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il sublime rovesciato: comico umorismo e affini

Copertina Numero 18

 aprile 2019

Saggi e rassegne

Chiara Marasco

Alla ricerca del personaggio senza qualità: caricature, tipi umani e cartoon nella narrativa di Stefano Benni

 

 

L’umorismo è come Dio: se ne può dire solo quello che non è. È sempre qualcos’altro […]. Nell’umorismo non c’è un segreto da comprendere o da indovinare, come nella battuta o nel gioco di parole. È l’intero pensiero a essere rivestito di umorismo […]. L’umorismo è la rivincita dell’uomo sul mistero della morte, sui problemi e sull’ingiustizia rivoltante […]. Nella solitudine e nello stato di abbandono, non ci resta che quest’ultima arma: nella traversata di un deserto di stupidità e cattiveria, è l’umorismo quel viatico che ci aiuta a vivere. (JANKÉLÉVITCH 1972)

 

Stefano Benni, inesauribile poligrafo dei nostri tempi, ha creato fin dall’originalissimo Bar sport una ricca galleria di personaggi, dal tipico avventore da bar, al tecnico, al bimbo del gelato, al Cinna, al nonno stregone, alla donna-pantera, alla vecchietta che prima di morire deve salvare il mondo: personaggi stravaganti, surreali che talvolta digradano nei cartoon e che col tempo sono diventati proverbiali di un’epoca.
Attraverso un «euforico gioco intertestuale» (Polacco 1998, p. 39) ogni parola, nella sua pagina, diventa «preziosa» e ogni nome viene scelto con cura, anche perché i «nomi sciatti sono un’occasione sprecata» (BENNI 2000) per Benni, «grande imitatore e pasticheur di stili, di linguaggi, di modi letterari, di gerghi politici, giornalistici e giovanili» (Polacco 1998, p. 41). Lo stile benniano, iperbolico, eccessivo che punta al catalogo, all’enumerazione, alla classificazione, non vuole essere mera elencazione di oggetti, personaggi, nomi, parole, cose e non si confonde dunque con il non sense. C’è anzi una specie di tendenza alla sistematicità, all’ordine contro il disordine che spesso governa il mondo. La sua è una ricerca del comico, della «vertigine» (Guglielmi 1998, p. 20), dell’umorismo, una ricerca che si affida alle voci caricaturali, espressionistiche, illusorie, esasperate, tragicamente amare dei suoi personaggi. Un caleidoscopio di figure, di esseri senza qualità in un mondo che solo apparentemente risulta essere irreale, improbabile e che invece rappresenta l’immagine speculare di una realtà deformata e corrotta descritta dallo scrittore senza veli e senza pietà.
È possibile quindi disegnare una mappa dei personaggi benniani, che risultano talvolta folli, bugiardi e affabulatori, ma anche antifrasticamente deboli, figli di una modernità letteraria ormai al tramonto. Attraverso un tic, un particolare, con arguta arte espressionistica Benni ci rappresenta il profilo fisico e morale dei suoi personaggi esagerati e solo apparentemente poco realistici. L’arte della caricatura cela il volto amaro di una realtà sempre più degradata di cui l’autore da oltre un quarantennio si sta facendo interprete.
Nel 1976 Benni pubblica Bar sport che inaugura una vera fenomenologia narrativa: il bar diventa il luogo cult, il luogo emblematico della narrazione e i personaggi che pullulano in queste pagine diventano tipi esemplari e indimenticabili dell’universo benniano. Da allora fino ad oggi il bar continua ad essere protagonista della sua opera, teatro dell’affabulazione, «in cui si sapeva raccontare e ascoltare» (BENNI 1976), luogo della parola che oggi la televisione ha distrutto. Emblema della comicità, e personaggio a sua volta, diventa la luisona, la «decana delle paste», superba, ma immangiabile che campeggia in una vetrina di un bar e che tutti guardano ogni giorno come una sorta di oggetto sacro.
Nei primi testi benniani l’effetto comico è affidato a similitudini esilaranti, equivoci, accostamenti stranianti, stravolgimenti sintattici e verbali, volti soprattutto alla caratterizzazione del personaggio da bar. Dietro il narratore in terza persona che racconta, attraverso l’iperbole e l’amplificazione, le mirabolanti avventure dei suoi personaggi, c’è un «comico di battuta» a cui interessa soprattutto «far ridere ed essere efficace» e che non «ha ancora imparato ad usare tutte le musiche dell’umorismo» (BENNI 1999, pp. 12-13).
Nel racconto La trasferta i personaggi di questa assurda trasferta sportiva sono tifosi bonari e decisamente improbabili ed esagerati; niente a che vedere, comunque, con gli “ultras” delle nostre domeniche calcistiche, animati spesso dal fanatismo che degenera nell’odio organizzato:

Arrivò Codoni con una pelliccia di lontra lunga fino ai piedi con bottoni rossi e blu a coccarda. Con lui c’erano tre bambine e tre bambini. I bambini erano completamente avvolti in sciarpe rossoblu che impedivano loro qualsiasi movimento, e rotolavano come gli eroi dei western quando cercano di slegarsi. Le bimbe erano vestite: una da torero, una da spazzacamino e una da Colombina, con un vestito spiovente di pizzi, e così truccata che una macchina di nottambuli reggiani si fermò e cominciò a chiedere: “Bellona, quanto vuoi?”[…].
La strada era ostruita dalla banda Lanzarini, macellai, con una bandiera di quattordici metri, campanacci da mucche, tamburi, maracas, bandoni di benzina, piatti da banda e zamponi chiodati. Salirono in cinquantotto, già tutti senza voce: uno di loro suonò un colpo di gong e i due della Sempre Avanti! lo massacrarono in pochi istanti. Contammo i bambini, che però si spostavano a una velocità tale che la stima era molto approssimativa. Ferrari ne contò centocinquantasei divisi in due squadre. (BENNI 1976, p. 98)

Sovvertendo le regole abituali, è possibile guardare la nostra quotidianità come dal di fuori, attraverso la tecnica dello straniamento, spesso utilizzata dal narratore, e che ha l’obiettivo di mettere in discussione le apparenti certezze o le abitudini più radicate. Creare una situazione di attesa e poi confermarla o, viceversa, disattenderla rovesciando le aspettative suscitate sono altri accorgimenti per far ridere. L’umorismo si serve anche della tecnica della suspense, che crea attesa e sospensione nel lettore. Divertenti poi sono le situazioni nate dagli equivoci più strani: giocare sull’ambiguità delle parole e sul loro tratto polisemico. In questo racconto Stefano Benni utilizza molte di queste tecniche, raccontandoci l’evolversi della storia per accumulazione: circostanze sempre nuove e divertenti si accatastano una sopra l’altra, spesso in modo illogico, creando situazioni sempre più paradossali. Nel racconto, ad esempio, è assolutamente paradossale, ed evidentemente inutile, studiare il percorso da Bologna a Firenze utilizzando una carta geografica dell’Europa, come fa il geometra Buzzi. E la disavventura dell’autista che al casello dell’autostrada cade dal finestrino per prendere il biglietto non ci crea preoccupazioni per la sua salute, ma crea ilarità, perché smentisce quanto abbiamo letto poco prima, cioè la sua assoluta perizia e padronanza nella guida. L’umorismo non è fine a se stesso e lo sguardo divertente dell’autore su questi improbabili personaggi forse maschera la nostalgia per i tempi in cui il calcio era solo puro divertimento e sano agonismo.
Nel 1987 esce Il bar sotto il mare, una raccolta di ventitré racconti legati da una cornice: l’io narrante della cornice è anche il narratore del racconto conclusivo, incompiuto, ma che chiude in maniera circolare il testo. L’operazione di Benni risulta subito innovativa fin dalla copertina del libro, disegnata da Giovanni Mulazzani: troviamo infatti un’accolta di personaggi molto diversi fra loro i cui volti possono essere facilmente riconoscibili (Sigmund Freud, Elvis Presley, Marilyn Monroe). Non si distinguono, per ovvie ragioni, la pulce del cane nero e l’uomo invisibile. All’interno del testo troviamo poi una pagina con le silhouette dei personaggi: il primo uomo col cappello, il secondo uomo col cappello, il barista, la bionda etc.
