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il sublime rovesciato: comico umorismo e affini

Copertina Numero 05

 settembre 2012

Testi

Edmondo De Amicis

Eloquenza convivale (1898)

[Edmondo De Amicis (Oneglia, 1846 – Bordighera, 1908) è noto soprattutto per il libro Cuore (1886), ma ai suoi tempi aveva fama di ottimo giornalista ed era anche un conferenziere molto apprezzato. Notizie dettagliate sulla vita e sulle opere si trovano alla voce che gli dedica il Dizionario Biografico degli Italiani, reperibile in rete cliccando qui.
Nel 1902 De Amicis pubblica presso Treves la raccolta Capo d’Anno. Pagine parlate, con questa avvertenza:
«Sono raccolti in questo volume, oltre alcune conferenze note, vari lavori non stati mai esposti al pubblico di viva voce; ma che dall’autore furono ideati per essere detti, e perciò scritti nella forma che egli credeva più conveniente a quell’intento: onde il titolo comune di Pagine parlate
Il testo che proponiamo si intitola Eloquenza convivale ed è datato 1898. Con ironia l’autore passa in rassegna la tipologia degli oratori da mensa, caratterizzandoli uno per uno.
«Sono per me come personaggi distinti da tutta l’altra moltitudine umana che ho nella memoria, attori sparsi d’una grande commedia satirica, membri di una società festante e pargoleggiante; la quale, sebbene abbia anch’essa le sue piccole miserie, mi rallegra e mi conforta alquanto, distraendomi dal pensiero di quello che fanno e dicono gli uomini quando non siedono a mensa.»]

Quello che parla sempre.

Parla a ogni banchetto, dovunque e a qualunque costo, per un impulso invincibile d’istinto. Sedere a tavola e fare un discorso, per lui, sono due cose inseparabili come mangiare e bere. Sia un pranzo di notai o d’artisti o di professori o di banchieri o di preti, egli sorge, come dicono i cronisti dei giornali, dicendo sempre di compiere un dovere, e giustificando il suo sorgere coi pretesti più stiracchiati, con gli artifici più grossolani e più ingenui. Sorge anche a un pranzo di quattro amici, anche al modesto desinare di famiglia, dove egli siede, invitato unico in mezzo a due coniugi e in faccia a due bambini. Fa il suo discorsetto anche a una tavola rotonda d’albergo, dove si trova di passaggio, tra una corona di commensali sconosciuti, coi quali ha fatto relazione mezz’ora avanti. E la gioia di fare un brindisi a un grande banchetto la pregusta per mesi e mesi. È facile riconoscerlo a tavola: è agitato fin dall’antipasto, e sempre più si agita via via che s’avvicina il gran momento; finge d’ascoltare i vicini che gli parlano, ma non li intende, non risponde a proposito, li fissa, ma non li vede; tutta l’anima sua è assorta nell’esordio che medita e nel suono degli applausi che presente. Qualche volta pure egli si trova in piedi col bicchiere in mano prima d’averci pensato, come se l’avesse spinto su una molla misteriosa. A chi legge i giornali che hanno molte corrispondenze dai piccoli comuni s’imprimono nella mente, dopo qualche anno, i nomi di parecchi di questi sputabrindisi che prendon la parola a tutti i banchetti del paese proprio e dei paesi circonvicini; e ve n’è anche nelle città grandi un certo numero, conosciuti da tutti, e designati da chi ne ignora il nome con la formola: – Quel tale che parla a tutti i pranzi…- Sono l’eloquenza convivale incarnata. E in questa materia sono per lo più giudici difficilissimi: dicono che ai pranzi non si sa più parlare; lamentano la decadenza dell’arte; considerano l’eloquenza simposica come il ramo più nobile della letteratura. Ai banchetti dove sono vietati i discorsi non vanno, e quando si nega loro la parola, fanno un casa del diavolo, si ribellano come a un sopruso intollerabile, se ne van via angosciati come d’una sventura. Si ritrova questo tipo in tutte le classi sociali. Un giornalista mio amico ha visto un cuoco, al pranzo d’un’associazione operaia, strepitare e piangere perché non gli si permetteva di fare un discorso, e sua moglie supplicare, a mani giunte, il presidente che lo contentasse, per non far passare a lei quindici giorni disperati. Era uno della famiglia …

Quello che ha la vocazione.

Non si deve confondere con quello che parla sempre; il quale è raro che parli bene. Questo è nato orator convivale come si nasce poeta lirico. La natura gli ha messo in mano un bicchiere e gli ha detto: – In hoc signo vinces. – Posto sopra ogni altra tribuna, sulla quale non sia distesa una tovaglia, non suol essere che un oratore mediocre. La sua eloquenza non erompe e non s’espande viva e trionfante se non quando è eccitata dallo spettacolo d’un uditorio con gli occhi lustri e con le orecchie accese. Tutti hanno conosciuto qualcuno di questi curiosi oratori del calice, che sono dotati per l’appunto di tutte le qualità occorrenti a dilettare e anche a commovere per cinque minuti cinquanta persone sedute a mensa, che svolgono con brevità efficace, con frasi scolpite e scintillanti e con motti opportuni e di buongusto un concetto arguto o gentile, che sanno accarezzare con una gradazione di lode, perfettamente misurata ai meriti e all’ importanza di ciascuno l’amor proprio di tutti i commensali più ragguardevoli, e prevenire con accenni garbati la gelosia di quelli che non nominano; che hanno nel parlare una varietà dilettevole d’intonazione e una naturale eleganza nel gesto, e nello sguardo girante mobilissimo un ardore e un sorriso che ispira a tutti un sentimento e ottiene da tutti un’espressione di simpatia. A parlar bene per mezz’ora non reggerebbero; hanno l’eloquenza di fiato corto; hanno dell’oratoria non il fuoco sacro, ma soltanto il razzo esplodente. E se si preparano, riescon male: come quei poeti improvvisatori che, messi a tavolino, non ritrovan più se stessi. Ce n’è in ogni classe sociale. Si sentono anche a pranzi d’operai certi oratori incolti, che dicono un mucchio di spropositi di lingua, ma che parlano con un’agilità, con un’onda musicale, con un senso così giusto della misura e della convenienza, ed hanno una cert’arte, come dicono i comici, di fusare il discorso e di sparare il pistolotto, da far pensare che abbiano fatto pratica in qualche sconosciuta accademia popolare di ‘bel porgere’. Molti di costoro, specie nella classe colta, non hanno, fuor di quella, altra facoltà notevole, e segue non di rado che, avvicinandoci ad essi con curiosità, dopo un loro trionfo oratorio, e facendoli discorrere, ne restiamo delusi, come della conversazione d’un bravo cantante melenso. Il che non toglie che non pochi debbano a quell’unica facoltà una reputazione invidiabile, e alcuni il principio d’una carriera fortunata, che finisce qualche volta a una cattedra, o a un’ alta carica amministrativa, o a uno scanno del Parlamento. Non senza dure lotte, peraltro; poiché contro questi oratori nati della tavola insorgono invidie feroci di emuli e di inetti; onde avviene che non pochi si scoraggino a mezza via e rinuncino all’oratoria. Ma di quelli che persistono una buona parte riesce ad afferrare almeno la croce. V’è in ogni paese un buon numero di cittadini, nei quali il governo, nominandoli cavalieri, non ha fatto altro che premiare e incoraggiare l’industria nazionale del brindisi….

Gl’incensatori.

Molti dei sopraddetti appartengono all’ordine degl’incensatori, che è il più numeroso dei vari ordini di cui si compone la grande famiglia degli oratoti convivali. Sono uomini i quali, nell’atto che s’alzano per parlare a un banchetto, par che perdano ogni lume di criterio nella misura della lode, come se il vino che han bevuto fosse un’essenza di iperboli adulatorie che desse loro al capo tutt’a un tratto in quel punto. Invasi da una specie di furore laudativo, scandono la lode crescente a colpi di pugno sulla tavola, rotano il turibolo come una fronda in atto di minaccia contro dei contradditori immaginari, urlano e disegnano col gesto il loro entusiasmo con una tale violenza, che, a vederli senza sentirli, si direbbe, non che lodino il personaggio festeggiato, ma che lo insultino. Questi e l’opera sua s’ingrandiscono a poco a poco nella loro immaginazione eccitata, come per effetto della loro voce medesima, fino ad assumere proporzioni gigantesche. Fra il bravo sindaco del loro piccolo comune e il conte di Cavour, fra la commediola fortunata dell’autor novellino e il teatro intero dello Shakespeare, tra la croce della corona d’Italia e il gran collare dell’Annunziata, non v’è in quei momenti per loro nessuna differenza. E molti non sono adulatori per proposito interessato: no: non intendono il brindisi di complimento che a quel modo; sono i briaconi della lode; sono come quei cordialoni brutali che non vi possono stringer la mano senza farvi dolere le dita. Soltanto nei banchetti che si fanno in una regione del paese nel corso d’un anno ci sarebbe da mettere insieme una collezione meravigliosa di formule d’elogio comicamente sperticato. Non si parla dei soliti: astro, fenice, perla, come aquila vola, tanto nomini, uomo di Plutarco, che son diventati come modi proverbiali. Ma l’ideale dei catastari, il prototipo dei procuratori, l’Atlante dell’amministrazione dell’asilo, il Silla della nostra repubblica vinicola, l’apostolo della nuova fognatura, sono fiori men comuni, e pure frequentissimi, del giardino oratorio, che Bacco innaffia. Molti usano il brindisi biografico, che prende il personaggio dalla culla; la maggior parte invocano la posterità; quasi tutti finiscono col tu lirico, vigorosamente ribadito. Ed è a notarsi che all’oratore turiferario non occorre punto di conoscere il dio, poiché, invitato qualche volta per caso al banchetto, e inconsapevole, un’ora prima di mettersi a tavola, perfin del nome del festeggiato, gli basta qualche vaga notizia raccolta dai vicini fra un piatto e l’altro, per sciorinare alle frutte la più smaccata e calorosa delle apologie. E hanno nella menzogna e nell’invenzione e nella pesca dei granchi una disinvoltura incredibile. A un banchetto in onore d’un romanziere, ne intesi uno, che non conosceva dei romanzi di quello neppure un titolo, esordire gravemente con le parole dantesche: valgami il lungo studio e il grande amore. Ne intesi un altro chiamar l’autore di pregiate opere di statistica: fabro di numeri divini. Intesi chiamar fulmine di guerra un vecchio ufficiale pensionato dell’Intendenza militare, e ripetergli tre volte l’appellativo, non ostante ch’ei lo rifiutasse violentemente. Da questi implacabili insaponatori i modesti sono messi a una vera tortura, e accade spesso che, mentre l’untore parla, il festeggiato gli dice in cuor proprio, sorridendogli in aria di gratitudine: – O quando la finirai, vescicante maledetto! – Ma son più quelli, anche fra le persone sensate, che ingollano tutto con molto piacere, e che, dopo quel grosso pasto pepato, più inghiottoniti che sazi, non gustano più, anzi quasi disdegnano la lode moderata. Tre su dieci degli oratori incensanti sogliono cominciare il loro discorso col verso più sfacciatamente abusato di tutta la poesia antica e moderna: Vergin di servo encomio ….

