Cominciamo dalla fine. È il 1968 e in un’Italia che si scopre ricca ma socialmente inquieta si festeggia il cinquantenario dalla fine della Grande Guerra: viene emanato un francobollo speciale e il presidente Giuseppe Saragat nel suo discorso di fine anno ricorda «la completa unificazione del territorio nazionale e del popolo italiano» avvenuta con il sacrificio di centinaia di migliaia di uomini sul fronte. A coloro che sono sopravvissuti lo Stato offre la possibilità di visitare, con un forte sconto, i luoghi che li hanno visti combattere: il Carso, l’Isonzo, l’Altipiano. E infine il luogo che in qualche modo vuole riassumerli tutti: il sacrario di Redipuglia. Quei luoghi testimoniano un’Italia altra che la ricostruzione postbellica ha nascosto, dimenticato, imbellettato. Ma non agli occhi di chi li ha visti cinquanta anni prima.
Rivisitiamoli anche noi con gli occhi di un reduce, un “ragazzo del ’99” che, dopo la sconfitta di Caporetto, è stato arruolato, per ribaltare le sorti di un conflitto che nel 1917 sembrava perso. Quel soldato si chiama Vincenzo Rabito e ha da poco intrapreso la scrittura della sua autobiografia: dall’infanzia vissuta da caruso siciliano fino all’esperienza bellica prima sul Piave, poi in Africa e poi ancora durante l’occupazione militare della Sicilia. È la lunga, è la seconda guerra dei Trenta anni che sconvolge prima l’Europa, poi il mondo: dal 1914 al 1945. Rabito ne è travolto in pieno, proprio lui che nato nel piccolo paese di Chiaramonte Gulfi, vicino Ragusa, non conosceva interamente neppure la sua Isola. Ma la Storia si muove al di là dello Stretto e lo costringerà a varcarlo più e più volte, sempre nel dubbio se poi potrà ritornare.
È una sorta di ciclica e confusa odissea la vita di Rabito. Il tentativo di narrarla vuole riportare ordine nel caos di una materia che brucia e che, ancora, nel 1968 non è stata pienamente rielaborata, quasi che a ricordare troppo il passato questo potesse rivivere, con i lutti e la fame che si trascinava dietro. Ma Rabito non ha paura: lui visita i luoghi della Storia e della memoria e li rielabora in una lingua meticcia di siciliano e di italiano. Una mescolanza che richiama Verga, ma solo inconsapevolmente: perché Rabito è analfabeta e quel poco che conosce dei segni della scrittura li ha appresi da bambino, osservando la sorella fare i compiti. Ora anche quei segni riemergono: come se le parole, i ricordi, gli accadimenti viaggiassero, tutti e tre insieme, sugli stessi binari che ora nel 1968 lo stanno riportando alla stazione di Gorizia. Stavolta con lui c’è il figlio Giovanni, universitario a Bologna, appassionato di studi letterari e scopritore nel 1999, quasi vent’anni dopo la morte del padre, di un dattiloscritto di mille pagine che, inviato all’Archivio diaristico nazionale di Pieve Santo Stefano, sarà successivamente rieditato e pubblicato nel 2007 dalla casa editrice Einaudi con il titolo di Terra matta.
Ma nel 1968 Rabito ancora non sa che il percorso a ritroso che ha intrapreso è destinato a condurlo a una postuma gloria letteraria. Ora conosce, come l’Ulisse di Giovanni Pascoli, solo la cogenza del viaggio che l’ha condotto sulle sponde dell’Isonzo:
L’acqua dell’Isonzo era tutta per fare ciardina e ortaggio, e il fiume non faceva tanto impresione, e pareva bello. Mentre quanto c’era la querra faceva paura a quardarllo, perché era pieno di proietele e bomme ammano e tante muortte, che per non le potere prentere, perché c’erino tante bombardamente continive, e lì, queste muorte smacievino, e il fiume, l’Isonzo, faceva tanta paura a tutte, mentre ora era tanto bellissimo. Così io era spaventato di quanto era bello questo fiume, e mentre, 52 anni fa, era spaventato di paura che questo fiume ci avevino muorto diverse centinaia di migliaia di soldate italiane e di tutte li nazione che erino in querra. E quante civile hanno morto in questo fiume l’Isonzo! (p. 391).
