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il sublime rovesciato: comico umorismo e affini

Copertina Numero 10

 aprile 2015

Segnalazioni

Barbetta Pietro

La follia rivisitata. Umori, demenze, isterie

Segnalato da Nazario Zambaldi

 

copertina del libro

[ Barbetta Pietro, La follia rivisitata. Umori, demenze, isterie, Mimesis, Milano 2014 ]

È vano il ragionamento di quel filosofo,
dal quale non venga curata nessuna sofferenza umana:
infatti, come la medicina non ha nessuna utilit
à se non espelle le malattie dal corpo,
così non l’ha nemmeno la filosofia, se non espelle il turbamento dall’anima.

Epicuro

Per una nuova farmacologia, note sul libro di Pietro Barbetta

Quando ho letto le note descrittive e biografiche in copertina, mi ha attirato dell’autore l’identificazione quale “coordinatore del Seminario permanente Bateson-Deleuze-Foucault”, concatenazione che già risuonava e mi chiariva esplicitandola la “rivisitazione” cui allude il titolo. Bateson, Deleuze, Foucault infatti sono accomunati da un’apertura alla follia considerata come risorsa vitale, possibilità di una prospettiva meno riduttiva nelle relazioni intra e interpersonali, ovvero ascolto dell’altro che in Italia ha trovato nell’esperienza di Basaglia, con le parole di Bobbio, l'”unica rivoluzione realizzata”.

Questo salto connettivo, per dichiarare fin dall’inizio quale ritengo sia una delle qualità e possibilità di valorizzazione del libro di Barbetta, insieme cercando di allontanare un possibile pericolo, almeno dal punto di vista di chi scrive: oggi, infatti, mentre sempre di più si parla e si scrive di matti, follia, manicomi, … una vera moda culturale, almeno in Italia, dall’altra sembra, anche tra le persone di buona volontà, si cerchi quasi una distanza rassicurante, si provi cioè una storicizzazione in chiave filantropica o umanitaria, ovvero si tenti di… circoscrivere. Per questo possiamo trarre insegnamento dal messaggio basagliano rivolto alla società in generale che – come gli approfondimenti teorici batesoniani, deleuziani o foucaultiani – prendono le mosse dalla fenomenologia della follia per esplicitarne il potenziale vitale e ne dichiara la rimozione operata dall’occidente razionalista.

In questo tentativo di integrazione questo libro potrebbe essere assai utile compendio, assolvere cioè nella scrittura alla missione filosofica di pharmacon (e, radicalizzando l’ambivalenza, di pharmakon): la scrittura tenta di essere “veleno” (l’altro significato, insieme a medicamento, di pharmakon) ovvero di percorrere la traccia cui alludeva Derrida ne La farmacia di Platone. La metalogia di Bateson, la deterritorializzazione di Deleuze, l’archeologia di Foucault, inventano infatti modi (stili, scritture, concetti, parole) per uscire dalla “cornice”, come in Grecia il pharmakos che veniva “sacrificato”, cacciato dalla città.

Nella scansione tra umori, demenze, isterie, il preludio scelto da Barbetta però non si colloca nel daimon socratico, che sospende l’ambivalenza (agendola tra scrittura e dialogo) fino al sacrificio (di Socrate) dentro la città, bensì secondo la matrice foucaultiana nella scissione moderna, quando di follia si comincia a parlare. Passando in rassegna quindi i nomi e i significati di quella che si configura via via come malattia nella modernità, troviamo la buona e cattiva follia in una serie di figure della letteratura: l’elogio di Erasmo, le follie di Tasso e Ariosto, ovvero il delirio del contesto (Orlando) e quello del codice (Tasso), schizofrenia e paranoia “gemelle nel discorso psichiatrico del Novecento”, l’eccesso grottesco di Rabelais, gli eroici furori di Bruno nelle tre forme ferina, animale, ordinata, quindi alcune considerazioni intorno a Don Chisciotte e Amleto, auspicati interlocutori degli odierni psichiatri.

Umori – L’ordine per il cittadino della polis è immanente alla vita della città, è il kosmos in cui si specchia e che la scuola ippocratica organizza in umori. La malinconia, la bile nera, attraversa i vari contesti tra… genio e follia. Barbetta si sofferma su Anatomia della Malinconia di Robert Burton (1577 – 1640) in cui il pastore anglicano e bibliotecario di Oxford si firma Democritus Junior richiamandosi alle Lettere di Ippocrate, in cui il filosofo era saggio, ma folle per i cittadini di Abdera. Burton si rivolge al lettore presentandosi come un buffone che pretende di usurpare il nome altrui: la malinconia è la condizione del melanconico, io sono tale. Experto crede Roberto! Burton è il primo paziente che racconta la propria malattia agli altri, parlando della follia in prima e terza persona, come nel caso del magistrato Schreber, il cui delirio era caro, dopo Freud, a Lacan e Deleuze (e più avanti trattato da Barbetta), o dello scrittore schizofrenico Louis Wolfson cui l’autore dedica i suoi recenti studi.