Il patetico.

L’orator convivale patetico non è sempre uno troppo facile a commoversi nei casi ordinari della vita: è un uomo d’un temperamento particolare, in cui lo spettacolo d’una schiera d’amici seduti a mensa, la sua stessa contentezza, l’ansia dell’amor proprio e il suono della propria voce, operando insieme, hanno per effetto di eccitare straordinariamente la vena della tenerezza; la quale, fuor di là, resisterebbe ad altri stimoli assai più naturali e potenti. Per quanto sia lieto l’avvenimento che si festeggia, e siano allegri i commensali, e per quanto lietamente egli incomincia a parlare, il suo discorso finisce sempre in un’effusione di sentimento, in cui trema la nota del pianto. Chi non ne ha visti ? Ci sono oratori che non possono esprimere senza lacrime negli occhi, nella voce e nella frase questo semplicissimo concetto: – Ti hanno fatto cavaliere, te lo meriti e me ne rallegro -; anche quando il cavaliere è per loro una persona affatto indifferente. Sono i salici piangenti dei pranzi. La commozione sincera li rende quasi sempre eloquenti. Ottengono effetti straordinari sopra tutto nei banchetti d’addio, nei quali molti di essi riescono lugubri addirittura. Uno dei più ammirati della famiglia, ch’io abbia conosciuti, fu un geometra di villaggio che intesi parlare in un albergo, dove si dava un banchetto d’addio a un giovane pretore, trasferito in altra sede. Ai primi accenti sconsolati della sua voce accorsi con altri avventori sull’uscio della sala. L’oratore, col braccio teso verso il partente, che era al capo opposto d’una lunga tavola, gli gridava, ma proprio gridava: – Va! ma la tua immagine rimarrà scolpita per sempre, ecc. Va! ma la memoria delle tue elette virtù, ecc. Va! ma non si cancelli dal tuo cuore il ricordo, ecc. Va! … – C’era questo di comico che, dicendo egli a bassa voce, per far un bel contrasto di toni, le frasi intercalate ai Va, ch’eran le sole parole che noi intendessimo, pareva che invece di lamentar la partenza dell’amico egli lo eccitasse bruscamente a liberare al più presto il paese della sua presenza. Ma il viso alterato e la voce tremante dicevano lo strazio dell’anima. Ed è a sapersi che il pretore era trasferito in un paese vicino, dove l’amico disperato, che pareva parlare d’una separazione eterna, avrebbe potuto dare una corsa una volta la settimana. Ma che importava questo? Era un orator convivale patetico, e doveva fare il caso tragico. Se ne vedon molti, a cui la commozione serra la gola, e che son costretti a arrestarsi, soffocati, e quasi singhiozzanti, a mezzo d’un discorso congratulatorio per la conseguita laurea del figliuolo del sindaco o per il compimento di quarant’anni di servizio dell’impiegato telegrafico. Le più volte, finito il discorso, il patetico si slancia ad abbracciare il festeggiato, e se lo tiene stretto sul cuore per qualche momento, in mezzo agli applausi della compagnia; i quali ricomincian più fitti e si prolungano se apparisce, in quel punto un rinforzo inaspettato di bottiglie scelte, ordinate dall’oratore, che suol essere un uomo generoso. L’oratore patetico fiorisce in special modo nei villaggi; è più raro nelle città grandi, dove gli è infesto il senso generalmente più vivo e più acuto del ridicolo. È spesso un impiegato pensionato, per solito un padre di famiglia, quasi sempre un uomo a cui vanno bene gli affari. Quando gli manca ogni altro appiglio a fare un discorso commovente, egli sorge a invocare la concordia e l’ affratellamento degli animi, anche se i commensali appartengano a un solo ed unico partito politico e amministrativo, e non ci sia fra loro neanche una coppia d’imbronciati, e non smette di picchiarsi il petto commosso che quando molte voci lo assicurano che ‘son tutti fratelli’. Allora si rasserena e ringrazia, asciugandosi gli occhi col tovagliolo…

L’imperterrito.

Fra quelli ‘che parlano sempre’ vi son pure dei discreti e dei timidi; ma son più numerosi gli imperterriti, ai quali non c’è manifestazione di noia, né atto di avversione, né aperta villania degli uditori che arresti il corso della parola. Interrotti, apostrofati con beffe e insolenze, raccolgono le interruzioni, ribattono le apostrofi, riattaccano dieci volte il periodo spezzato, fanno fronte alla tempesta con una fermezza incrollabile, per svolgere sino alla fine anche un pensiero vanissimo, come se fosse una grande idea, da cui dipendesse la salute della patria. Solo una scossa di terremoto o il divampare improvviso d’un incendio li farebbero smettere; ma non immediatamente. Ho visto qualche volta i commensali tentar di soffocare la loro voce con uno strepito prolungato d’applausi ironici, e loro, credendo gli applausi sinceri, ringraziare con un cenno grave, invocante il silenzio, e proseguire con raddoppiato ardore. Ne ho visti continuare impavidi il discorso mentre tutti i commensali chiacchieravano ostentatamente, coprendo il suono delle loro parole con un ronzio d’alveare; ne ho visti proseguire in mezzo a un gruppo di vicini alzatisi apposta in piedi per formare intorno a loro come una muraglia di schiene, che li segregava dall’uditorio; ne ho visti persistere a dire mentre dei commensali, andando e venendo a disegno fra loro e la parete, li urtavano e li sospingevano di qua e di là come corpi galleggianti sopra un’acqua agitata; ne ho visti parlare ancora, rivolgendosi ai camerieri e al cuoco ritto sull’uscio, quando tutti i commensali avevan già disertato la sala; ne ho visti lanciarsi dietro ai fuggenti, e urlar loro nella nuca la fine del proprio discorso, a traverso l’anticamera e giù per le scale. Sono oratori che non s’inflettono né s’infrangono. Come nell’uomo in istato d’estasi si sospende l’esercizio d’ogni senso fisico, in modo ch’egli non sente più né pizzicotti né punture, così cessa in loro, quando il furore della parola li invade, ogni sensitività dell’amor proprio, che non offendon più né sgarbatezze né ingiurie. Ho visto a un banchetto un vecchio artista, mentre terminava un discorso serissimo, interrompersi, sentendosi qualche cosa nei capelli, tastarsi il capo con la mano, fra le risate sonore degli uditori, prendere fra le dita un’oca di carta che gli avevan messa sull’occipite, e, buttatala via dopo averla avvicinata all’occhio miope, riprender la parola e conchiudere con calore, senza turbarsi menomamente dell’offesa e del nuovo e più clamoroso cachinno provocato dalla sua indifferenza. Il parlare a un banchetto è per l’oratore di questa famiglia un così imperioso bisogno che a nessun prezzo egli stima pagata troppo cara la voluttà di soddisfarlo. Del giudizio e delle accoglienze degli uditori non si cura, come se parlasse per la posterità. Anzi, quanto è più aspra la lotta ch’egli deve combattere, tanto più egli esce altero dall’ arena. Il trionfo per lui non è negli applausi; è nel riuscire a dire, in qualunque modo, quello che vuole, domando a furia d’ostinazione le forze ostili dell’uditorio. È un tipo che si trova anche nei Parlamenti: l’oratore mulo.

L’ipnotizzatore.