Lo spavento può nascere dalla bellezza e dalla paura, dice Rabito. La bellezza appartiene alla natura, al presente, alla conoscenza dell’ignoto. La paura si rifugia nell’uomo, nel passato, nell’approfondimento del rimosso. Ma dallo spavento, dalla paura e dalla bellezza nasce il sublime che si può annidare consapevole nelle liriche ungarettiane di Allegria di naufragi, o timido nelle pagine di Rabito. Il suo Isonzo è quello della lirica I fiumi, in cui il poeta-soldato si immerge alla ricerca di una simbolica catarsi dalla lordure della guerra, di un intimo e laico battesimo che lo deterga dalle azioni compiute. Ma per Rabito l’unica catarsi possibile è nel riscatto materiale del corpo: ora ha un letto, ora ha da mangiare.
E penzava che erimo tutte povere descraziate, picole soldate che non dormemmo mai sopra il letto e sempre dormiammo fuore, e butate piede piede, e tutte strapate e tutte piene di fanco e piene di priucchie, e speciarmente d’inverno, che faceva molto freddo, e tanta fame che avemmo. E ora io, a Gurizia, era corcato in quello bello letto di lana, e tra me pensava propia a quella mia brutta cioventù passata, e ora, nella vecchiaia tutto questo bello confurtto. […] poi, penzava la fame che io aveva, e in quei tempe, c’era tanto sanque e tante pene, e ora c’era tanto bene…come cancino a tempe! Così io aveva nel cuore mio una crante sodisfazione a vedere quelle luoche, che non cercava neanche manciare (p. 392).
Il confronto con chi si era e con come si viveva non può evitare il raffronto con i bisogni corporali. Deve partire da lì. Rabito, da contadino e da soldato, lo sa, non lo dimentica. E infatti la sua autobiografia esordisce con la disperante necessità di cibo che la sua numerosa famiglia deve procurarsi per sopravvivere alla povertà e ai lutti: essa è tanto stringente che induce il protagonista a guardare ironicamente alla vita fatta e definita con una arguta antifrasi «bella» e poi con un efficace tricolon sinonimico «maletratata», «travagliata» e «desprezata»:
Questa è la bella vita che ho fatto il sotto scritto Rabito Vincenzo, nato in via Corsica a Chiaramonte Qulfe […] chilassa (ndr. classe) 31 marzo 1899. La sua vita fu molto maletratata e molto travagliata e molto desprezata. Il padre morì a 40 anne e mia madre restò vedova a 38 anne, e restò vedova con 7 figlie, 4 maschele e 3 femmine, e senza pensare più alla bella vita che avesse fatto una donna con il marito, solo penzava che aveva li 7 figlie da campare e per darece ammanciare. […] ed era io, Vincenzo, che così piccolo sapeva che mia madre aveva molto bisogna dai figlie, perché era senza marito. Io non la voleva sentire lamentare perché non aveva niente per darece ammanciare ai suoi figlie. I tempe erino miserabile, li nostre parente erino miserabile come noie. […] Quinte io fui nato per fare una vita molto sacrificata e molto desprezata. […] Io era picolo ma era pieno di coraggio, con pure che invece di antare alla scuola sono antato allavorare da 7 anne, che restaie completamente inalfabeto, […] ma magare molte di fame. Ma io mi piaceva il manciare, ma mi piaceva magare di cercare il lavoro (pp. 3-4).
Eppure, nonostante l’analfabetismo a cui la tristezza dei tempi involontariamente lo trascina, Rabito esibisce sin dall’incipit un inaspettato vigore narrativo, che nemmeno l’incertezza iniziale fra la narrazione in prima o in terza persona intacca. Anzi, essa può essere interpretata come una sorta di bilinguismo narrativo ed etico, che oscilla fra l’orgoglio di chi rivendica la forza caratteriale e l’audacia, con cui si è imposto sulla Storia, e l’umiltà di chi si vergogna per l’inadeguatezza culturale della propria opera, anch’essa ibrida linguisticamente di forme siciliane e italiane, orali e scritte. L’originalità di questo impasto fa sì che Terra matta possa essere definita, parafrasando Philippe Lejeune (LEJEUNE 1986, p. 16), una «vera stele di Rosetta dell’identità», in cui dominano «la contingenza, lo sdoppiamento e la distanza ironica». La contingenza è quella di un vissuto ancora caldo nel suo fluire; lo sdoppiamento è quello fra il Rabito analfabeta e il Rabito scrittore; la distanza ironica è quella che, attraverso eufemismi ed iperboli, rende accettabile alla memoria ciò che si è vissuto: pure la fame e la sopraffazione.
