[ Carmelo Samonà (Palermo, 1926 – Roma, 1990) è stato uno dei più importanti ispanisti italiani, ma è ricordato anche come scrittore, in particolare per i romanzi Fratelli (1978) e Il custode (1983). L’intervento che proponiamo è apparso sul numero 50 della rivista “Linea d’ombra” nel 1990. Ringraziamo Goffredo Fofi, il direttore di quegli anni, e Giuseppe Samonà per l’autorizzazione a ripubblicare questo contributo. ]
Dedico questo breve profilo di Buster Keaton a Gabriele Baldini, in ricordo di un’amicizia in cui cinema e sale da concerto ebbero tanta parte e furono occasione di incontri per me indimenticabili.
1. Mattino. Al centro di una stanza arredata con attenta parsimonia, le pareti avvolte in uno squallore meticoloso e irreale, un giovane è seduto accanto al proprio letto in abito da passeggio, sulla testa un cappello nero a falde larghe. E in attesa. Il suo volto esprime la concentrazione severa di chi presenzia ad un rito; il suo corpo, immobile fino allo spasimo, ostenta una dignità che un filo di impercettibile angoscia passa da parte a parte. Lo spettatore è al corrente: conosce i termini di quel rito, la circostanza ideale, o miraggio, che racchiude l’immobilità, la concentrazione, l’angoscia. Sa che il giovane sta aspettando che la donna amata lo chiami al telefono e acconsenta a uscire con lui. Ma il mistero delle immagini è così fitto che questa nozione non lo guida a nulla di prevedibile; anzi, lascia ampio margine all’ avvento di fatti stupefacenti, di svolte incalcolabili. Quando il telefono squilla annunciando finalmente la voce di lei, al giovane basta udire le prime parole: «Ho disdetto quell’impegno, e se vuole ….. »; ed eccolo buttar via la cornetta, uscire in strada con forsennata violenza, gettarsi fra lampioni, automobili, passanti come in una corsa ad ostacoli, bruciare a perdifiato centinaia di metri, forse chilometri, entrare in un portone, rallentare, fermarsi. È arrivato alle spalle della ragazza, che nel frattempo ha continuato a parlare senza rendersi conto di nulla, ed ora lo guarda, allibita. Il giovane fa ruotare fra le mani il cappello. «Mi scusi se sono un poco in ritardo … » le dice serio, con una gravità da cui non spira ombra di paradosso.
Si tratta della sequenza centrale del Cameraman, il film che Buster Keaton girò, con la regia di Edward Sedgwyck, nel 1928. Sorpresi dalla facilità con cui si rinnova la nostra emozione a distanza di quarant’anni, ci chiediamo in che cosa consista, al di là dei tratti di colore più ovvi, il linguaggio che ha reso possibile questa gigantesca iperbole dell’amore, questa limpida trascrizione della tenacia, della solitudine disarmata di un uomo.
Inutilmente proviamo a sfogliare i codici del cinema muto: vi troviamo appena qualche rinvio lessicale, qualche suggerimento esterno. Non che manchino analogie fugaci, per esempio, con Chaplin; ma riguardano piuttosto il Chaplin delle trovate fulminee, non quello che costruisce, tutto intero, un racconto. In altri momenti del Cameraman, il fazzoletto rubato per gettare in acqua il rivale, il giro di vite su se stesso che Keaton esegue per liberarsi dal poliziotto, sono citazioni del grande maestro a un livello di repertorio corrente: non intaccano la sostanza del personaggio, non ne disegnano in alcun modo lo stile. L’arte di Keaton è altrove. Se i suoi film più maturi rappresentano una fabbrica della comicità nell’accezione più pura, è anche vero che non affidano i loro segreti all’improvvisazione del mimo né alla libera esecuzione di gags. Malgrado le corse vertiginose e qualche piroetta minore, il Keaton del ’28 e del ’29 non è un acrobata nel senso classico della parola. La sua arte, ormai avara di citazioni clownesche, si riassume tutta nella compostezza puritana di un volto.