È un’anima spietata. È quell’oratore che, per assicurarsi l’attenzione del festeggiato, cerca ed ottiene alla mensa il posto dirimpetto a lui, oppure, all’ora dei brindisi, va col bicchiere in mano a pregare chi lo occupa di cederglielo per un momento, e di lì sfrena il suo discorso. Da quel posto avanzato, parlando a faccia a faccia al suo uomo, egli ha il vantaggio di farsi sentire anche se tutti cianciano, e di non esser intimidito dai visi beffardi dei commensali; a quasi tutti i quali volge il fianco o la schiena. Ma, per contro, la condizione del festeggiato riesce infelicissima; egli non gli può sfuggire, non può volgere il capo da un’altra parte, bisogna che presti attenzione, che fissi in viso l’oratore, che si pigli le sue lodi in faccia, a bruciapelo, e quasi la sua mimica negli occhi, immobile come una vittima legata; poiché quasi sempre la parola e lo sguardo del tormentatore, a quella vicinanza, esercitano su di lui una specie d’azione ipnotica, che lo rende impotente a ogni tentativo di ribellione. È una maniera di crocifissione laudatoria, che dà degli spasimi ineffabili. Ne vidi un esempio memorando a un banchetto dato a un uomo di lettere nel suo villaggio nativo. La mensa d’onore essendo strettissima, l’oratore, ch’era un pezzo d’uomo, toccava quasi con l’indice, quando allungava il braccio, la faccia del letterato; il quale, fattosi indietro per schermirsi, stava con le spalle addossate alla parete, a cui pareva inchiodato. L’oratore aveva scelto una forma d’apologia terribile, che era l’enumerazione di tutti gli aspetti fisici, dai quali, secondo lui, traspariva l’alto ingegno e l’animo nobile del personaggio. – Guardate – diceva, accennando col braccio teso la sua fronte – guardate quella fronte, su cui è dipinta la bontà, la lealtà, la schiettezza…; guardate quegli occhi in cui scintilla il pensiero e l’ispirazione…; guardate quel naso aquilino, che esprime la forza della volontà e la fermezza…; guardate quella bocca… – Si può immaginare lo stato d’animo in cui si trovava il lodato; ma non l’espressione comicamente ansiosa, anzi angosciosa del suo viso intento e accigliato; sul quale si dipinse un vero terrore quando l’apologista arrivò prima col gesto che con la parola all’ampio petto generoso…- Qualche voce gridò:- Basta!- e non senza effetto, per fortuna. In questa forma ho inteso qualche oratore fare ad un autor drammatico l’enumerazione ammirativa delle sue commedie, a un deputato quella delle sue sette legislature, a un veterano quella delle sue campagne e delle sue medaglie. È una forma di supplizio crudelissimo. Per attenuarlo in qualche modo, soleva un uomo illustre, che andava molto soggetto ai banchetti d’onore, innalzare sulla mensa, fra il suo posto e quello di fronte, una specie di barricata di doppieri e di trionfi da tavola, che lo riparava almeno dai gesti più audaci degli oratori. Ma uno di questi, una volta, indispettito di quegli ostacoli, li rimosse bruscamente mentre parlava. D’allora in poi quegli rinunziò a ogni difesa. E mi diceva che egli rivedeva spesso in sogno il viso dei suoi oratori ‘crocifissori’ anche molti anni dopo la crocifissione. Sono infatti i più pericolosi degli oratori convivali, anche perché qualche volta, nel furore dell’improvvisazione, irritati tutt’a un tratto da un involontario atto di noia del lodato, gli scoccano in faccia a bassa voce, fra parentesi, una mezza insolenza. Paragonando quest’oratore al serpente boa, che stringe fra le sue spire la vittima, si potrebbe anche chiamare: orator constrictor. Chi n’ha esperimentato uno una volta, ha paura della razza per tutta la vita.

L’intemperante.

S’intende, non l’oratore, ma il commensale intemperante, che ha la consuetudine di prender la parola troppo tardi, quando non dovrebbe badar più ad altro che a salvar la dignità col silenzio. Non si trova soltanto fra il popolo; ma anche ai banchetti signorili, non esclusi i politici; e se ne potrebbero citare esempi famosi. Il carattere più notevole dell’eloquenza degl’intemperanti è, nel signore, la vastità nebulosa delle idee, espresse in una forma ondeggiante fra la magniloquenza ciceroniana e la trascuratezza del soliloquio; e nel popolano una tendenza invincibile a parlare dei suoi interessi di mestiere e dei suoi ‘affari interni di famiglia’. Agli uni e agli altri è comune l’illusione che sia altrettanto difficile agli uditori il comprendere il loro concetto quanto riesce difficile a loro l’esprimerlo; donde una ripetizione ostinata delle stesse frasi e specificazioni e similitudini esplicative, anche quando parlano a un festeggiato di grande cultura e di grande ingegno; al quale pestano e ripestano nella testa un’idea semplicissima, come farebbero con un cretino. E sia ‘roba in giacchetta o roba in falda’ l’oratore condito è quasi sempre permaloso, s’impunta a ogni interruzione anche innocente, scambia spesso con una disapprovazione un consenso, e volge contro gl’interruttori delle lunghe digressioni, dopo le quali non ritrova più la via retta del discorso, e finisce a caso, precipitando in una chiusa sbalorditoria. Qualche volta, a furia di reticenze delicate e di sottintesi e di arguzie sopraffini, di cui sorride nella barba, parlando, con altera compiacenza, egli riesce affatto incomprensibile. Altre volte finisce sfidando qualcuno, e poi chiede perdono a tutti. Ma è sempre buono quando il festeggiato è una persona della cui amicizia s’onora: egli si suol commovere profondamente, in questo caso, e chiude per lo più il discorso col naso bagnato di lacrime. La disgrazia è che, per solito, questi oratori hanno la smania di parlare col calice in mano, e di gestire con quella mano; il che costringe i vicini a fare il vuoto intorno a loro per sfuggire alla pioggia vermiglia. Ce n’è di quelli che espandono a un tempo parole, lacrime e vino, dando così di sé e del proprio quanto più è possibile; sono gli oratori espansivi per eccellenza. Una peggior disgrazia è che assai spesso, quando hanno finito un discorso, lo ricominciano. E guai se qualche vicino tira loro il vestito perché smettano: è un’imprudenza gravissima: allora non la finiscon più. Accade anche non di rado, ai banchetti popolari, che dopo aver parlato in italiano ricomincino in dialetto, o che facciano un discorso bilingue, passando alternatamente, senz’ avvedersene, dal dialetto alla lingua, e viceversa, come i fuochi d’artifizio che cambian di colore. Quasi tutti poi, quando i commensali si alzano e forman dei crocchi, s’attaccano come mignatte a qualcuno, a cui chiariscono con commenti interminabili i punti del loro discorso, che credono siano riusciti oscuri, od espongono verbosamente le idee, che hanno taciuto per amor di brevità, o per alte e misteriose ragioni di convenienza sociale o politica. E non è raro il caso che il loro discorso non finito a tavola si prolunghi nella carrozza, dove li insacca un amico compassionevole, che li porta a casa, per rimetterli alla moglie o alla serva; la quale deve qualche volta rattenerli forza, perché voglion tornare all’albergo a dire ancora qualche cosa. La parola veramente ultima del loro discorso non è che quella che muore nel loro primo ronfio.

Il quarantottista.

Si potrebbe anche chiamare il cinquantanovista o il sessantista: è un vecchio reduce vivace e loquace, il quale, a qualunque banchetto si trovi, sia pure per l’inaugurazione d’una nuova birreria o per la prima Messa d’un cugino abate, e anche se cominci il suo discorso a mille miglia lontano da ogni campo di battaglia, va sempre a cascare sull’argomento della patria e della guerra, in cui piglia foco come una girandola, stringendo e agitando il bicchiere come l’elsa di una spada. Il vino, in lui, ha questo effetto singolare: di fargli veder l’Italia in pericolo. Non è raro il caso che, pure essendo stato alla guerra, egli non abbia neppur sentito il rombo del cannone; ma ciò non monta: anzi, di solito, quanto meno egli si è battuto tanto più spesso e più forte tuona ai banchetti, come se fosse suo dovere di dare alla patria fiumi di parole in compenso di non averle potuto dare neanche una goccia di sangue. E quanto più è vecchio, tanto più è bellicoso, e quanto più è tormentato dai reumatismi, con tanto maggiore insistenza e fierezza afferma a pugni chiusi e a collo enfiato che se squillassero un’altra volta le trombe egli sarebbe pronto a partire e capace di rinnovare le prodezze antiche. E bisogna qualche volta che i vicini lo racquetino, assicurandogli che, per il momento, l’orizzonte politico è sereno, e che in ogni caso farebbero tutti il proprio dovere. Del resto, è nei suoi sfoghi guerreschi sincerissimo, ed è anche sincero quando racconta episodi veduti d’una battaglia a cui non è stato, poiché la verità e l’immaginazione si sono da molti anni confuse nella sua coscienza. Egli crede veramente d’essere scampato cento volte alla morte per miracolo, e per quanto sia grasso e sano ed intatto, chiama sempre se stesso un avanzo delle guerre nazionali. Persino ai pranzi di nozze alza la sua miccia accesa, raccomandando alla coppia di educare marzialmente la prole, e fa tremare il cuore alla sposa, la quale, al suono di quella voce, vede già con la fantasia il suo primo bambino con lo zaino sulle spalle e col vetterli nel pugno, in atto di partire pel campo. Né tralascia mai di apostrofare i commensali giovani con parole e tuono in cui è sottinteso il pensiero: – Vi ho dato una patria; a voi di conservarla. – E chiude sovente il discorso con una frecciata contro gli utopisti della pace universale. Poi ricomincia a bere. È per lo più un buon parlatore, avendo fatto su quel soggetto unico un lungo esercizio, col quale s’è formato uno stile oratorio concitato e rotto, rafforzato dall’accento rude e dal gesto violento, che accenna spesso alla medaglia commemorativa. Quando si trovano a un banchetto in parecchi di quella famiglia, tutti parlano, e s’accende fra di loro una nobile gara, e accade di frequente che, mentre l’uno racconta una prodezza propria, l’altro avverte ammiccando i vicini che debbono accettare il racconto con beneficio d’inventario. Ma poi, all’alzarsi della mensa, se il servizio dei vini fu largo, tutti s’abbracciano, e, avviata la conversazione fra di loro, si smarriscono insieme nel fumo delle antiche battaglie. Qualche volta, in un angolo della sala, in mezzo a un cerchio d’uomini, mentre le signore sono in disparte, l’oratore quarantottista s’apre i panni in furia e mostra la sua cicatrice.

L’esplosivo.