Accanto a queste tre coordinate ermeneutiche dell’autobiografia, Lejeune ne fornisce un’altra, utile per comprendere il manufatto di Rabito: «la passione per il nome proprio». Lo studioso francese, infatti, scrive:
L’autobiografia è il genere letterario che, per il suo stesso contenuto, esprime meglio la confusione sulla quale è fondata tutta la pratica e la problematica della letteratura occidentale a partire dalla fine del XVIII secolo. Da qui la passione del nome proprio, che supera la semplice vanità d’autore poiché è la stessa persona che, attraverso esso, rivendica la propria esistenza. Il soggetto profondo dell’autobiografia è il nome (LEJEUNE 1986, p. 35)
È ciò che accade anche in Terra matta, che si apre in modo formale e formulare con una dichiarazione anagrafica che non solo mette a conoscenza il lettore di chi si è, della propria discendenza, del luogo di provenienza ma aspira ad essere una sorta di dichiarazione d’intenti, di inconsapevole atto fondativo del genere, di abbrivio alla costituzione di sé stesso in narratore. Ma se da narratore lui è Vincenzo Rabito, da soldato invece sarà Vincenzo Arrabito per potere essere chiamato prima nell’appello del rancio, che si svolgeva in ordine alfabetico:
Io aveva una abituteme in tutte li forrarieie di fareme chiamare non con il nome di Rabito, che era il cognome propia, ma mi faceva chiamare Arrabito. E il motivo era questo: che quanto in compagnia devedevino manciare opure davino la cinquina, prentevino sempre comencianto della «a», e io che era della «erre» sempre prenteva all’ultimo. Tanto fece che mi ho fatto chiamare Arrabito, e mi chiamavino tutte quase Arrabito Vincenzo. Tanto nella midaglia c’ene il mio nome e cognome «Arrabito Vincenzo». Ma questa volta mi ho trovato frecato…E quinte, venne un ordene che nella città di Ancona ha scoppiato una revolta, e in tutte li cetà d’Italia c’era l’inferno. […] E quinte, l’ordene che venne, non a Ferenze solo, ma per tutte li cità vicino Ancona, fu per antarece soldate a compattere in questa città di Ancona. E quinte, queste soldate che ci dovevino antare, li prentevino della prima lettera dell’ordine alfabetico e fenevino nella lettra «emme», quinte io, per mia mala sfortuna, mi hanno chiamato il primo! Ed era per questo che la mia brutta vita era sempre arrabbiata, perché sempre penzava di fareme bello e invece mi faceva tanto male, perché era nato per bistimiare sempre (pp. 146-7).
Il tradimento del nome è un gesto di hybris, che accosta parodisticamente Rabito a Prometeo, che rubava il fuoco agli dèi per permettere agli uomini di mangiare. Esso valorizza la capacità umana di sopravvivenza all’atavico problema della fame; ma in quanto sfida al destino viene simbolicamente punito con un sovraccarico di sofferenze, che il protagonista accetta, perché sa di esserne responsabile, ma che cerca di trascendere con l’unico strumento che conosce: la bestemmia.
La blasfemia ha la funzione di veicolare la rabbia del protagonista, di esonerarlo parzialmente da insostenibili vincoli etici e di circoscrivere il suo orizzonte di senso, improntato a una religiosità popolare che vede Dio al pari di Zeus: dispensatore capriccioso di fortune e di sfortune, che o premiano o affliggono gli uomini, senza chiari criteri di merito. È una visione ancestrale del sacro che, pur inserendosi apparentemente nel cristianesimo, confina con il paganesimo perché delega al fato ciò che è sotto il controllo del libero arbitrio oppure ciò che sfugge a una spiegazione razionale. Essa ricorda le vicende verghiane dei Malavoglia e testimonia il perdurare, presso le classi sociali meno acculturate, di un ambivalente modo di rapportarsi al sacro: impregnato di cieca pietas o della più irosa empietà. In Terra matta prevalgono l’irriverenza e lo scetticismo, radicati in Rabito sin dalla fanciullezza segnata, proprio come un personaggio verghiano, dalla morte del capofamiglia:
Mio padre, con quelle tempe miserabile, per potere campare 7 figlie, con tanto lavoro, ni morì con una pormenita, per non antare arrobbare e per volere camminare onestamente. Ma il Patreterno, quelle che voglino vivere onestamente, in vece di aiutarle li fa morire (p. 3).
La massima finale ha valore gnomico e denuncia la rassegnazione fatalistica che lui, come già prima di lui i membri della famiglia Toscano, avevano dovuto abbracciare perché incapaci di rispondere alla più elementare delle domande: «Quale male avemmo fatto?» (p. 21). A questo interrogativo Rabito rinuncia a dare risposta per tutto il corso della guerra, a cui da ragazzo del ’99 è chiamato a dare il suo contributo di freschezza e gioventù. E anche nei primi giorni della leva, quando assieme ai suoi commilitoni è ospitato in una chiesa, di fronte alla scarsezza del cibo e dei vestiti commenterà che «dentra quella chiesa menomale che sante non ci n’erino, perché, con le tante bestemie, certo li faciammo sperire. […] E così il nostro conforto era la bestemia» (pp. 22-23).