Ed è noto: Hollywood riuscì a degradare, a suo tempo, questa grande invenzione stilistica a livello di slogan pubblicitario, e persino di clausola contrattuale: l’uomo che non ride mai. Ora la distanza del tempo ci viene in aiuto. Liberi dalle costrizioni più artificiali del mito, possiamo intuire che attorno a quel volto ruota un sistema di meccanismi regolati e precisi; che nulla è più lontano dall’arte di Keaton di una comicità del nonsorriso come fortunato modulo occasionale.
Il volto di Keaton, del resto, non è che un punto del sistema: è il centro del cerchio. Vive dell’ antagonismo che irradia o scatena da sé verso gli altri, si rivela nel mistero della propria impassibilità, così univoca e nobilmente infeconda, dinanzi alla multiformità redditizia, ma scomposta, del mondo esterno. Ed è un contrasto mortale, che non lascia residui. Lo stile dell’attore emerge, anzitutto, da questa relazione precaria con un altro da sé, che è tutto il reale che lo circonda.
Ma è solo un punto di partenza: è la base per una tecnica di contrasti che accomuna, fin qui, il suo universo comico con quello di un Langdon o di un Chaplin, anch’essi, non meno di lui, disadattati e socialmente reietti. Il particolare accento di Keaton sta nella qualità della sfida. La sua solare inadeguatezza è proporzionale allo sforzo indomito, alla meticolosa volontà di inserimento in quella realtà. Ecco il punto fondamentale. Per questo il suo personaggio elude ogni tentazione di fogge aberranti, ogni ammicco a vistosi abbigliamenti da guitto o da mendicante, ogni memoria di lazzi da clown, di avanspettacoli. Egli sta giocando in qualche modo, con la realtà che pure gli è indecifrabile e oscura, una partita alla pari. E non può travestirsi. Al personaggio apparentemente estroverso di Chaplin, costruito su una tastiera di carambolesche, portentose esibizioni da commedia dell’ arte, oppone l’introversione di una maschera taciturna, connotata su moduli di decoro borghese. Chaplin è un pellegrino che arriva da lontano e di volta in volta riparte, virtualmente per sempre. Keaton offre, invece, un’ apparenza di residente fisso di città popolose, con dati anagrafici in regola, persino col privilegio di un mestiere avviato. Se viene da lontano, lo si suppone reduce, tutt’al più, di qualche comunità puritana del Nord, magari si intravede in lui un pastore quacchero mancato, la cui maschera è altrettanto plausibile per un corretto agente assicurativo. A voler ridurre a una nozione schematica, ma eloquente, il divario fra i due personaggi, si dirà che Chaplin è e rimane, anche culturalmente, un emigrato europeo, Keaton è un cittadino degli Stati Uniti d’America.
E il cimento più arduo, nonostante le apparenze, è per Keaton.
Costretto ad accettare le convenzioni della civiltà cui appartiene come iscritto nei suoi registri, finisce per esserne espulso in modo ancor più radicale e rabbioso quando viene scoperta la sua innocenza, quando è chiaro che in nessun modo egli era stato all’altezza del gioco, e che il tentativo di decifrarne il linguaggio non era, in definitiva, che un bluff. A questo punto si ingaggia fra Keaton e la città una lotta senza quartiere: l’eroe non demorde quanto più la città, indifferente o appena stupefatta dal suo candore, lo respinge ai margini, o lo scavalca e lo ignora. Ad ogni disfatta, Keaton si rimette al lavoro con una strategia più scrupolosa e aggressiva, e con un distacco più consistente dal possesso reale di quegli oggetti.
