il filosofo cerca di rendere l’inesprimibile, ciò che sfugge alla decodifica della lingua, poiché secondo lui, l’uomo non sa cogliere con le parole l’immediatezza e l’alterità della realtà composita, dove colori e forme non si possono esattamente riprodurre (cfr. MICHELSTAEDTER 1988). Quindi per una precisa narrazione servono strumenti adatti: come l’affettuosa arguzia della Ginzburg, che connota i ritratti della sua famiglia in modo icastico, similmente ai bambini descritti da Isaak Babel’ nel ciclo dei Racconti di Odessa. Lo scrittore – di cui nel 1954 la Ginzburg aveva segnalato L’armata a cavallo a Giulio Einaudi –, dotato di una forte originalità espressiva, permette ai piccoli antieroi dalle esistenze sgangherate di rivivere sulla carta grazie all’utilizzo della lingua colloquiale e di una notevole vitalità stilistica. Con schiettezza Babel’ ripercorre la vita della comunità ebraica della città ucraina riportando nel testo parole in yiddish , russo, ucraino, ebraico, turco, inglese e francese: elementi vivi di diverse componenti culturali, un mosaico etnico coeso che rispecchia la realtà multiforme di Odessa. Anche in questo romanzo il microcosmo del quartiere ebraico di Moldovanka è visto con gli occhi nostalgici dell’infanzia, esattamente come nel Lessico, un’epopea parodistica filtrata dall’ammirazione che solo un bimbo può nutrire per il mondo degli adulti.
Nel Lessico la Ginzburg cita un altro narratore di origini ebraiche, lo scrittore Israel Zangwill, autore di un classico della cultura ebraica in lingua inglese – che anche il padre della scrittrice aveva molto apprezzato –, I sognatori del ghetto. Sicuramente la sua opera più nota è Il re degli Schnorrer, romanzo sulla sublime maestria dell’arte dello “scrocco” di un ebreo sefardita, che con erudizione e furbizia approfitta dei ricchi della comunità (BIONDI 1979, p. 7). I romanzi degli scrittori yiddish brulicano di schnorrer, mendicanti professionisti che affollano anche la produzione letteraria dei fratelli Singer. Le chiavi interpretative delRe degli Schnorrer si trovano nell’opera di Sigmund Freud Il motto di spirito e la sua relazione con l’inconscio, in cui si ragiona su esempi tratti dalla tradizione ebraica. La condizione basilare per apprezzare il Witz, veicolo di istanze inconsce, è l’appartenenza allo stesso mondo culturale, per affinità di struttura psicologica tra chi conia il motto e chi lo ascolta. Esattamente come nel romanzo autobiografico della Ginzburg, in cui il pubblico diviene parte del clan familiare dei Levi.
Zangwill si dimostra molto abile nei dialoghi, esilaranti come nel Lessico; la faceta ironia sfocia in scoppiettante comicità: con una risata si superano i pregiudizi che, riprodotti sulla carta, perdono ogni ostilità. Ciò avviene con la bruttezza delle cugine di Giuseppe e di Leone o con l’antipatia provata nei confronti di Lola: in tutti i casi si tratta di menzogne, chiarite quando le persone s’incontrano, si conoscono e si parlano.
Alcuni aspetti linguistici, come prevedibile, sono legati alle origini ebraiche e Simon Levis Sullam (Levis Sullam 2003, p. 67) l’ha verificato nel suo studio sulla memoria linguistica degli ebrei in Italia tra Ottocento e Novecento. L’epiteto «negro» – usato spesso dal professor Levi per apostrofare atteggiamenti goffi, impacciati e timidi (GINZBURG 1986, p. 3) – indica l’inetto, lo schlemiel, chi si trova impreparato a gestire le emergenze. Charlie Chaplin è stato estremamente abile nel mettere in scena questa maschera, interpretando Charlot, soprattutto nella Febbre dell’oro. Ci sono altre osservazioni sui modi di dire dei Levi su «aschenaziti» e «sefarditi», su ebrei «mezzosangue», «belli o brutti»; ne derivano per traslato nomignoli e giochi linguistici, per mezzo dei quali si ironizza anche su un modo curioso della famiglia di dividere il mondo: «si faceva a quel tempo – scrive Natalia Ginzburg –, a casa nostra, questo gioco. […] Il gioco consisteva nel dividere la gente che si conosceva in minerali, animali e vegetali (GINZBURG 1986, p. 94).
Il linguaggio dalla Ginzburg è fortemente evocativo per la caratterizzazione dei personaggi e la capacità di ricordarli in famiglia grazie a qualche battuta spiritosa o a certi intercalari che li contraddistinguono. Parallelamente Edoardo Sanguineti, con il suo modo provocatorio di guardare le cose del mondo, ha dedicato nel 1972 una lirica al padre appena scomparso, scrivendo che in lui «sopravvivono / […] forse (mettendo tutto insieme: i tic, / i detti memorabili, i lapsus)» dieci frasi al massimo (SANGUINETI 2004, p. 71):
Ricordo che scrissi una poesia sulla morte di mio padre, dove dico che mio padre è stato un uomo straordinario. Ma tutti gli uomini, poi aggiungo, sono straordinari. E finisco dicendo: di un uomo se è fortunato, restano dieci frasi al massimo, compresi tic, lapsus e detti memorabili. E questo secondo me si lega al fatto di non avere stile. Per alcuni restano una decina di frasi, e per tutti gli altri più niente. Neppure la memoria della moglie, dei figli o dell’amante. (SANGUINETI 2006, p. 171)
Il padre di Natalia lascia un’eredità più cospicua, un repertorio esilarante di battute che evidenzia come, pur avendo un carattere iracondo ed essendo noto per le sfuriate in famiglia e in laboratorio, fosse un uomo divertente. Anche se molto impegnato con il lavoro all’Università, il professore non è stato solo un Homo faber ma anche un Homo ludens, che ha saputo ridere di sé, pure leggendo lo stesso romanzo in cui la figlia lo ha immortalato.