Nel repertorio variegato di questi personaggi emerge quello contenuto nel racconto parodistico Autogrill dell’horror, in cui l’autore fa un ritratto molto amaro della cosiddetta società del benessere: i personaggi non sono che degli schiavi di riti comuni e ripetitivi. L’autogrill è uno dei tanti non-luoghi della scrittura benniana dove la gente si incontra, ma non entra necessariamente in relazione: Benni descrive ed esaspera atteggiamenti, luoghi comuni, tic della gente normale che frequenta, a volte per necessità, questi spazi e che, per obbedire alla morale consumistica, è costretta ad acquistare, pena l’esclusione o, come in questo caso, la grottesca eliminazione. Vi troviamo la passione rabelaisiana per le elencazioni e le epitomi. C’è un io-narrante che non lascia spazio alle emozioni, ma si limita a registrare le azioni dei personaggi cartoon della storia. D’altra parte in più occasioni l’autore ha manifestato la sua passione per i cartoni animati dotati di «un’onnipotenza plastica, per cui l’uomo può diventare di tutto. Un’anarchia totale e scatenata».
Il breve racconto è uno degli esempi più significativi e funzionali per mostrare come l’autore riesca a manipolare sapientemente la lingua e il lessico per rappresentare la degradazione senza ritorno della società consumistica. La primissima parte del racconto, con un andamento diegetico e nella quale la paratassi è evidentissima (frasi cortissime del tipo: «Il padre che ha i nervi; La madre dice appena vedi un area di servizio fermati; Il figlio dice io ho sete subito») presenta una interpunzione rarefatta o assolutamente assente («Il padre dice non mi fermo la prossima mi fermo quella dopo»), mentre, quando il dialogo diventa mimetico (continui scambi di battute tra i componenti della famiglia) prevalgono i punti esclamativi, quelli interrogativi e i punti a delimitare delle forti pause in una scrittura che rimane comunque adagiata su sequenze, alcune brevissime. Una serie di luoghi comuni («se è una donna vuol dire che non sa guidare»; «Se il padre perde, riuscirà a conservare il rispetto della famiglia?» etc.) e di espressioni ormai cristallizzate attraversa tutta questa parte: «Adesso lo sorpasso, e si becca questa serenata di clacson»; «Me la faccio addosso!»; «Ma cosa si crede, il padrone della strada?»; emblematico ancora il dialogo con la commessa, vero pezzo in cui si avverte forte tutta la critica di Benni verso una società che pensa solo al denaro e più tangibile si fa la lingua sciatta consumistico-pubblicitaria (p. 176). Ci sono frasi con dislocazioni a destra, procedimento che aiuta a riprodurre il linguaggio parlato: «Stanno i quattro nel parcheggio vuoto»; «Luminoso e pulsante li ingoia il Grill in cui entrano fieri e decisi a tutto». Interessantissime, perché viene meno l’architettura sintattica classica, con lunghe enumerazioni, tutte asindetiche e a volte anche iterate in alcune componenti. È questa la distorsione grottesca e la vis comica di Benni: «Bibite panini orsacchiotti cioccolatini mitra per bambini torte tipiche dei chilometri limitrofi prosciutti ibernati giornali tettuti (si noti l’aggettivo «tettuto», chiaro esempio dell’uso creativo ed ironico del linguaggio) videocassette cassette pannoloni caramelle molli caramelle dure pandori panpepati pandolci panasonic e un provolone mostruoso, bianco»; «tra pareti di videocassette pannoloni prosciutti precotti sandali giapponesi accessori per auto borse termiche e un provolone mostruoso, bianco»; «incontrano giocattoli cibarie tampax crackers visitors videocassette offerte speciali e un provolone mostruoso, bianco» (un’unica virgola che interrompe la lunga enumerazione e che attira l’attenzione del lettore sul provolone mostruoso, bianco che sarà quello che poi finirà per travolgerli). E ci sono frasi in cui il narratore dà la parola al padre e troviamo il flusso dei suoi pensieri (flusso di coscienza): «Non bisogna guidare a quest’ora di notte se non si è abituati, io sono abituato capisco le situazioni un attimo prima» (BENNI 1987, pp. 173-178).