Ma attenzione: egli approda quasi sempre, a differenza di Chaplin, a un lieto fine senza riserve, talvolta addirittura smaccato. Ed è qualcosa che sboccia dal suo stesso candore di eroe volenteroso e atipico, che può vincere all’improvviso perché il meccanismo gigantesco che gli sfuggiva di mano ha anche una sua palmare, clamorosa stupidità. E come la rivalsa illusoria del «visitato e estraneo» sui divieti linguistici, sulle barriere organizzative o morali che la società, le istituzioni benefiche, le macchine, le segreterie, le polizie, i semafori, gli ufficiali di stato maggiore, i portieri d’ albergo, gli impresari teatrali, i cavalieri d’industria gli oppongono in nome delle loro leggi. A un certo punto il reietto sfodera come per caso la sua carta vincente: si trova al centro di battaglie vittoriose, guida felicemente navigazioni incerte, realizza salvataggi strepitosi che lasciano di stucco i suoi antagonisti e gli assicurano la tenerezza delle donne amate. Tutto ciò, naturalmente, non lo riscatta dalla sua radicale estraneità, non lo induce neppure a una pallida ombra di sorriso. Per di più, nel momento del trionfo, il suo linguaggio resta fedele alla logica del paradosso che si adattava così bene alla sconfitta. Si veda l’ultima sequenza del Cameraman: la ragazza annuncia al fotografo che il suo servizio è stato finalmente apprezzato e che al giornale lo aspettano per fargli, come precisa la didascalia, «accoglienze trionfali». Queste due parole determinano in Keaton un meccanismo di spostamento immediato: sono superlativi lessicalizzati, ormai, dalla vita corrente, ma per lui riprendono il senso letterale dell’«ovazione», che è dovuta agli eroi. Proprio in quel momento Keaton e la ragazza si trovano in mezzo a una parata militare: una folla enorme si accalca attorno a loro, getta volantini, grida, applaude furiosamente. E Keaton non esita: risponde agli applausi con ampi gesti delle mani e del capo: nella sua economia dell’assurdo il delirio della folla è destinato a lui.
Non vi sono flessioni nella puntualità di questo scompenso. Il lieto fine può contenere esibizioni di stile simili a quelle della parte iniziale, può ripetere i gesti e gli ingredienti della disfatta; un’iperbole inserita in un film d’ambiente moderno può riprodursi, leggermente variata, in un film in costume; il Keaton miliardario (per esempio, del Navigator) ha addosso, né più né meno, lo stesso pallore dignitoso, l’identica operosità, la perseveranza disperata e sconnessa del fotografo, del ferroviere, del piccolo attore improvvisato. Vista nel suo complesso, l’opera di Keaton (quella, vogliamo dire, che precede l’avvento del sonoro, giacché la successiva fungerà solo da testimonianza di un declino precipitoso e struggente), si rivela come un sistema di segni non meno unitario di quello che collega il Chaplin della Mutual al Chaplin dei lunghimetraggi della First National; un susseguirsi, appunto, di regolate connessioni interne, che avvicinano i poli anche più distanti, cronologicamente, della sua arte: lo straordinario attore trasformista di Playhouse (192l), che già nasconde nella satira del «varietà» americano una visione dissociata e ironica del mondo, e il Keaton degli ultimi films, quello del Cameraman e della prima parte di Spite Marriage (1929), sobrio stilizzatore di se stesso, raffinato, ormai, e quasi compassato poeta dell’assurdo. Tutto si svolge come seguendo il filo di un unico racconto nel quale, da un’opera all’altra, l’ attore affronta personaggi e convenzioni sociali smontando e rimontando ogni volta il suo congegno (arrivo nella città o in un qualunque organismo solido e dotato di norme, ricerca dell’ inserimento, inadeguatezza e antagonismo. lieto fine) con un disegno sempre più netto e rifinito.