Dopo accidiosi e lunatici, troviamo la teoria degli affetti di Spinoza, per cui il conatus pone il centro d’interesse nelle relazioni: gli affetti sono esperienze dinamiche che nascono a partire dall’incontro, nella relazione sociale. Attraverso Spinoza ci troviamo in uno “spinozismo malposto” dalla psicologia biologica contemporanea, che sostituisce all’incontro la variazione biochimica, ovvero privilegia l’emozione come variazione neurobiologica rispetto al sentimento. Di qui allo schematismo del DSM a uso degli psichiatri odierni il passo è abbastanza breve: nella Scala di Funzionamento Globale la persona in piena salute è il “Codice 100 – Funzionamento superiore alla norma in un ampio spettro di attività, i problemi della vita non sembrano mai sfuggire di mano, è ricercato dagli altri per le sue numerose qualità positive. Nessun sintomo.” Il paradigma, senza cenni a capacità affettive, propensione alla solidarietà, empatia, amore… è il “funzionamento”, rappresentato, a detta dell’autore, da Robocop! Per chi trovava laconica la definizione del sano di mente di Freud, il borghese che “ama e lavora”, utili le perlustrazioni nella terapia sistemica, nella depressione vera o presunta di casalinghe e omosessuali, fino ad arrivare alla “depressione pubblicitaria”, ove il marketing dei farmaci promette La scomparsa della tristezza. E non si tratta di un film di Woody Allen.

Demenze – La rassegna prosegue nella parte “privativa”, della “mancanza di mente”, riconoscendo il delirio come rottura del canone aristotelico, logico, identitario. La dementia praecox, nome con cui all’inizio Bleuler e ancora a volte si chiama la schizofrenia, introduce l’ampia letteratura da Nietzsche a Hölderlin, e gli interpreti, da Jakobson a Bateson, sempre nella convinzione che “la psicoterapia è ascolto dei sintomi, non repressione”. Ma la sanitarizzazione pervasiva vincente oggi attraversa capisaldi e etichette, il famigerato QI, l’oligofrenia di cui l’autore evidenzia insieme all’etimologia di “poca mente” anche quella di “mancanza d’aria” (frenes indica tanto il cervello che il diaframma), l’autismo tra interpretazioni neurologiche, filosofiche e inclusive, fino ad Alzheimer, la vicenda toccante del medico che diviene metafora sul senso della cura, ovvero sugli ambienti di vita, in generale. L’autore, riferendosi a un’esperienza teatrale di cui è spettatore e all’accoglienza fredda del personale commenta: “Alois Alzheimer non avrebbe reagito così, avrebbe compreso che la sfida della malattia non sta nell’impossibilità di guarirla, che tutto il resto è contenimento: mangiare, dormire, prendere le medicine”. Ideologico, qualcuno direbbe.

Isterie – L’ultima parte del testo, che rimanda ad altri lavori dell’autore, descrive “l’isteria per differenze”: dalla diade isteria-ipocondria, ai casi clinici e all’anoressia. La conclusione è “archeologica”, risalendo alle suggestioni, si potrebbe dire, in cui l’isteria viene scoperta. E con giusto scetticismo si chiude la rassegna di Barbetta, condividendo una prospettiva che era di Georges Didi Huberman nel suo L’invenzione dell’isteria, ove Charcot viene “giocato” dall’isterica Augustine – e con esso la scienza psichiatrica – proprio nella mirabile invenzione estetica del catalogo di fotografie che ne documentano i sintomi: “l’isterica, aderendo alle pratiche ipnotiche, costringe l’uomo di medicina a violare il codice ippocratico”, infatti, come sottolinea Barbetta, “chi subisce il processo ipnotico, per il solo fatto di subirlo, è isterico. Il vero suggestionato è proprio lui, Charcot”.

In una prospettiva in cui si recuperi l’ambivalenza del pharmakon, la malattia – sintomo – è anche cura. L’occidente operando la scissione antropologica tra anima e corpo e identificando prevalentemente in quest’ultimo – bios separato – il pharmakon, la malattia da espellere dalla “città” per purificarsi, dopo torture, confinamenti, scariche elettriche e menomazioni, sperimenta oggi un’anestesia fatta di riduzionismo scientifico e abuso farmacologico: possibilità vitale è forse inventare – o ricordare – forme, stili, immagini che grazie anche ai messaggeri che vengono “da fuori” rendano creativo, vivo, il collegamento tra parole e cose.