Un’altra ossessione denunciata da Benni è quella della tv: i suoi personaggi sono spesso ossessionati dalla tv, dal bisogno di apparire sullo schermo, esempio emblematico è il protagonista del Destino di Gaetano, in Bar Sport duemila, emarginato da tutti perché colpevole di non essere mai andato in Tv («Solo Gaetano non era mai andato in televisione, e tutti lo guardavano storto. Quando entrava nel bar, i clienti facevano finta di non vederlo […]. Doveva trovare il modo di apparire in televisione. Ci voleva qualcosa di particolare, di morboso, di eccitante» (BENNI 1997, p. 30); è costretto a un gesto estremo («Era un’alba fredda e rosea. Respirò una bella boccata di gas di scarico e volò, cantando come un tordo, giù dal terzo piano nella speranza che qualcuno si interessi a lui»). La televisione arriva, ma lui è destinato a un futuro di immobilità («- Ho grandi notizie per te Gaetano, – trillò Lola, – sei paralizzato completamente, ma sei l’uomo più celebre della città», p. 35).
Anche gli animali trovano spesso uno spazio importante nella scrittura di Benni. Il romanzo Di tutte le ricchezze mostra lo speciale rapporto fra un’umanità spietata e corrotta e il mondo animale: Martin, il maturo professore, protagonista del romanzo, vive sulla soglia della realtà intrattenendo dialoghi filosofici con gli animali del bosco che, in più occasioni, smascherano la fragilità umana. Emblematico è il dodecalogo del buon cane che termina con l’ultimo e definitivo punto che ha il significato di un’epigrafe: «Il tuo padrone non è strano, è umano: accettalo» (BENNI 2012, p. 65).
Gli animali parlanti non sono certo una novità nella letteratura e ricordano in Benni il processo di umanizzazione a cui Svevo aveva sottoposto Argo in una delle sue ultime novelle, Argo e il suo padrone, animale-giudice pronunciatore di sentenze e insegnamenti che denunciano profeticamente la crisi e l’incomunicabilità dell’uomo moderno.
Se nei romanzi la verve umoristica di Benni è evidente, nella short story l’autore riesce a dare il meglio di sé. I racconti costituiscono lo spazio narrativo ideale per delimitare stravaganze e bizzarrie quotidiane e definire una variegata galleria di personaggi indimenticabili. La brevity, d’altra parte, conferisce al testo la forza ricavabile dalla totalità: attraverso alcuni espedienti, a partire da un singolo effetto o una frase inaugurale lo scrittore può catturare interamente, anche se per un tempo minore, l’attenzione del lettore: «Alla conclusione del racconto, e solo in misura minore, a quella di qualsiasi testo scritto corrisponde il lieve choc di una sorpresa, un motto di spirito, un sospetto più o meno inquietante, una catastrofe di varie dimensioni, una enfatica conferma, uno scioglimento: insomma un fermaglio». (Merola 2008, p. 35).
Benni si ricollega all’antica tradizione comica italiana basata sul registro basso-mimetico della corporeità e della beffa, talvolta crudele. La comicità più accesa e trasgressiva ha come antecedenti Calandrino, ma anche i personaggi rabelaisiani e assume originalmente, nelle sue pagine, colori e sfumature talvolta crudeli: cinismo, amarezza, sono spesso gli ingredienti di pagine dense che da un piano comico sconfinano spesso nel tragico.
La vena scanzonata dei testi benniani è soltanto la maschera crudele della vita e i personaggi svariati, mirabolanti, esagerati, paradossali costituiscono il filtro opaco del mondo immaginifico di Benni: microcosmo ironico e agrodolce, immagine speculare di quello reale che spesso risulta più grottesco di quello inventato dalla parola dello scrittore.