2. Entriamo in questo sistema di corrispondenze con un esempio: la corsa nella città per raggiungere l’amata, di cui si è detto all’inizio. Apparentemente siamo dinanzi a un tòpos della comicità pura: il cinema muto pullula di corse vertiginose non meno che di torte in faccia e di carambole automobilistiche; ed è evidente che anche Keaton s’è inserito, alla lontana, in questa tradizione. Ma per quanto frughiamo nelle comiche del primo dopoguerra non sappiamo trovarvi un solo precedente che contenga indizi più precisi del suo linguaggio. Sarebbe un errore grossolano, ad esempio, vedere nella corsa del Cameraman non dico un’imitazione ma anche solo un tenue ricordo di quella con cui Harold LIoyd, qualche anno prima, aveva letteralmente incendiato il finale del suo divertentissimo Girl Shy (1924). Contro le poche affinità esteriori (corsa per raggiungere l’amata, velocità, scenario cittadino) stanno le divergenze profonde. La corsa di Lloyd è un’irresistibile fiammata di gags perfettamente strumentali al loro fine ultimo: giungere in tempo dalla donna amata prima che il perfido rivale la sposi. Dunque, c’è una scadenza precisa su cui s’impernia la tensione del viaggio, la stravaganza dei mezzi di trasporto adoperati, la continua minaccia dei contrattempi che la città distribuisce lungo il cammino dell’eroe. È, insomma, un’avventura i cui ingredienti sono esorbitanti e magari inverosimili, ma rimangono entro gli schemi di un plausibile meccanismo narrativo; la sua obbedienza ai canoni di un finale romanzesco, la sua appartenenza alla morale «del buono e del cattivo » (da cui trapela una cultura americana solidamente borghese ed ottimistica) sono fuori discussione.
La corsa di Keaton è tutt’altro: vola attraverso la città gigantesca senza raccontarla, come fa LIoyd, ma limitandosi a scansarla; rifulge per sublime inutilità, sollevandosi al di sopra di ogni schema convenzionale di racconto; è solo la metafora figurata di un desiderio, di un moto irresistibile dell’anima; e non è reale in altro senso che in questo. LIoyd è un inseguitore: di qualcuno o di qualcosa; Keaton corre in solitudine. Ed è chiaro: il precedente di Girl Shy non gli è servito a nulla. Se esistono, per la sua opera, dei punti di riferimento nel passato, bisogna cercarli nel suo stesso repertorio: magari si tratterà di dinamiche inverse, ma saranno più calzanti con la concezione globale del personaggio. Prendiamo l’inizio del Navigator, che è del 1924. Anche qui un giovane esce dalla propria abitazione per raggiungere la donna amata, che abita, in questo caso, dall’altra parte della strada: egli monta su un’elegante vettura, vi si siede impassibile come se dovesse iniziare un lungo viaggio; la macchina ruota lentamente su se stessa, raggiunge il marciapiede opposto, si ferma; il giovane ne discende, fa pochi passi, entra senza scomporsi nell’altro palazzo. Praticamente ha obbedito al meccanismo opposto di quello del fotografo: invece del massimo spazio annientato dalla velocità, qui c’è la minima distanza prolungata enormemente dalla lentezza. La corsa del Cameraman si può considerare, entro certi limiti, una citazione rovesciata di quell’ altro «viaggio» del Navigator, col quale ha in comune un presupposto essenziale: il distacco solitario dell’eroe da ogni plausibile funzionalità del proprio gesto.