Non è un uomo di passioni politiche, né un violento di natura: quando si alza per parlare, non ha alcuna intenzione tribunizia, né alcun sentimento che discordi dalla buona armonia regnante fra i commensali. Esordisce il più delle volte serenamente, con parole liete e cordiali. Ma, tutt’a un tratto, al balenare d’un pensiero, muta di argomento e di tono, e fa una sfuriata predicatoria che lascia tutti stupefatti. È per lo più un buon borghese attempato il quale ha avuto molte disdette, perduto delle liti, patito da autorità e da privati danni e ingiustizie, e accumulato così nel corpo una quantità di malumori, che l’eccitamento del vino e l’occasione propizia fanno prorompere. Ma non fa quasi mai accenni determinati a fatti o a persone: sta sulle generali: comincia con l’augurare che le cose del mondo vadano meglio nell’avvenire, se la piglia vagamente con la malvagità e la corruzione trionfante, lamenta che tutto precipiti al peggio, e poi, accendendosi a grado a grado, come in un comizio pubblico, con voce e gesto di furibondo, fulmina gli uomini e impreca ai tempi. Conobbi un tipo stupendo di questi oratori convivali esplodenti a un gran banchetto di villeggianti: un lungo vecchio, secco, di quasi ottant’anni, che mi sbalordì addirittura. Non intesi il suo esordio, non gli badavo, parlava con un fil di voce. Ma a poco a poco alzò la voce sottile e stridula, e poi gridò con tutte le sue forze, pestando i pugni e i piedi e dimenandosi come un fanciullo che fa le furie: – La giustizia!… La giustizia calpestata sempre di più… calpestata sempre di più… da grandi e da piccoli… calpestata! schernita! vilipesa! La slealtà, la slealtà… la prepotenza… il disprezzo d’ogni legge umana e divina…! – e così avanti, sempre più infuriando, facendo il viso pavonazzo, mulinando le braccia in alto, strozzato quasi dalla tosse, fin che ricadde sulla seggiola, chiese dell’ acqua, e mandato giù un sorso, rimase lì spossato e anelante, col mento sul petto e le braccia ciondoloni. Domandai chi fosse e perché avesse strepitato in quella maniera: mi risposero: – È un gran galantuomo… che fu perseguitato… gliene han fatte di tutti i colori… – E ne intesi altri scoppiar così all’improvviso e spander foco come razzi matti; facendo allusioni a nemici sconosciuti, a guerre sorde, a tolleranze e complicità inique e vili della coscienza pubblica, con parole tragiche e oscure, di cui pochi commensali soltanto comprendevano l’intimo significato. Son pochi, nei villaggi, i banchetti di molta gente, nei quali non esploda qualcuna di queste piccole mine oratorie, di cui bruciava la miccia da un pezzo nascostamente. Ma scoppiano anche, benché più rare, nei banchetti delle città grandi, dove poche frasi dell’oratore, da pochi intese, provocano interruzioni e battibecchi violenti, che la maggioranza dei commensali, volendo che il pranzo finisca bene, soffocano sull’atto; ma che ripigliano qualche volta più tardi, nei crocchi appartati. Non c’è quasi banchetto, si può dire, in cui non sieda qualche commensale esplosivo, che la scintilla d’una parola altrui può far da un momento all’altro saltar per aria, ma che, se la scintilla manca, sta queto. Non tutti, peraltro, sono ad un modo terribili. Molti, dopo fatta la scarica, appena riseduti, si rimettono, e riprendono a discutere tranquillamente coi vicini, come se nulla fosse stato; anzi più sereni di prima, alle volte. Avevano della polvere in corpo, l’han mandata in vapori, son contenti.

L’illuso.

È il più maraviglioso e il più ameno. Ci sono dei bravi cittadini (lo ignora forse più d’un uditore), che, quando li batte cavalieri il ministro dei lavori pubblici (è quasi sempre questo che li batte), invitano se stessi a un gran banchetto d’onore; e non si debbon dare per la festa altra cura che di pagare il conto, poiché si trovano sempre intorno certi amici e conoscenti, i quali, fiutato il loro modesto desiderio, formano un piccolo Comitato segreto, che mette insieme cento commensali, tratta con l’albergatore, presiede agli apparecchi delle mense e dà poi la stura ai discorsi apologetici. Ora, fra quei cittadini munifici ce n’è parecchi che, verso la fine del banchetto, e proprio nel punto che s’alzano per ringraziare, inebriati dai fumi confusi dello Champagne e della lode, dimenticano affatto che son essi i promotori e i pagatori della festa, e che ogni parola d’elogio degli oratori costa loro uno scudo, ed esprimendo la propria gratitudine come se la dimostrazione fosse spontanea, si eccitano a mano a mano, fino ad aver la parola tronca dalla commozione, fino a pianger vere lacrime, e ad abbracciare con uno slancio d’affetto i compari del Comitato, seduti al loro fianco, alla tavola d’onore. Fui presente a uno di questi banchetti, nel quale, oltre alla stupefacente illusione del finto festeggiato, si diede il caso mirabile, che per effetto delle libazioni copiose, la illusione di lui, durante il suo discorso, si comunicò ai commensali, in modo che tutti erano commossi e applaudivano sinceramente, rallegrandosi gli uni con gli altri della loro buona idea e dicendo che eran rari i banchetti d’onore dati a persone più meritevoli; commossi, in fine, a tal segno che nessuno avvertì la comicità infinita d’una frase dell’oratore, allorché, alludendo agli umili principii della sua carriera industriale, esclamò: – Io debbo tutto a me stesso – e nessuno rise neppure quando uno dei commensali, ripigliando ultimo la parola, chiamò quella bella serata ‘una serata impagabile’. Sono casi, come ora si dice di autosuggestione nell’attor principale e di suggestione reciproca fra di lui e la compagnia comica, i quali ai pochi banchettanti, che non vi sottostanno, procacciano un divertimento indicibile. Ed è notevole, benché sia naturale, che l’oratore ‘illuso’ trova quasi sempre parole e accenti schietti di modestia e frasi affettuose per gl’iniziatori ed espressioni calde di gratitudine per il ‘gentile pensiero’ di tutti, le quali non potrebbero essere più vivamente eloquenti se fosse realtà quello che è soltanto una sua illusione. Ne è da credere che questa illusione non sia durevole, perché, s’egli n’esce per poco appena finita la festa, vi rientra e vi si riafferma anche meglio più tardi, via via che si affievolisce in lui il sentimento del sacrificio pecuniario col quale ha comprato gli onori; tanto che finisce con restargli nell’animo, non più misto d’alcun pensiero che lo adombri, il ricordo unico e dolce del suo trionfo di cavaliere e d’oratore, che suol essere il ricordo più glorioso della sua vita.

Lo stonatore.

Appartiene a un gruppo di oratori convivali che si può chiamare ‘dei disgraziati’; i del quali intendo di presentarvi più d’uno. È uno ‘che parla sempre’ e che, prendendo sempre la parola con le migliori intenzioni del mondo, non riesce mai a fare un brindisi o un discorso, che non provochi malumori e rumori, che non urti sbadatamente l’amor proprio di uno o di molti, e non turbi in qualche modo la festa. O, lodando il festeggiato, accenna a un fatto della sua vita che dovrebb’esser taciuto, o nomina ad honorem un commensale invece d’un altro, a cui spetta davvero una parte degli onori della festa, o allude indelicatamente a un’antica inimicizia fra due presenti, che ci han messo su un pietrone da un pezzo, ma che si han per male che sia ricordata, o offende gli ordinatori del banchetto, nell’atto stesso che li encomia, lamentando l’assenza di persone, che essi non hanno invitate, e non dovevano. E quando rettifica, aggrava, e se tenta di giustificarsi, fa peggio. È uno sfortunato che ha la parola naturalmente e incolpabilmente offensiva, uno stonatore nato dell’eloquenza convivale, uno sgarbato incosciente che fa con la voce quello che fanno coi piedi certi villani d’istinto, i quali non possono passare, anche in atto di rispetto, in mezzo a quattro persone, senza far vedere le stelle a più d’una. Cito l’esempio d’un solo, ch’era soprannominato dagli amici il tasto falso, e che ne fece una delle sue, forse la più enorme, a un banchetto in onore di Achille Torelli, ora è più di vent’anni. N’aveva già fatta un’altra il mese avanti, quando, invitato a un banchetto in onore d’un scrittore lombardo, ch’egli non conosceva, invece d’entrare nella trattoria designata, era entrato in un’altra della stessa strada, dove si festeggiava pure con un banchetto un bravo industriale di Torino, e, non riconosciuto l’errore per aver trovato là pure vari amici, si era alzato il primo alle frutta, e aveva incominciato: – Bevo al letterato illustre -; sollevando un gran chiasso, perché era noto a tutti che il festeggiato sapeva appena leggere. Quando si alzò col bicchiere in mano in faccia al Torelli, pensammo tutti: – Ne dirà una grossa. – Era un brindisi in versi martelliani; respirammo, poiché ci pareva meno pericolosa la poesia che la prosa. E, infatti, la cosa andò bene fino alla chiusa. Ma la bomba era nella chiusa. Egli finì con grande enfasi:

Un caldo grido unanime sorge dai nostri petti;

viva l’illustre autore delle Cause ed effetti!

– Non è mio!- rispose secco il Torelli. La ribattuta di Tasto falso fu meravigliosa: – Eh via, signor cavaliere, lei scherza! – Era accaduto che quella stessa mattina, incontrato per la strada un amico, mentre già meditava il suo brindisi, gli aveva chiesto quale fosse il capolavoro del Torelli, per farne il razzo finale, e quegli, per sbaglio o per malizia, gli aveva detto scappando: – Cause ed effetti -; e il poeta non s’era dato pensiero d’accertar la cosa; donde quell’ultimo verso sciagurato, che lì per lì fece ridere, ma lasciò nella compagnia un certo freddo, e come un senso di disagio, che non si poté più vincere. E di casi simili se ne potrebbe citar senza fine, perché gli oratori tasti falsi son molti. Sono gli iettatori dei banchetti, lo spavento dei ‘comitati organizzatori’ e il flagello di dio dei festeggiati. E i più hanno una reputazione stabilita. Quando un d’essi s’alza per parlare, parte dei commensali si fregan le mani in atto di piacevole aspettazione, e gli altri tremano; e quando, per un miracolo, fanno un discorso che passa liscio, gli uni rimangono scontenti, gli altri si rallegrano come d’una rara fortuna. Un tratto particolare dell’oratore tasto falso è di stupirsi sempre degli effetti che egli produce, e di non voler mai attribuirli ad altro che a ‘un malinteso’ di cui non ha colpa lui, ma l’animo mal disposto e l’intelligenza offuscata dagli uditori beoni.

L’oratore dell’equivoco.