I meccanismi dell’esagerazione e dell’iperbole amplificano le atmosfere, a volte surreali, all’interno delle quali i personaggi diventano personaggi da cartoon che subiscono traumi e violenze inauditi per poi riprendersi senza problemi, come nel racconto La storia di Pronto Soccorso e Beauty Case: «A volte dopo essere caduto continuava a strisciare per chilometri: era una sua particolarità. Lo vedevamo arrivare rotolando dal fondo della strada fino ai tavolini del bar. – “Sono caduto a Forlì” spiegava» (BENNI 1987, p. 122).
Un meccanismo tipico dei fumetti è invece più evidente in un volume agile e memorabile, Pantera, pubblicato nel 2014. Anche grazie alle vivide illustrazioni di Luca Ralli, Benni realizza due racconti in cui i protagonisti si illudono di poter scegliere il proprio destino: il gioco del biliardo diventa invece nel primo racconto metafora della casualità che domina la nostra vita. L’Accademia dei Tre Principi è solo in apparenza una bettola adibita a sala da biliardo: è un antro favoloso, un luogo dove si combattono battaglie a suon di stecche e di tavoli verdi macchiati dal tempo e graffiati dall’usura. Sotto lo sguardo cieco del saggio Borges, ogni sera si incrociano le stecche di giocatori leggendari come il Puzzone, Elvis, Tremal-Naik, la Mummia, il Professore e Tamarindo; sfide all’ultimo “sangue”, rigorosamente censite fra il fumo e gli improperi di rito. In questo piccolo antro esclusivamente maschile, un giorno fa il suo ingresso Pantera, una ragazza snella, flessuosa e pallida, una vera regina, dall’età apparentemente compresa fra i venti e i trent’anni. E quando gioca a biliardo sembra una vera dea.
A volte alcuni personaggi dei romanzi diventano materiale di riuso per un nuovo racconto o un fumetto; è quanto accade a Fen il Fenomeno, il cane fenomeno già apparso nel libro Pane e tempesta edito nel 2009, che trova in Gandolino un nuovo padrone e sarà attore in una serie di sfide con altri cani ben più blasonati. L’autore si misura sempre con la realtà anche in quei testi dove tutto sembra frutto dell’immaginazione; vi si scorgono aspetti della vita quotidiana e i suoi elementi più deteriori. Ecco perché il comico spesso convive con il tragico, come spiega lo stesso Benni: «Il comico cammina a un passo dal tragico come la filosofia cammina a un passo dal delirio» (BENNI 2001).
In uno dei testi più immaginifici, Pane e tempesta, le storie si dipanano per accumulo, senza mai dimenticare l’ironia. Nulla è impossibile in questo mondo: è un mondo magico e immaginario, ma in cui non mancano le polemiche nei confronti del mondo reale: «Gli umani sono a un passo dalla catastrofe», sentenziano gli gnomi (BENNI 2009, p.192). L’atteggiamento comico di alcuni personaggi in realtà cela un lato oscuro che talvolta esplode nella crudeltà e nell’aggressività giocosa, ma altre volte rimane sospeso, latente, rivelando un’ombra perturbante e minacciosa, di sconosciuto o familiare, che i personaggi provano a nascondere. Il riso rinvia al mistero dell’io, proteggendolo. E allora il riso dovrebbe essere qualcosa da vivere intimamente, lontano dallo sguardo altrui, altrimenti rischia di diventare una spia, un indizio dell’analisi o dell’autoanalisi a cui il personaggio è condannato. E alla fine il lettore scorge fra le righe le tracce di un apologo: i rapporti sociali appaiono retti sulle regole della convenienza e dell’ipocrisia e la menzogna regna sovrana su tutti. In questi testi il riso si fa più intenso e feroce, e si traduce, quasi in senso shopenhaueriano, nella «matta risata» «di chi guarda senza illusioni la vuota commedia della vita». Un’umanità malata e grottesca che appare in tutta la sua evidenza in una raccolta del 2015, Cari mostri. La soglia è stata ormai superata; oltre ogni compassione, perbenismo, residuo di pietà i personaggi sono mostrati senza veli: in fondo all’abisso dell’animo umano solo il brivido e il male, e una risata dissacrante che ha il sapore di un’eco lontana, mentre la parola dirompente implode e si fa assassina.