E va detto che un’analogia per antitesi, come questa, può risultare più valida di associazioni con altre opere di Keaton che sembrano magari più vicine, nella forma e nel tempo, alla sequenza del Cameraman. Sappiamo che del tòpos «il giovane che va verso l’amata» Keaton si è ingegnato ad arricchire le possibili varianti in ogni senso, fin dai suoi primi films. L’attore-amante naviga, cavalca, viaggia su carrucole appese a un filo, procede fulmineo o si avvicina con levità irreale, precipita o plana morbidamente. La casistica varia a seconda dei modi del trasferimento (ritmo, strumenti adoperati o impedimenti aggirati) e del rapporto con l’oggetto (amata ignara o in attesa, in pericolo o lieta, sola o col rivale); e si affina quanto più esce dai moduli obbligati del racconto e delude o ignora la gamma degli esiti prevedibili. Un caso di singolare obbedienza alla sfera della prevedibilità è, ad esempio, quello della corsa finale di College, un’opera del ’27, ambientata nei campi sportivi delle università americane sull’ onda del successo strepitoso di un altro film di LIoyd, The Freshman. Keaton vi impersona uno studente impacciato e inabile agli sport, che si improvvisa campione quando, per raggiungere l’amata in pericolo, converte gli ostacoli che incontra lungo il cammino in altrettante occasioni di imprese atletiche. Senonché dopo l’irrazionalità geniale del primo scatto, il resto della corsa procede nel senso obbligato dei materiali offerti dalla prima parte del film, ribaltandone semplicemente la funzione: da prove fallite a esibizioni vincenti. Potremmo definirla una specie di «iperbole del decathlon»: la tematica è sempre quella della «corsa per amore»; il campo dei segni appartiene al mondo delle competizioni sportive. Certo, la maschera di Keaton grandeggia anche qui come sempre, ma il suo personaggio paga un tributo al genere di moda: si ha l’impressione che in questo caso il ricordo di Lloyd attenui o almeno condizioni fortemente la sua libertà espressiva. Qui, come in LIoyd, il nesso fra gli spunti offerti dal soggetto e la loro trascrizione in immagini è automatico: la situazione comica è racchiusa tutta nella «trovata», si esaurisce nei suoi meccanismi («ragazza in pericolo» vuol dire « salvataggio» e dunque «corsa»; «impaccio» chiama il suo segno contrario, «destrezza», fra impedimenti urbani che diventano piste per salti in lungo e in alto, corse in piano e ad ostacoli, nell’ordine in cui si presentavano nell’autentico stadio). In verità ci sembra che su queste immagini la cultura dell’americano medio abbia lasciato un impalpabile residuo dei trucchi e delle convenzioni di un suo tipico ambiente. Il cammino che conduce alla forza iperbolica del Cameraman (e dunque alla sua potenziale aggressività sociale) non passa per questo College, che pure lo precede di appena un anno, come non passava per Girl Shy, malgrado ogni esterna analogia di situazioni e di ritmo.
Insomma: due opere sono vicine o lontane fra loro non per un rapporto di combinazione esterne fra i contenuti, ma per la qualità del racconto che su di essi si imbastisce, e per il rigore con cui si attua la violazione della norma, la tecnica dello «scompiglio».
All’interno di un film e da un’opera all’altra i meccanismi della comicità di Keaton scattano con una precisione da orologio: mentre i significati delle immagini creano irreparabili disordini, la loro forma interna, la loro collocazione nel contesto, obbedisce a un disegno perfettamente razionale. Uno dei segreti dell’arte di Keaton è proprio qui: il rigore, l’impeccabilità dell’assurdo. Si pensi quale straordinario ossimoro ci viene dai fantasmi del cinema muto: un assurdo che ambisce a essere regolato e coerente, giudiziosamente ridotto a clausole e norme, che confida in gratifiche sociali, consensi di affetto, benemerenze! E quale tremendo e naturale nemico ha la civiltà del consumo e dell’efficienza in questo demolitore di usi e di convenzioni accettate, che pure essa è costretta a considerare in qualche modo come uno dei suoi.
Quando, dopo il ’30, l’attore comincia a prodursi in una serie di films fiacchi e grossolani, nei quali è appena un riflesso della magia del suo volto, si sente che questo rapido declino non è dovuto solo a circostanze esterne o a fattori tecnici pur sconvolgenti, come la fine del muto. La verità è che non c’è posto, comunque, per questa rigorosa unità di concezione e di stile, nell’ America del New Deal, nella società immediatamente posteriore alla crisi. In una borghesia che si riprende e ricostruisce il mito del proprio ottimismo servendosi del cinema come amplificatore, l’ottimismo tragico di Keaton risulta ingombrante e irripetibile. Mentre Chaplin e Lloyd vincono la battaglia del sonoro con autorità, negandolo del tutto o riuscendo a sfruttarlo con astuzia e fiuto commerciale, Keaton, sotto i colpi del nuovo cinema, si disgrega, diventa facile preda di registi di quart’ ordine, di produttori opportunisti. La tremenda coerenza del suo personaggio lo condanna. O tutto o niente: o il controllo del proprio gesto nel gran teatro del mondo o la china della totale passività e dell’appiattimento, fino alla scomparsa definitiva dai repertori di successo.