È un altro disgraziato, che non può parlare a un banchetto senza lasciarsi sfuggire qualche parola o frase di doppio senso, che desta una ilarità rumorosa; la quale si accresce sempre e si prolunga per effetto dello stupore profondo che produce in lui. Egli suol avere per questo una piccola celebrità burlesca, che lo fa ricercare al banchetti come un oggetto di spasso. La sua disgrazia nasce da certa ingenuità fanciullesca e da una mancanza assoluta di senso comico, per cui non gli cade mai il sospetto che a certe sue frasi o parole si possa maliziosamente attribuire dagli uditori un altro significato da quello che è nel suo pensiero. Di queste gemme oratorie di due colori avrei una raccolta. E chi non ne ha una? Ma le più grosse non si possono esporre: bisogna contentarsi delle minori. A un banchetto in onore d’un medico condotto, nominato cavaliere, del quale era notorio ed antico il disonor coniugale, intesi un oratore esprimer questo concetto: che già prima che ricevesse la Corona d’ Italia, portava il festeggiato, agli occhi di tutto il paese, un’altra corona, ed era la corolla che gli aveva messa in fronte la dea del suoi pensieri: (e qui, involontariamente, fece una pausa terribile): la Scienza. Aver veduto i visi dei commensali durante quella pausa! Parvero tanti specchi al sole, che si rimandassero l’un l’altro i baleni. Un altro, a un sindaco festeggiato, il cui padre aveva fatto un fallimento memorando, disse con voce tonante, segnandolo a dito: – Sin dal giorno che salisti al sindacato, noi tutti pensammo: – Questi non può fallire a glorioso porto; e tu non sei fallito; e non fallirà il Comune amministrato da tanto senno; né, da te educati, falliranno i tuoi figli… – Erano una cinquantina i commensali; nessuno fiatò; ma parlarono le seggiole. E un altro, a un banchetto in onore di una ragazza laureata in medicina, uno sventurato, il quale credeva che il sostantivo carriera, senz’altro, significasse professione liberale, e ignorava che l’epiteto onorata o quel sostantivo accoppiati, riferiti a una donna, avessero nel linguaggio delle bocche leste un senso offensivo, incominciò il suo discorso: – Sin da quando decidesti di far l’onorata carriera… – Dell’esordio pochi soltanto sorrisero; ma quando, volendo dire che, sebbene ammiratore della signorina, egli stimava che alle professioni liberali si dovessero dedicare soltanto le donne dotate di facoltà straordinarie, egli esclamò: – Perché guai, o signori, se tutte le ragazze si dessero alla carriera! – molti non si poterono più contenere, e alcuni esclamarono: – Dio ce ne liberi! – E non ci mancherebbe altro! – Come può pensar di queste cose? – E fu peggio quando soggiunse con accento di rammarico: – Io son troppo avanzato in età per poterti seguire nell’onorata carriera… – Allora fu un coro di risate che toccò lo scandalo. Ed è inutile che questi disgraziati stiano in guardia, benché sian ben pochi quelli che si guardano; hanno la maledizione addosso; sono oratori convivali condannati all’equivoco come certi attori sono condannati alla papera. Ma sono disgraziati per sé, non per gli altri, a cui riescono graditissimi; sono oratori benemeriti del buon umore pubblico; sono i soli che riescano a gittare una corrente improvvisa d’allegria viva in banchetti dominati fin presso la fine dalla più nera musoneria; i soli a cui molti festeggiati debbano il piacere d’udir rammentare per lunghi anni il banchetto onorifico, che, senza la loro uscita divenuta celebre, sarebbe stato presto dimenticato; sono essi i provocatori delle più gustose e sonore risate corali, che possano rallegrare l’anima umana.

L’apoplettico.

È un altro della famiglia degli oratori convivali disgraziati e dei più frequenti; al quale, o per effetto del timore, o per un turbamento della mente inesplicabile (poiché la cosa avviene anche a parlatori tranquilli) manca ad un tratto la parola e il pensiero, come se lo cogliesse in quel punto una specie d’apoplessia intellettuale. Si vedono dei casi veramente pietosi, dei quali non osan di ridere nemmeno i commensali più burloni. Alcuni imbiancano come cenci, e ricascano a sedere senza aggiunger più sillaba; altri, perso il primo filo, dopo un minuto di silenzio angoscioso, s’attaccano disperatamente a qualunque idea baleni loro in quella tenebra, e affastellano proposizioni in cui non è più capo né coda; altri annaspano come naufraghi per riafferrare l’ultima frase o parola che avevano sulle labbra e che s’é dileguata, balbettanti e smarriti, rifiutando ostinatamente tutte le parole o frasi di senso affine che suggeriscan loro i vicini impazienti, come se in quella sola fosse la loro salvezza. Ho visto un festeggiato, un ricco negoziante, non incolto, il quale, volendo esprimere questo concetto: che egli era riuscito quello che era a forza di tenacia, resistendo a tutte le avversità della fortuna e degli uomini, come la quercia poderosa che né sradicano né incurvano i venti (esordio che evidentemente aveva preparato), incominciò: – Io sono come una quercia – e poi si corresse: – Io sono una quercia… – e di lì non si poté più movere, e ripeté non so quante volte, con voce che s’andava affievolendo: – Io sono una quercia… – fin che si rimise a sedere, annientato. E questi offuscamenti repentini dell’intelletto seguono anche a chi recita un brindisi di cinquanta parole o di pochi versi, scritti prima, e imparati a memoria per una settimana. Il mio migliore amico si ricorderà con vergogna per tutta la vita d’essersi alzato a un banchetto in onore dello scultore Costa, per dire un sonetto che sapeva a menadito, nel quale era tratteggiato il ritratto dell’ artista, e che cominciava con le parole: – Biondo crin… – Egli s’impuntò nel crin, che nel dialetto degli uditori significava l’animale nero, e batté sulla disgraziata parola fin che il riso di tutti i commensali lo costrinse a cavar di tasca il manoscritto e a leggere con voce di condannato a morte i quattordici versi iniqui, che gli eran volati via dalla testa come uno stormo di passeri spaventati. Momenti tremendi! Ma sono assai diversi gli effetti che producono questi colpi apoplettici negli oratori convivali che ci vanno soggetti. Alcuni riprendono animo dopo, e, persistendo a riparlare a ogni banchetto, riescono a vincere quel malanno, e diventano qualche volta oratori eccellenti, poiché dell’oratore avevano anche prima le facoltà, ma latenti e come imprigionate in una paurosa diffidenza di sé. Altri, che tali facoltà non hanno, persistono del pari, e fanno ad ogni banchetto un fiasco lacrimevole; preveduto sempre da tutti, ma di cui sempre essi si consolano, con la speranza che sia l’ultimo della loro sciagurata cantina. Ma la maggior parte, dopo i primi colpi, e anche dopo il primo, disperati di sé, rinunciano per sempre alla parola; e fra questi son parecchi quelli che s’ingannano. In ogni grande banchetto cittadino si vedon certi commensali che, all’ora dei discorsi, mostran dagli occhi un desiderio vivo di parlare, e non parlano, e guardano gli oratori fortunati con un’aria malinconica d’invidia e di rimpianto. Sono larve d’antichi oratori convivali morti d’apoplessia.

Il violento contro la grammatica.

Ancor uno dei disgraziati; ma non nel suo concetto proprio, ché non ha coscienza della sua disgrazia, ed è piacevolissimo agli uditori. Eccone un esemplare perfetto che conobbi in anni lontani. Era un artista dello scalpello, non privo d’ingegno, una specie d’atleta, con due spalle enormi e una voce di gran cassa, d’indole buona, ma violenta; il quale parlava a tutti i banchetti, e ogni suo discorso era un disastro. Esordiva lentamente, con l’intento manifesto di parlar pacato e corretto; ma aveva, per sua sventura, un certo ideale d’eloquenza grandiosa, dai periodi guicciardineschi (un vago ricordo di scuola), che, per deficienza di cultura letteraria, gli era impossibile di raggiungere, e, nel corrergli dietro, precipitava. Egli partiva sempre con un grande periodo, in cui raccoglieva tutte le idee accessorie che gli si presentavano cammin facendo, di modo che, poco dopo partito, si trovava con un carico che strapiombava da ogni parte, ravvolto in un garbuglio d’incisi e di parentesi che gli confondevan la testa e gl’intralciavano il passo. Tentava l’uscita di qua, la tentava di là; s’ingarbugliava sempre peggio. E allora gli montava il sangue al cervello. Faceva con la mano erculea l’atto di strappare qualche cosa, come dicendo: – Un uomo della mia forza ha da restar chiuso e legato in questa tela di ragno?- e poi, lacerato sdegnosamente il mostruoso periodo, irrompeva alla chiusa rovesciando e calpestando tutto, lasciando sui suoi passi una vera rovina, un seminio miserando di rottami e di detriti d’ogni regola e d’ogni legge di grammatica e di sintassi; dopo di che si sedeva ansando, come uscito da una lotta fisica, ma sfavillante in viso, come un vincitore. Gli oratori che, come quello, credono di vincere a pugni e a calci le difficoltà grammaticali, e che fanno un discorso come si fa una partita di pugilato, son molti in tutti i campi dell’ eloquenza; ma più in quello convivale, dove il vino raddoppia il vigore e l’audacia. Ce n’è parecchi, che, quando intoppano in una difficoltà, fanno un sorriso sarcastico e minaccioso, col quale paion dire allo spettro della grammatica: – Ora t’accomodo io!- e appunto in quel momento di silenzio, che è una sosta meditata, prendon l’abbrivo per slanciarsi a capo basso contro l’odiosa nemica. Le tavole dei banchetti, in special modo nei villaggi, sono quasi sempre campi di strage grammaticale; la quale è qualche volta così terribile che, se gli spropositi restassero sulle mense in forma materiale, i camerieri dovrebbero durare una notte a far piazza pulita. Questa specie d’ oratore si potrebbe definire: il toro dell’eloquenza convivale. Ma non è tale per tutti. Egli suole avere, fra i meno colti di lui, degli ammiratori sinceri, i quali lo chiamano ‘un oratore di forza’ disdegnoso dei ‘lenocini dello stile’, che ‘parla col cuore alla mano’. Ed è questa appunto la sua scusa, perché, avendo già il cuore nella mano, non ci può più tener la grammatica, e se la mette sotto i piedi. L’oratore violento contro la grammatica è quasi sempre un uomo robusto.

Lo sgrammaticante sereno.