Ecco che nell’evoluzione creatrice della scrittura benniana cambia lo sguardo e l’atteggiamento critico dell’autore. Il complesso d’inferiorità di cui hanno sofferto molti personaggi della letteratura del Novecento non ha più motivo di sussistere. Il futuro appartiene agli uomini senza qualità, le cui risorse sono ancora pronte a sbocciare: il vero vincitore della lotta per la sopravvivenza è dunque il personaggio “strambo”, stravagante, fuori dal comune o forse banalmente comune, un personaggio eletto che, infine, sublima se stesso. Si assiste ad una sorta di rovesciamento dei ruoli e dei destini, attraverso cui il basso prende il posto dell’alto, il servo quello del padrone, il folle quello del saggio, il sognatore quello del lottatore. Nelle ultime opere l’umorismo e la trasgressiva ironia dell’autore si tingono di nostalgia, l’ansia della morte e la spiritualità scardinano i vecchi schemi narrativi senza che mai vengano meno il paradosso e il grottesco, ma la lettura lascia in bocca il gusto amaro della riflessione. L’aggressione giocosa, la risata liberatoria diventano anche lo scacco, la vittoria di chi è sopravvissuto a un mondo sempre sull’orlo del baratro. La dissacrazione umoristica e il potere eversivo del riso si traducono emblematicamente in Prendiluna, l’ultimo e terribile romanzo di Stefano Benni, un testo apparentemente fantastico, ma assolutamente attuale, quasi metafora del mondo in cui viviamo. Nel romanzo i capitoli come racconti autonomi filtrano la storia attraverso la dimensione onirica. Il sogno funziona da molla narrativa e alla fine il lettore sa solo che ogni personaggio ha affrontato in varia maniera il proprio destino: mondo utopico e distopico alla fine convivono nella scrittura magica e profetica di Benni.
La follia è il tratto comune in questo ultimo mondo senza veli, tracciato dall’autore, in cui follia e ragione sono le facce della stessa medaglia e in cui più che mai i valori positivi coincidono con quelli negativi. Sempre ad un passo dal suicidio, dal ripiegamento, dall’esaltazione, dall’abisso: sempre rivolti all’eccesso e all’esagerazione, quelli benniani sono personaggi da cui scompare ogni traccia di bellezza, ma che si prestano ad un’analisi profonda, a far emergere dall’imo del proprio essere ciò che sta “sub-limo”, sotto il fango: l’abisso e il perturbante.
Prendiluna, vecchia maestra, prima di morire riceve l’ordine di compiere una missione: salvare il mondo affidando i suoi Diecimici a dieci “Giusti”; si trova ad affrontare il male del mondo, esemplificato nella fantasmagorica e misterica Università Maxonia, abitata dalla setta degli Annibaliani che da sempre gestiscono il potere e le esistenze umane. In un viaggio avventuroso, coadiuvata da due matti sfuggiti ad un manicomio che a tratti rivelano sembianze angeliche, l’autore ci rivela l’ultima possibilità di un’umanità esasperata attraverso una catabasi inevitabile e dalla quale a stento i personaggi si salvano. Tono farsesco, beffe, calembours, battute al limite del non sense, bastonature e dissacrazioni di rabelaisiana memoria sono gli ingredienti esilaranti di un testo frizzante e genuinamente comico. Ancora una volta l’autore ci rivela un’umanità sospesa e spezzata attraverso una comicità grottesca e un tono ‘espressionistico’ che conferiscono al testo una straordinaria vitalità. Benni crea dei mondi paralleli, una topografia immaginaria e speculare a quella reale, abitata da personaggi dai nomi improbabili, che però evocano altrettanti tipi umani credibilissimi, simulacri, specchi, immagini di un mondo rovesciato e iperreale che tanto ricorda quello in cui siamo immersi e che un filosofo e sociologo francese ha teorizzato perfettamente.