Il congegno esplosivo di Keaton scopre e umilia in noi certi meccanismi precari di condizionamento sociale, cimenta e scompagina il nostro rapporto con la civiltà dell’urbanesimo trionfante.
Uno spunto di riflessione più unico che raro si offre allo spettatore di oggi. I meccanismi del racconto di Keaton fino al ’29 sono come un viaggio profetico nella società americana alla vigilia della crisi; subito dopo, la sua disfatta di uomo rappresenta una lezione ulteriore: quasi un «lieto fine» smontato dalla coerenza del personaggio, per la sua incapacità di ripetersi a equilibri mutati, e, tanto meno, di rinnovarsi.
3. In uno dei primi films di Keaton c’è una sequenza emblematica: l’eroe regola il traffico in un viavai di fantasmi, al centro di una casa in cui questi si aggirano confusamente cercando di spaventarlo. È una trovata che ribalta la logica delle convenzioni fiabesche: i fantasmi, umiliati dal gesto ordinatore dell’uomo, si degradano a comunità cadenzata e compatta; lui, Keaton, portatore di una segnaletica squisitamente urbana, introduce nel gioco un elemento di giudiziosa follia. .
L’approccio di Keaton col linguaggio delle città è, in effetti, sempre ambivalente, nel senso che soggiace a una singolare forma di antitesi-integrazione: l’eroe si trova in continua distonia col mondo, eppure ne persegue accanitamente i segni, ne utilizza i suggerimenti anche più tenui, come nel caso, appunto, del codice stradale applicato a dei fantasmi. Ma non si tratta di una stravaganza o di un semplice espediente comico: è un particolare modo di intendere e di accettare la realtà. In questo senso, il grande tema rivelatore del linguaggio di Keaton è, soprattutto, il suo rapporto con la macchina.
Keaton si circonda di oggetti funzionali, di congegni complicati e laboriosi che gli offrono spesso il silenzio, l’immobilità di strumenti insondabili. Macchine da ripresa antiquate o grandi navi deserte, egli si dà attorno con zelo a decifrarle, a ripararne guasti e scorrettezze come un addetto ai lavori. Purtroppo, il suo gesto è inversamente proporzionale alla dinamica degli oggetti. Affidati a lui, questi vengono sottoposti a manipolazioni volenterose, metodiche, e quasi sempre disgregatrici. Ma il rapporto che si instaura è così assurdo che la macchina, sotto l’arpeggio paziente e dignitoso dell’eroe può anche cedergli all’improvviso e mettersi a funzionare, assurgendo, come accade spesso, a oggetto-complice della vittoria finale di Keaton.
Vi sono casi, in cui una stessa macchina ispira a Keaton soluzioni diverse a distanza di pochi anni. Dopo il treno fiabesco di Our Hospitality (1923) ecco la locomotiva vittoriosa di The General (1926): due films ambientati più o meno nella stessa epoca, due lunghe esplorazioni di congegni quasi identici, ma anche, nella rappresentazione del rapporto uomo-macchina, due tappe ben distinte l’una dall’altra.
In The General la locomotiva è, praticamente, una funzione del racconto. Asmatica e quasi sempre separata dai vagoni, in continuo contrasto con la geometria capricciosa dei binari, frenata a volte dalla stessa natura in cui si immerge fortunosamente, resta, però, sottomessa all’ empirismo dell’ eroe-manovratore, come un cavallo irrequieto obbedisce, malgrado tutto, al cavaliere esperto e ardimentoso che lo guida; e diventa uno strumento di vittoria per gli eserciti sudisti, il teatro su cui l’eroe solitario si riscatta agli occhi dell’amata.