Mio padre… mio padre prima era molto preoccupato, diceva: «Non voglio che Natalia scriva un libro per gettare fango sulla nostra famiglia.» E poi però quando l’ha letto pare che si divertisse – rideva, si divertiva, sì. (GINZBURG 1999, p. 132)
In generale, ma sicuramente in maniera precipua nella famiglia Levi, il linguaggio è uno strumento creato dall’uomo per definire e nominare e, come scrive Johan Huizinga, attira le cose nel dominio dello spirito. Dietro ad ogni espressione dell’astratto c’è una metafora e in ogni metafora c’è un gioco di parole: l’umanità forgia la sua espressione per ciò che esiste, creando un secondo mondo immaginato accanto a quello della natura (HUIZINGA 1964). Nel Lessico il professor Levi domina la famiglia con i freudiani motti concettuali sofistici e le personali ironiche sentenze. Si tratta di scherzi che tradiscono qualcosa di serio: il ricorso al sofisma per mascherare la realtà in modo figurato conferisce carattere al motto di spirito (FREUD 1978, p. 96) e si accorda con la freudiana valorizzazione del riso come vendetta del represso, opposta alla funzione di repressione sociale che invece gli assegna Henri Bergson. Considerando che la narrazione delle vicende famigliari della Ginzburg scorre sullo sfondo insanguinato del nazifascismo – l’ascesa di Mussolini, le leggi razziali, la lotta antifascista e conseguentemente la prigionia del padre, la fuga oltre confine dei fratelli, la reclusione e l’uccisione del primo marito, Leone Ginzburg -, il dispiego di umorismo della letterata potrebbe germinare dal cinico pessimismo dovuto alla persecuzione degli ebrei.
Il Lessico «possiede una sua autonomia, fonte della sua particolare bellezza», poiché viene celebrato e cantato il ricordare in sé stesso (MAGRINI 1996, pp. 771-810), tuttavia, applicando i ragionamenti che David Foster Wallace ha chiarito nel discorso Questa è l’acqua (WALLACE 2009, pp. 143-155), si approda a un’ulteriore riflessione. Ognuno costruisce il significato di ciò che lo circonda in un mondo soggettivo, quindi bisognerebbe mettere in discussione certezze e convinzioni, perché risultano inevitabilmente egocentriche, considerate più urgenti e reali di quelle altrui. Ognuno interpreta le cose attraverso la lente del sé, osservando con maggiore attenzione ciò che accade dentro la sua testa piuttosto che quanto avviene davanti ai suoi occhi. Sentendosi al centro del mondo, s’interpretano gli ostacoli come offese personali. Imparare a pensare significa diventare meno arroganti, cambiando il punto di vista: la vera libertà è una maggiore attenzione e consapevolezza degli altri.
Natalia Ginzburg, celebrando la memoria e anticipando alcune tesi di Wallace, ha colto con consapevole ironia il punto di vista dei membri della sua famiglia, ricordandoci che questa è la vita e dietro a ciò che ci circonda c’è molto di più di ciò che sembra (WALLACE 2009, p. 155). In questo modo la scrittrice ha condiviso la constatazione di Primo Levi, che si è riconosciuto ebreo, per colpa delle leggi razziali. Davanti alla tragedia della Shoah, evento storico irreparabile per la sua vita, anche la scrittrice si è riappropriata della sua identità ebraica: «Eh, sì – scrive –, io credo di essermi sentita profondamente ebrea dopo lo sterminio» (GINZBURG 1999, p. 34).
Ripercorrendo le memorie infantili impresse nella mente e nella pelle, la Ginzburg ha ritrovato il suo senso di appartenenza all’ebraitudine, caratterizzata da un’inquietudine esistenziale e da un goffo spaesamento. Quest’ultimo era già stato notato dalla madre della scrittrice, che ribadiva come la figlia fosse poco espansiva e le desse «poco spago» (GINZBURG 1986, p. 980). Natalia da adolescente sentì la madre mentre parlava di lei e del «pathos ebraico» che la caratterizzava: in queste parole riconobbe la sua tristezza e si sentì sollevata (PFLUG 2004, p. 36).
Con la maturità questa condizione di perenne “straniera” è stata vissuta con maggiore naturalezza, tanto che la Ginzburg ha asserito: «riguardo all’essere ebrei, è sbagliato esserne avviliti, sbagliato gloriarsene» (GINZBURG 2001, p. 43). Una consapevolezza che le ha permesso di discernere la sua neshuma (anima) ebraica e di introdurre nel mondo delle Lettere un nuovo Lessico magistralmente controllato, che tratteggia la realtà sia con quanto è esplicitamente affermato, sia con ciò che rimane sottinteso: uno strumento profondamente vero e bonariamente irrisorio. La signora Emma aveva ragione perché anche la nipote, come il resto della famiglia, fa «bordello di tutto» (GINZBURG 1986, p. 907).
Approdare salvificamente al riso, come scrive Hermann Broch, rappresenta la distruzione del dolore del mondo (BROCH, 1962), quindi l’umorismo permette alla scrittrice di appianare le disuguaglianze e superare gli ostacoli. Sciogliendo i nodi delle storie e della Storia, la Ginzburg si lascia alle spalle Maria Temporala e dà forma all’inesprimibilità della vita.
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