Jean Baudrillard, riferendosi alla società contemporanea tecnologica e multimediale, ha introdotto la definizione di “iperreale”. L’iperreale finisce per diventare più reale della vita reale: esso è costituito da “simulazione” e “simulacri”: il mondo nel quale ci ritroviamo a vivere oggi non è reale, ma è un simulacro. Baudrillard sostiene che il reale non esiste più, è scomparso, sgretolato dai media e dalle moderne tecnologie. Secondo il filosofo francese i media ci offrono immagini che non fanno riferimento al reale e che ricevono senso solo da altre immagini rigenerandosi perpetuamente da sé stesse, rimanendo così sempre più sconnesse da ciò che in origine era reale. E se una volta era possibile distinguere il mondo reale dal regno delle immagini, oggi tale distinzione non è più possibile in quanto i media con la complicità delle moderne tecnologie, hanno assorbito la realtà tutta e, sostituendosi ad essa, hanno creato un corto-circuito destabilizzante all’interno del quale si è progressivamente persa ogni referenzialità. Quindi, tutto nella nostra epoca (la cultura, l’informazione, la politica, l’economia, l’intrattenimento, la vita sociale) è governato dal principio di simulazione, che determina come la nostra vita viene percepita e vissuta.
Nella rappresentazione di questo mondo alla deriva Benni fa sempre più sua quella sintesi fra comico e tragico che è alla base della concezione del riso già presente nelle pagine del Filebo platonico, in cui la «la digressione sul comico si inserisce […] come esemplificazione della possibile mescolanza di piacere e dolore, della compresenza nell’anima di affezioni comunemente ritenute opposte» (Ordine 1996, p. 3). In Aristotele lo spazio della commedia coincide con il brutto e il ridicolo e lentamente nella cultura occidentale il riso acquista, come la parola, un valore terapeutico e salvifico pur continuando a mantenere la sua ambiguità e precarietà. La scrittura benniana è certamente debitrice di una filosofia del comico complessa e contraddittoria e che l’autore ha sfruttato nelle più diverse sfumature all’interno dei suoi testi: dietro l’apparente leggerezza, i suoi personaggi strani, stravaganti, iperreali hanno saputo disegnare l’amara parabola della commedia umana che troppe volte ha intravisto il suo epilogo scontrandosi con la tragedia della vita e un destino sbagliato. Forse l’unica vera possibilità, pare dirci l’autore, è sottrarsi alla realtà dilaniata del nostro presente per rifugiarsi in un consolante sogno Matrioska, un lungo sogno costruito come una sorta di scatole cinesi:

quella roba che quando ci caschi dentro non sai quando ne uscirai. Potresti per esempio svegliarti e scoprire che tutto quello che hai creduto reale fino ad allora è stata un’allucinazione. Il sogno di un povero pazzo malato nel suo letto, una storia inventata per sfuggire alla noia e alla paura di morire in solitudine, prigioniero di quelle mura… Oppure… – Oppure a volte – disse Prendiluna – ci si può risvegliare in compagnia di una donna amata (BENNI 2017, p. 211).

 

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