In Our Hospitality è tutt’altra cosa. Qui il treno non è che un mezzo qualunque che trasporta l’eroe verso il luogo che farà da scenario alle sue gesta. Potrebbe anche ridursi a un puro segno di raccordo; ma l’idea di una ferrovia da pionieri su uno sfondo ottocentesco accende, evidentemente, la fantasia di Keaton. Egli decide di abbandonarsi a un racconto di viaggio trattandolo come se fosse una storia dentro l’altra storia. E crea uno dei suoi capolavori: una lunga sequenza in cui personaggi e trovate sembrano uniformarsi a un ritmo di favola, o abitare in un sogno, piuttosto che seguire il filo di un racconto oggettivo. In primo piano su tutti è il treno, mite esploratore di una natura che ne insidia ad ogni passo la peritosa lentezza, mostro delicato ed amabile, che non evita anfratto o asperità che gli contenda il passo, e corre su binari simili a sentieri, lungo un percorso che pare che esso stesso, di volta in volta, inventi. Attorno, o su vagoni la cui sagoma tradisce un’acuta nostalgia di diligenze e di carrozze a cavalli, i personaggi della vecchia America sembrano restare assorti e indifferenti fermi ad un loro tempo che si sfasa, a tratti, con quello della corsa leggendaria: e per lo più la anticipa. Alcuni si servono del treno come passeggeri, è vero, altri accorrono dai campi ad ammirarlo; c’è chi lo pilota e chi sta a cassetta a sorvegliarne il retro: ma si avverte in tutti una specie di riserbo incredulo e, in fondo, distaccato, come di chi sia pronto, in caso di bisogno, a proseguire a piedi o a smontare e far svanire nel nulla l’ordigno favoloso. Né, sotto i loro sguardi, quest’ultimo sembra spronato a maggior intrepidezza; anzi: appare sempre più dolcemente superfluo ed aleatorio, fin quasi a disgregarsi: un boscaiolo di passaggio ha il tempo di far legna rubandogli quella destinata alla caldaia, un cane gli trotterella sotto e lo precede ignaro, vagoni e locomotiva si separano, verso la fine del viaggio, distrattamente, scambiandosi le parti. Poche volte Keaton è riuscito a scompigliare in modo così discreto ed implacabile l’efficienza della macchina, a disarmarla di quanto v’è in essa di minaccioso e di trionfale. Nella storia della sua arte, questo treno ha il valore di un ritorno alle origini, a un limbo della civiltà meccanica, in cui c’è ancora posto per una presenza attiva e fisica dell’uomo. Qui l’uomo è il protettore adulto, più che l’utente, di una macchina-bambina che egli stesso ha inventato per gioco e di cui tollera e sorveglia con bonarietà le scorrettezze. In The General , ancor più nel Navigator, la macchina è cresciuta, e dialoga con l’uomo alla pari, a volte sovrastandolo, quasi sempre mettendo a nudo la sua fragilità.
Naturalmente, anche un rapporto complesso e in apparenza contraddittorio come questo si sviluppa secondo un sistema di coordinate precise. E alla base di esso sta un altro dei motivi-chiave del linguaggio di Keaton: il trattamento abnorme dello spazio e del tempo.
L’abbiamo visto in molti degli esempi fatti. La solitudine di Keaton si misura con l’ampiezza dei territori che attraversa, degli involucri che lo accolgono fortuitamente e ai quali egli impone prestazioni inconsuete, che sovvertono i parametri del mondo circostante, addirittura della storia: la nave deserta che viaggia solo per lui e per la sua donna, il treno che corre in direzione opposta a quella degli eserciti nella guerra di secessione, l’immenso stadio vuoto dove egli, coscienzioso come sempre, e avido di consensi, gioca da solo la sua partita di base-ball davanti a un pubblico immaginario. Un autentico sistema di sfasamenti, con le sue norme e le sue corrispondenze interne, si crea fra il tempo di Keaton e quello della vita oggettiva. Teso alla conquista dell’inserimento sociale e dell’appagamento amoroso (una coppia di valori costante, con alterni equilibri, in quasi tutti i suoi films) egli va incontro a scadenze intollerabili, a spazi e oggetti intermedi che sono, nella sua logica, delle mere ostruzioni: la realtà esterna è come una gigantesca cerniera di ostacoli che contendono a Keaton il possesso di quei valori. E Keaton inventa, letteralmente, il suo tempo.