Può anche essere un deputato o un senatore. Ma bisogna intendersi. Non è che non conosca la grammatica, perché, scrivendo e anche parlando, a digiuno, se non la rispetta sempre quanto dovrebbe un par suo, la tratta almeno con certi riguardi, come si suol fare con le persone con le quali non s’ha grande famigliarità. Ma a tavola, dove per effetto del vino, che gli piace, e d’altre forze eccitanti, da cui si lascia vincere, s’addormenta un poco la vigilanza che egli esercita ordinariamente sulle coniugazioni e sulle concordanze, e cede l’impero consueto della sua volontà sull’organo parlante cispadano, ribelle alla lingua italica, a tavola è, tutt’altro affare. Qui egli dà a vedere, maravigliando chi lo intende per la prima volta, che la correttezza passabile del suo linguaggio d’ogni giorno non è che l’effetto d’uno sforzo attento e continuo; ossia, che le parole italiane e le regole grammaticali stanno di solito sotto la sua mano come un branco di ragazzi sotto gli occhi del pedagogo, pronti ad approfittare d’ogni sua distrazione per dargli la baia e far baldoria. Io ne conobbi uno, carico di croci e di legislature, il quale sempre, parlando a un banchetto, dopo il terzo bicchiere di Champagne, malmenava la lingua in modo da farsi bocciare a un esame orale della terza elementare. Il suo scoglio, il suo nemico implacabile, la maledizione della sua eloquenza convivale era il pronome il quale, ch’egli non riusciva una volta a metter d’accordo col sostantivo. – Le strade ferrate, le quale; le nuove imposte, dai quali; le precauzioni del governo, quale che siano… – Non ne imbroccava una. E bisognava vedere il tripudio muto dei suoi commensali avversari quando egli scopriva a quel modo le sue nudità letterarie: ogni suo sproposito era per loro un sorso di ambrosia, e i suoi devoti fremevano, guardandosi le unghie o girando gli occhi per aria. E mirabile era l’inconscienza, la sicurezza felice dell’oratore, al quale ogni sgrammaticatura fioriva sulla bocca vestita d’un dolce sorriso. Sono pochi i banchetti in cui qualche uomo grave e autorevole non mostri così le sue vergogne grammaticali; le quali variano molto dall’uno all’altro; poiché v’è chi ha un tenero per le coniugazioni sbagliate, chi per i trapassi a rompicollo, chi per gli idiotismi temerari o per certe parole comuni usate in un senso remotissimo dal loro senso vero; e v’è anche chi ha il privilegio di condensare in una frase tante piccole e grosse ingiurie alla lingua, che anche a cercarle e a cucirle insieme con
cura non riuscirebbe nessuno a far di meglio. Un amico mio intese questa, testuale: – Io direi al ministro: – Lui, quel progetto, che lo ritira, ché è il più migliore che possi fare. – E sfido a incastonare nell’anello d’un periodo così angusto un maggior numero di gemme più peregrine. Curioso è che questo tipo d’oratore tocca quasi sempre ne’ suoi discorsi ai banchetti il tasto dell’istruzione popolare, e che, in riguardo all’istruzione secondaria, suol essere un propugnatore ostinato dello studio del latino; come certe donne facili, in conversazione, sono le più rigide in materia di morale. Altri suoi caratteri propri sono ch’egli non prepara mai i suoi discorsi, e che non lo intimidisce né gli fa ombra nessuno che parli prima di lui, foss’anche il più corretto e il più elegante parlatore del mondo. Egli ‘sorge’ sicuro, sproposita serenamente, e risiede beato.

L’oratore impedito.

Impedito non dice bene la cosa; ma non ho di meglio. È anche questo un disgraziato. La sua sperpetua particolare è di voler parlar sempre e di non riuscirvi mai. Va al banchetto col suo brindisi preparato; ma, tardando quanto più può, o per timidezza o per la vanità d’aver la battuta di uscita, a prender la parola, o avviene che un altro esprima avanti di lui il pensiero suo, e lo costringa a tacere per non parere plagiario, o ch’egli s’alzi nel punto che la riunione si scioglie, o che sia interrotto alle prime parole dalla banda musicale che rallegra coi suoi concenti la festa… Molti di questi disgraziati s’accorano della cosa a tal segno che escono dal banchetto come da un mortorio, col viso tetro, non guardando più in faccia e non salutando nessuno; e sono più che scusabili, perché, veramente, quella d’un brindisi rientrato è una delle più pesanti e laboriose indigestioni che possa far l’amor proprio. A costoro, nondimeno, suol essere riserbato un dolce conforto, in special modo nei paesi piccoli, dove è uso che la brigata, dopo il banchetto, a mano a mano assottigliandosi, vada in giro di casa in casa a ribere. In queste case ospitali, dove si fa una serie di code alla festa, si sogliono anche fare delle piccole esposizioni di rifiutati dell’eloquenza convivale; e lì ‘l’oratore impedito’ si alleggerisce del suo brindisi, con questo vantaggio per giunta, che essendosi ristretto l’uditorio a un cerchio d’amici intimi, ed avendo tutti in corpo qualche bicchiere di più, il buon successo oratorio riesce più facilmente un trionfo. E poiché il brindisi del ‘rifiutato’ eccita quasi sempre a parlare altri che tacquero, accade per lo più che, succedendo le bevute alle .bevute, e i discorsi ai discorsi, questi si vanno facendo sempre più brevi e stentati, vanno come sbriciolandosi, digradando in brindisi sempre più familiari e grammaticalmente più liberi, fino a ridursi ad apostrofi liriche e sconnesse dirette ai padroni di casa, fino ai brindisi gemelli di due persone che parlano ad un tempo senza avvedersene, fino al soliloquio strampalato, interrotto da suoni involontari, che nessuno ascolta più, e di cui non serberà memoria la mattina appresso neppure chi l’ha pronunciato. Son questi gli ultimi saggi informi, gli ultimi aneliti dell’ eloquenza convivale degradata e moribonda. Ma non ha sempre questo conforto ‘l’oratore impedito’. E allora, quando manca l’esposizione dei rifiutati, egli è infelice senza rimedio; non gli resta più altro sollievo che di dire il suo brindisi all’amico ch’egli accompagna a casa con quello scopo. E quando manca anche. questo, non gli rimane che la moglie. Più d’un brindisi rientrato si riversa sull’origliere coniugale. – Ebbene, hai parlato?- domanda la moglie, svegliandosi. E allora il marito, finalmente, si libera…

Il caposcuola.

Con questo, usciamo dal cerchio dei disgraziati, per ascendere alla regione della gloria. È il tipo che si ritrova soltanto nelle città piccole o nei villaggi dell’Italia boreale; ma non è nativo del luogo: è un italiano dell’Italia media o meridionale, un impiegato regio, o venuto a stabilirsi dov’è, per ragione di parentela acquisita: un oratore nato e provetto, che s’è fatto subito un nome nel paese fin dalla prima volta che ha parlato a un banchetto, stupefacendo con la sua eloquenza impetuosa e immaginosa, tutta fuochi di Bengala e castagnole poetiche, anche se abbia parlato della nuova acqua potabile, e infiammando d’ammirazione i buoni uditori indigeni, usati a parlare e a sentir parlare alla buona e pacatamente un italiano timido e nudo. – Che oratore! – hanno esclamato tutti – abbiamo un oratore! – Eh, che serve? Quelli là soli hanno il dono! – Dopo quel primo buon successo, egli ha parlato a tutti i banchetti, e ha promosso dei banchetti apposta per parlare, passando di trionfo in trionfo. La sua fortuna ha suscitato molte altre ambizioni oratorie, gli ha fatto sorgere intorno dei discepoli e degli imitatori, ha diffuso la passione dell’eloquenza convivale in tutto il comune; il quale è diventato un vero vivaio d’oratori da tavola, come altri sono vivai di giuocatori di pallone. Gli sono cresciuti accanto degli emuli; ma a lui è rimasto il primato, egli è sempre considerato il maestro e a certi banchetti s’accorre dai paesi vicini non per altro che per sentir lui. – È insuperabile nell’arte del porgere – dicono i pochi che conoscono questo verbo nel suo significato aristocratico. – Non c’è che lui – che effetto farebbe alla Camera! – E ad ogni ricorrenza delle elezioni politiche, c’è qualcuno che butta innanzi il suo nome. Ma il caposcuola non è grullo: capisce che si deve contentare del suo piccolo regno comunale, che sarebbe troppo rischioso il tentar di uscirne, e che, nel migliore dei casi, è sempre meglio essere il primo a Roccacannuccia che il secondo a Roma. E, infatti, egli gode nel suo paese d’adozione, come lo suol chiamare, delle gioie d’amor proprio che nel suo paese non ha mai godute né sognate. Quando, a un banchetto, s’alza per parlare, vede tutti voltarsi verso di lui come di scatto; e tutti i visi atteggiarsi d’ammirazione. Mentre parla, sente esclamare intorno a sé, in mezzo agli applausi: – Non interrompete l’oratore! Questo si chiama parlare! – Parla come un Dio! – E dopo il banchetto è sempre accompagnato a casa dai suoi ammiratori più fervidi; qualcuno dei quali, l’ultimo che gli resta al fianco, brillo, gli dice balbettando, e mettendosi una mano sul petto: – Senta, caro… non faccio per adularla… ma io ho sentito Brofferio, ho sentito Mancini, ho sentito… Ebbene, con tutta sincerità… – Regola generale: l’oratore caposcuola non scrive: non affida la sua gloria che all’aria. – Verba – è la sua divisa – praetereaque… – E dimostra di non essere un grullo anche in questo.

Il corteggiatore del giornalista.