A volte lo fa per anticipazione, dilatando all’infinito le attese. La sua tensione verso l’oggetto amato è così integra che non sopporta i vantaggi del risparmio, i calcoli del profitto. Quando, nel Cameraman, la ragazza l’avverte che il suo lavoro in ufficio durerà ancora tre ore, ci aspettiamo che Keaton se ne vada, che ripassi più tardi; invece egli si siede dinanzi a lei, imperturbabile, e aspetta. Il giorno della telefonata, lo troviamo nella sua stanza da letto, completamente vestito, in attesa – avverte la didascalia – «fin dalle prime luci dell’alba». Quanto dura la fase statica del racconto? Un minuto, forse, ma interminabile. E si capisce con quanta forza esploda il meccanismo opposto, quello con cui Keaton sfugge alla norma del tempo, stavolta, per accelerazione. Dall’immobilità dell’attesa nasce, prima, la strabiliante folgorazione di alcune rampe di scale, poi la famosa corsa per la città, sequenza fra le più alte e sconvolgenti della storia del cinema anche sotto il profilo dell’impiego dello spazio e del tempo. Si pensi: un arco di minuti praticamente cancellato, un’intera città ridotta a puro impedimento! E lo scatto, altrettanto superfluo quanto lo era stata l’attesa, appare, al suo interno, assolutamente funzionale, perfetto: questo dissipatore di mattinate, questo mago della concentrazione immobile e silenziosa, ora, spostandosi da un telefono all’ altro, non perde un colpo, non ha arresti né esitazioni, è come una freccia che colpisce il bersaglio, scoccata da un tiratore infallibile.
Siamo, probabilmente, al nodo del messaggio di Keaton. In quasi tutti i suoi films, una quantità di intervalli vuoti e incorporei, di frenetiche, opposte congestioni si riversa nell’ economia del racconto, creando inadempienze quasi rituali al criterio dell’utile. Il comportamento dell’attore assume le forme di una sindrome paranoica, basata su una lettura rovesciata del mondo. E sentiamo che è possibile, a un certo punto, un’inversione completa dei termini: fra Keaton, cioè, e quella che siamo soliti chiamare, con parola che di volta in volta ci rassicura, la realtà oggettiva. Se ci mettiamo dalla prospettiva di Keaton, la norma può diventare l’assurdo, l’interferenza nelle leggi sociali una forma di saggezza, le macchine perfette degli oggetti mostruosi e discontinui che incorrono in stolidi malanni, gli eserciti in movimento un mero abbaglio perturbatore, l’orario d’ufficio una dilazione all’esercizio della più limpida vita interiore, la città veramente un ostacolo alla nostra umana brama di transitare e violare.
Il recente successo di films come il Cameraman anche fuori dalla cerchia ristretta dei cineclubs fa parte ormai di una «seconda epoca» nella storia della fortuna di Keaton; ed è chiaro che non bastano a spiegarla, da soli, gli ingredienti della comicità pura. Dinanzi alle immagini del fotografo o del ferroviere, la prontezza del nostro riso non ci dispensa da un turbamento più sottile: ridiamo, ma non ci sentiamo disposti né autorizzati a una franca liberazione. Questo congegno esplosivo, che parla ancora, come quando fu visto per la prima volta, a un istinto immediato di partecipazione e di ilarità, oggi ci tende anche l’agguato di un’identificazione profonda: scopre ed umilia in noi certi meccanismi precari di condizionamento sociale, cimenta e scompagina il nostro rapporto, illusoriamente integrato, con la civiltà dell’urbanesimo trionfante. Pur ridendo, come allora., sentiamo che non ci è possibile una frequentazione evasiva, e tanto meno innocente, dell’arte di Keaton.