È anche questo una pianta che fiorisce di preferenza nei piccoli comuni. La sua grande ambizione è di veder stampato in una gazzetta della metropoli regionale il brindisi o il discorso che dirà al banchetto solenne, e che ha scritto in bella calligrafia da più giorni. Quando il redattore del giornale venuto dalla città, nella sala dove si prende il vermut, vede un signore girare a passo lento da crocchio a crocchio, scrutando con lo sguardo tutti i visi forestieri, capisce subito che il cercato è lui, e che quel signore ha un discorso in tasca, e che quel discorso passerà a suo tempo nella tasca sua. Prima o poi, infatti, quegli riesce a farglisi presentare, lo riverisce sorridendo, si dichiara ’lettore assiduo’ del suo giornale, trova modo di sedergli accanto o dirimpetto alla mensa, e lo colma di garbatezze, lo cova dall’ antipasto alle frutte d’un dolce sguardo continuo, come una bella signora di cui gli dia al capo il profumo. Tutto questo lavoro, molto spesso, non approda a nulla, perché il giornalista non può cogliere che gli alti papaveri dell’oratoria, e il discorso del suo vicino non è di questi; ma quando approda, quando il corteggiato, senza prendere impegno, accetta il foglietto che gli è porto di nascosto, come una letterina amorosa, quasi sempre l’oratore afferra l’occasione per tentar di rifilargli qualche altra cosuccia – o un articoletto su qualche quistione locale – o un raccontino della moglie – o una filza di strofette della figliuola – poiché, di solito, egli è uno che ha della letteratura in casa, da smaltire. A dargli retta, il giornale dovrebbe dare del banchetto un rendiconto di otto colonne. Per questo egli non è mai contento dell’opera del giornalista: giudica il rendiconto laconico, tirato giù alla carlona, pieno di inesattezze e di omissioni imperdonabili, e suole scrivere al giornale una lunga lettera, proponendo aggiunte e rettificazioni, tutte di capitale importanza, assolutamente necessarie; qualche volta con più d’un poscritto, contenente nomi ed elogi d’altri, che gli suggerisce la coscienza onesta, in ritardo, dopo ch’egli ha fatto la parte dell’interesse proprio. Non c’è giornale che non sia tormentato da queste mosche oratorie di villaggio, smaniose di ‘andare in macchina’. Ed è sottinteso che, in generale, il corteggiatore del giornalista ne dice corna, passata la festa. – Giovani senza studi… indelicati… smemorati… arruffoni… – Non vuol sentirne parlare. Il che non toglie ch’egli conservi religiosamente, fra i ricordi di famiglia, la gazzetta di dieci anni avanti, che fa un cenno d’un suo brindisi, già sdrucita alle piegature, dalle tante volte ch’egli l’ha mostrata ai suoi ospiti straordinari; ai quali non manca di far avvertire che quello non è che un sunto, in cui è reso solo vagamente il suo pensiero, sformata quella frase e quell’altra, sciupato l’esordio, rovinata la chiusa. – Ah! disgraziato chi ha da far con la stampa –.

Il poeta.

Si va facendo sempre più raro ai banchetti cittadini, per terrore della critica letteraria che sempre più si divulga e aguzza i denti; ma è ancora in pieno rigoglio nei così detti ‘piccoli centri’ e nei piccolissimi. Ai banchetti rurali manca raramente una portata finale di poesia. Il poeta, di solito, canta in dialetto, non solo per esprimersi meglio, ma per esser meglio capito; ma spesso anche in lingua italiana, nella quale s’attiene alla metrica antica, perché sta ancora studiando la nuova; e qualche volta pure in latino. Non è raro che si serva della forma epigrafica: ne ho inteso qualcuno che, declamando le lodi al festeggiato, pareva che gli dettasse l’epitaffio per la sua tomba. È sovente un maestro di scuola del comune, o un benestante ozioso: talvolta un prete. Il buon successo è sempre sicuro, anche nella stampa, perché il cronista del giornale cittadino usa infallibilmente la medesima frase: – Lesse da ultimo una briosa poesia… – Nel paese, non di meno, per il solo fatto che egli accozza delle rime, non è tenuto in gran conto dalle persone serie, che lo giudicano un uomo leggiero, e un po’ strambo. Ma queste stesse persone, ai banchetti, coi commensali venuti di fuori, lo vantano come un onore del paese. – Non è conosciuto… – dicono, – non sa farsi conoscere… ; ma ha fervido ingegno… una facilità straordinaria… – La sua dote più generalmente ammirata è la facilità. I più colti istituiscono anche dei paragoni. – Non ha la profondità e la forza del Carducci, certamente; ma sotto certi aspetti…- S’intende che la poesia convivale dei villaggi e di sua natura smodatamente adulatoria, perché il poeta è per lo più un povero buon diavolo, che, avendo bisogno di tenersi in buona con tutti, profonde lodi a tutti; donde segue che il nome del poeta, in quei luoghi, vuol dire per i più: un ingegnoso e colto lustrascarpe. Non gli manca però mai qualche caldo ammiratore, il quale, nell’impeto dell’entusiasmo avvinato, dopo il pranzo, gli ripete per la centesima volta, accarezzando gli le spalle, che è ‘ormai tempo’ ch’egli si decida a raccogliere le sue poesie in un volume. Gli applausi dati al poeta, del resto, sono sempre calorosi e sinceri, non solo perché nei villaggi nessuno è geloso dei trionfi poetici; ma più perché una poesia detta a tavola, in mezzo a molte bottiglie vuote, se appena è mediocre, par bella: essendo inette le menti offuscate all’attenzione che scopre le mende della forma, e quindi facili a dilettarsi soltanto dell’armonia del verso, a qualunque prezzo ottenuta, come del suono d’uno strumento. Per questo avviene anche ai banchetti di gente colta, che ottengono un grande effetto certe poesie, le quali, udite all’antipasto, farebbero scrollare le spalle. Oltre ché è da notare che tutti i festeggiati, anche i letterati insigni, sono mirabilmente facili ad ammirare i versi detti a mensa in loro onore. Ne vidi più d’uno, mentre gli si leggevano dei versi da malfattore, picchiare il pugno sulla tavola e dire al vicino: – Ma qui c’è del talento vero! Ma questo è un poeta! -; tanto è difficile che ci paia un asino chi ci loda, specie se la lode gli costò fatica. E queste verità intuiscono vagamente tutti i poeti convivali, anche i più ottusi, la maggior parte dei quali, appunto per ciò, non sogliono poetare che in quelle occasioni, e molti non sanno realmente scriver versi che sulla falsariga d’un menu; così che la raccolta completa delle loro poesie non sarebbe che la cronaca rimata dei loro pranzi. Rimatori rumatori. C’è anche il poeta convivale improvvisatore, che fa il sonetto a rime obbligate; ma questo suol essere mal visto nei villaggi, perché più d’un consigliere comunale, per salvarsi dall’impiccio di dar la rima, è costretto a scappar da tavola, fingendo un’altra cura più urgente.

Il citatore.

Anche l’orator citatore, – quello tipico, s’intende, – è un rurale, e il suo autore prediletto, suo dio e sua vittima a un tempo, è l’Alighieri; non Dante, che è troppo comune. Una prova della popolarità immensa della Divina Comedia è che fin nei villaggi, dove non entra un libro in un anno, sono sparsi nelle menti, sia pure storpiati e monchi, e anche in stato di tritume, un buon numero di versi danteschi, di uso frequentissimo nella conversazione, e in specie nelle discussioni, sopra qualunque argomento esse s’aggirino. L’orator citatore dei banchetti è quello che ne possiede una quantità maggiore, e che li ricorda meglio; il che non vuol dire che ne possegga molti, e che li citi esatti, e che li intenda bene; perché, al contrario, egli è amenissimo per la stranezza delle trasformazioni a cui li assoggetta, e degli intenti a cui li fa servire. Assai prima che dal Ferravilla, intesi da un citatore a un banchetto in onor d’un sindaco, dire nel modo che segue il famoso verso: – Non ti curar di lor; – ma guarda, prosegui il tuo cammino, persisti nell’adempimento del tuo dovere e ricordati sempre che i tuoi amministrati…-; e avanti così: il verso s’allungò, come un serpente mostruoso, fino alla fine del discorso, dove lo troncò un evviva, come un colpo d’accetta. Un altro, al quale la forma poetica nascondeva il significato vero del verbo s’incinse, per fare un complimento al padre del festeggiato, presente al banchetto, gridò al figliuolo: – O beato colui che in te s’incinse! – A un terzo (poiché accade spesso al citatore intemperante di accozzar dei versi che non hanno a che fare fra di loro) udii esclamare:

Come torre che non crolla
Sotto l’usbergo del sentirsi pura.

Un’ altra proprietà del citatore è di riferire sovente al suo personaggio tutta una terzina, anche se ci sia un verso in opposizione assoluta con una qualità essenziale di quello. A un ricco signore benefico disse un oratore:

E se il mondo sapesse il cor ch’egli ebbe

Mendicando sua vita a frusto a frusto,

Assai lo loda e più lo loderebbe.

E, lasciando Dante, ecco altre perle. Alludendo a certi casi di corruzione elettorale, un oratore esclama: – C’è del putrido anche a Villarpecetto, come dice Amleto! –

– Morte! – grida un altro, tendendo il braccio verso il festeggiato: tutti lo guardano esterrefatti; quegli continua: sol ti darà fama e riposo.

Il citatore si serve spesso anche dei proverbi, e non c’è cosa più amena dell’accento solenne e dell’aria trionfante con cui egli mette fuori qualche volta il proverbio più trito, come se bandisse una verità da lui scoperta, e destinata a illuminare il mondo: – Signori! Chi troppo vuole nulla stringe! – oppure: – Signori! Non dir quattro se non l’hai nel sacco! – Ma il suo forte son sempre le citazioni poetiche; non per altro che per le citazioni egli fa il suo discorso, che ne è quasi sempre tutto intessuto; egli pensa a citazioni. E non importa che non ricordi i nomi dei poeti, o non ne sia sicuro: per non sbagliare, dice: – il poeta – oppure: il cigno di… – se sa dove il poeta è nato. Non di rado s’arrischia anche al latino; raramente al francese; rarissimi i casi di citazione inglese; ma si danno, e producono un effetto straordinario. Del citatore si suol dire da tutti nel villaggio che ha una memoria meravigliosa, e tutti gli son grati perché dà alla festa un carattere di dignità intellettuale. Ma, purtroppo, è un tipo che va scomparendo col diffondersi della cultura letteraria. Non c’è più villaggio dove non ci sia qualche studente d’Università, e quando c’è uno studente a tavola, il citatore si perita, procede più guardingo, non è più ‘quel desso’. E quando egli sarà scomparso affatto, ahimè! una delle più schiette dell’antico riso sarà inaridita.

Il lettore.

È il peggior flagello dei banchetti. Ebbene, si spieghi un po’ questo: come uomini assennati e colti, che hanno acuto in ogni altra cosa l’intuito delle convenienze e fine il senso del ridicolo, che avvertono in un libro o in un discorso altrui o in una scena di commedia ogni minima violazione delle leggi dell’opportunità e della misura, e se ne impazientano fino alla collera, come possano andar a legger a cento commensali col boccone in gola e col vino al capo otto grandi pagine di prosa ragionante, scritte in carattere pidocchino. Eppure questi signori ci sono, e anche sfiatati, che non si fanno sentire da dieci vicini, e miopi, che intaccano alla lettura d’ogni frase, e lettori monotoni, che metton fuori le parole col borbottio d’una cascatella d’olio. Ho visto uno scienziato insigne, canzonatore argutissimo del prossimo, leggere a duecento banchettanti un quaderno di considerazioni profonde, provocando a ogni voltata di pagina un lungo mormorio di sgomento, che lo interrompeva, e che, pure egli non capiva, dopo il quale ricominciava da capo il periodo con una placidità spietata, che sollevava nuovi lamenti e nuovi fremiti, invano. Vagellamenti della cecità dell’ amor proprio. Uomini inesplicabili e spaventevoli. Il solo dilettevole, tra la famiglia degli oratori-lettori, è quello il quale legge un discorso, che s’è fatto scrivere da un altro, e ch’egli comprende male, per essere scritto in uno stile superiore alla sua educazione letteraria. Il caso è assai meno raro di quello che si pensi, perché molte volte non lo sospetta alcuno, e il gioco rimane un segreto fra lo scrittore e il lettore. O buon’anima… ! Non nomino la buon’anima, perché era buona veramente, e debbo rispettare la sua memoria; ma credo che più d’uno degli uditori l’abbia già nominata in cuor suo. Era un onesto negoziante che si faceva comporre i discorsi convivali da un avvocato; il quale, in quello che fu l’ultimo (un discorso di ringraziamento semi-politico agli amici che festeggiavano con un banchetto la sua assunzione a presidente di non so che cosa) gli fece il tiro malvagio di seminare una quantità di parole straordinarie, ch’egli sapeva difficilissime a leggersi dal suo committente oratorio, i cui muscoli labiali erano incredibilmente restii alla pronuncia italiana. Al banchetto, noi vedemmo il povero lettore turbarsi alla vista d’ogni parola difficile come all’apparizione d’uno spettro minaccioso, e sostare per preparar la bocca all’emissione dei suoni inusitati, e poi balbettar la parola divisa in due, apocopata o stravolta, contraendo la fronte rimbrunita; fin che venne alla frase più tristamente insidiosa, la quale, per esprimere il concetto che in politica convien guardarsi del pari dal rimanere immobili e dall’andar nelle nuvole, diceva: – … guardarsi ad un tempo dalla stalattitificazione e dalla volatilizzazione delle idee. – Ahimè! Quelle due parole furono due catastrofi. E furon certo quelle che gli smascherarono il tradimento, poiché, all’ uscita della sala, mentre sonavano ancora gli applausi dati alla bella chiusa del discorso, dove non erano insidie, l’incauto avvocato, che credeva d’averla fatta franca ancora una volta, si sentì mormorare all’orecchio da una voce tremante, ma più di dolore che d’ira: – Ah, vigliacco infame! – E dopo d’allora il buon negoziante si fece fare i discorsi da un altro. Ma questo caso piacevole, e altri simili, sono rari. I lettori da tavola sono generalmente i più insopportabili della insopportabile famiglia dei lettori; benché ci siano anche fra di loro, come tra le bevande narcotiche, delle varietà notevoli. Le quali io tralascio per non trattenere troppo lungo tempo me e voi nel ricordo delle ore eterne, maledette, fredde, grevi, che essi hanno messo nella mia vita, e certamente anche nella vostra.

L’uomo del telegramma.

C’è in quasi tutti i banchetti d’onore, ed è quasi sempre uno che nei banchetti non fa che quella parte modestissima, la quale è qualcosa di mezzo fra il discorsetto, che egli non saprebbe fare, e il silenzio, a cui non potrebbe rassegnarsi. Egli suol proporre di mandare un telegramma di saluto e di congratulazione al sindaco della città o del piccolo comune, dov’è nato il grand’ uomo che si festeggia, e la sua sete di gloria è pienamente appagata dai pochi applausi e dal breve mormorio d’approvazione con cui è sempre accolta la sua proposta; la quale è di quelle che non si possono respingere. Se è un banchetto patriottico o politico, egli propone di mandare un telegramma al primo aiutante di Sua Maestà, o a un ministro, a un deputato assente. Se il personaggio festeggiato è nativo della città dove si pranza, egli trova pur sempre un qualche suo parente lontano, a cui gli par ‘doveroso’ di mandar un saluto da venti soldi. Ma no; non c’è qualche volta neppure un parente, o non si conosce, e in più d’uno di questi casi ho visto l’uomo del telegramma non solo afflitto, ma irritato: l’ho inteso esclamare con accento sforzato di scherzo: – Ma non ha dunque più un cane al mondo questo benedetto… – Ma non è questo il guaio peggiore che gli può toccare; poiché l’idee, come suoI dirsi, girano per l’aria, e accade qualche volta che l’idea del telegramma baleni a un altro, il quale fa la proposta prima di lui, dandogli una stoccata in mezzo al cuore. Allora, per aver modo di sorgere, non gli resta più che il disperato appiglio di proporre una colletta seduta stante a benefizio delle vittime di qualche disastro recente, o di qualche istituto benefico fondato di fresco: cosa che fa a malincuore, perché gli tira addosso delle occhiatacce. Ma è raro che sia tanto disgraziato. Il dispaccio si può quasi sempre mandare, e, naturalmente, è incaricato di scriverlo lui, che finge di cercar la frase, ma che potrebbe rispondere come Rosina al barbiere: – Il biglietto… eccolo qua. – E allora è felice. Ah, quei telegrammi convivali ai sindaci, che amena varietà d’effetti producono! Essi rivelano qualche volta a un municipio l’esistenza d’una gloria municipale di cui gli era ignoto anche il nome; o vanno a spaventare, a ora tarda, un povero sindaco di villaggio, che lascia cascar di mano i tarocchi, sospettando una destituzione fulminea o l’annunzio d’una sventura nazionale; o arrivano come un raggio di sole in una piccola farmacia, dove i nomi dei sottoscritti, illustri nella politica e nelle arti, sono letti ad alta voce nel crocchio, e fanno gongolare d’alterezza municipale gli uditori, lontani mille miglia dall’immaginare che molti dei banchettanti hanno appreso per la prima volta quella sera il nome del loro paese, e che questo non avrebbe avuto mai tanto onore se uno di essi non avesse avuto altro pretesto che il telegramma per dir due parole e ottener quattro applausi. Tulle queste cose, ed altre consimili, volge nella fantasia l’uomo del telegramma, sorseggiando l’ultimo calice, e in se stesso s’esalta.

Quello che non parla.

L’ultimo è il più raro e il più amabile della schiera che abbiamo passata in rassegna. Sì, ci sono degli uomini, anche di natura espansiva, e colti, e felici parlatori in conversazione, e anche italiani, i quali non parlano mai ai banchetti, perché non osano; oh, mai al mondo, neppur per tutto l’oro del mondo. La forza che li rattiene è una profonda diffidenza di sé, un terrore morboso d’ogni riunione dei propri simili, una specie di pudore della parola pubblica, istintivo, invincibile, come quello della verginità santamente virtuosa. È curioso osservarli ai banchetti, dove sono ascoltatori attentissimi degli altri, e oltremodo facili all’ammirazione e all’applauso, perché per loro tutti quelli che parlano in pubblico, comunque parlino, sono oratori nati, anime intrepide, leoni della parola. E si rifiutano ostinatamente a parlare anche quando sarebbe dover loro per ragion delle persone o delle idee che rappresentano alla festa, o per i vincoli di professione o d’affetto che li legano al festeggiato, e non parlano neppure ai banchetti che son dati in loro onore; o anche provocati da una tempesta di brindisi, sollecitati, pregati, minacciati del risentimento dei commensali, rimangon muti. Il solo silenzio che si fa di quando in quando alla mensa, quando qualcuno annunzia che essi stan per parlare, li fa impallidire di sgomento. È raro pure che essi ardiscano di leggere quattro righe di ringraziamento scritte a casa. Se qualche volta le scrivono, all’ultimo momento, dopo lunga e agitata incertezza, le fanno leggere da un altro. Uno di questi fu il buon Casimiro Teja, che, dopo aver preso parte a un migliaio di banchetti d’ogni specie, morì a sessantasette anni assolutamente vergine di discorsi; che non parlò nemmeno al grande convito per il trentesimo anniversario del suo Pasquino, dove non fece altro che salire sulla seggiola e inchinar il capo e allargar le braccia, senza cacciar fuori nemmeno il grazie che aveva nella gola. È un altro della famiglia l’illustre scultore Tabacchi, che, dopo aver taciuto come un pesce a tutti i banchetti che gli furon dati in trent’anni, lesse un discorso all’ultimo che gli fu dato a Torino; e vi sfido a indovinarne il perché: perché teneva per fermo (Dio sbugiardi l’empia fede) che fosse l’ultimo banchetto d’onore della sua vita: e si scusò dicendo:- Non è un discorso, ma un testamento. – Ma il più timido e il più caro dei taciturni fu il compianto Giacinto Gallina; il quale una volta sola, credo, ebbe la tentazione di parlare, e fu in occasione del pranzo che gli fu dato a Torino per la Base de tuto. Nella tentazione lo indussi io stesso, pregandolo a lungo, e dimostrandogli con molte ragioni che doveva parlare: promise, preparò un discorsetto di poche righe, e me lo disse la mattina: era una piccola meraviglia di arguzia e di grazia: ero contento: dicevo tra me: – L’udrò parlare una volta, finalmente! – Mi ripeté la promessa, stringendomi la mano, all’entrar nella sala. Dopo che tutti gli altri ebbero parlato, s’alzò un suo amico, e incominciò: – Invitato da Giacinto Gallina ad esprimervi l’animo suo…- Tradito! Cercai il suo sguardo per fulminarlo: egli si guardava la palma della mano. Adorabile Giacinto!