La natura consolante della bestemmia, che deriva dalla consapevolezza di essere tutti coinvolti in una “malavita” (p. 40), è del resto sottolineata anche da altri scrittori di guerra come Paolo Monelli (1891-1984), ufficiale degli alpini e autore di un celebre memoriale bellico intitolato Le scarpe al sole. Cronaca di gaie e di tristi avventure d’Alpini, di muli e di vino ed edito a Bologna nel 1921. Egli fa notare che:
Le bestemmie che tirano per scandire la marcia- il cappellano lo sa benissimo- non sono che un mezzo magico per sopportare la fatica, simile all’ansito ritmico ad ogni colpo di pistoletto, simile all’aha aha quando tirano un pezzo da 149. Una buona bestemmia disimpegna l’otturatore che s’incanta, spezza in due la galletta, aiuta ad infilare le scarpe gelate, strappa il tappo della bottiglia di grappa che l’amico conducente ha regalato – lui che viene dal tepore della stallab – perché metta un po’ di caldo dentro (MONELLI, 1921, pp. 68-9).
E così mentre Monelli guida i suoi sottoposti, originari per gran parte del bellunese, sul Monte Grappa, Rabito, appartenente al reparto zappatori della fanteria e collocato sul fronte delle Melette, combatte la battaglia di Monte Fior e si ritrova per tre giorni abbandonato:
Dal Padre Eterno, senza rancio e senza dormire, perché li mule che dovevino portare la spesa erino morte pure, e poi che la strada era tutta voltata sotto e sopra con li cannonate. Ed erimo tutte strapate e piene di fanco. E il nostro elimento era la bestemia, tutte l’ore e tutte li momente, d’ognuno con il suo dialetto: che butava besteme alla siciliana, che li botava venite, che le butava lombardo, e che era fiorentino bestemiava fiorentino, ma la bestemia per noie era il vero conforto. […] Tutte erimo redotte senza penziero, erimo tutte inreconoscibile, erimo tutte abandonate dal monto (p. 55).
La battaglia di Monte Fior, che funge da battesimo per Rabito, è quella a cui ha preso parte anche Emilio Lussu (1890-1975) come ufficiale della Brigata Sassari. Egli la racconterà nel romanzo autobiografico Un anno sull’altipiano (pubblicato prima in Francia nel 1938 e poi da Einaudi nel 1945), in cui con tono lucido e disincantato denuncia l’impreparazione dei vertici militari italiani, i quali tennero per un anno (giugno 1916-luglio 1917) numerosi reparti dispiegati sull’Altipiano di Asiago nell’inutile tentativo di conquistare una vetta che si riteneva la chiave di volta della guerra. Ma sulla presa di quella “chiave” è lo stesso Lussu che, pur da interventista, ironizza:
Su quella chiave, i comandi, per non perderla, hanno ammassato una ventina di battaglioni […]. L’idea è sbagliata di sana pianta. […] E allora? Allora, niente. Perché se noi siamo degli imbecilli, non è detto che di fronte a noi vi siano dei comandi più intelligenti. L’arte della guerra è la stessa per tutti. Vedrà che gli austriaci atteccheranno Monte Fior, con quaranta bataglioni, e inutilmente. E siamo pari. Questa è l’arte militare (LUSSU 1945, pp. 26-7).
L’inefficacia delle azioni militari italiane spinge a un cambio di vertice alle Forze armate: dopo la disfatta di Caporetto, il generale Cadorna viene sostituito dal generale Diaz. È lo stesso Rabito, che raggiunta la linea del Piave, registra l’evento e prepara il lettore al racconto della battaglia decisiva per la vittoria italiana. Il narratore è consapevole di aver fatto, come ragazzo del ’99, la Storia e da una parte lo rivendica con orgoglio, dall’altra lo depreca perché, rivisitando a posteriori l’evento, sa di essere stato membro di una generazione di eroi imbrogliata nelle intenzioni e nelle speranze: eroi sì, ma «eroi fessa!» (p. 81):
E così, come dice la Storia, si hanno destinto li ragazze del ’99, che ci hanno portato tutti sul Piave cridanto: «Di qui non zi passa!» Perché noi ciovene del ’99 erimo più sencere per fare la querra, perché l’abiammo defeso per davero la Padria, perché quelle che avevino fatto 2 anne di querra erino più furbe per scapare per non si fare ammazzare, come hanno scappato nella retrata di Caporetto. Così, per fare fermare a queste 24 divisione – li più migliore esercito che avevino queste 2 crante impere-, ci hanno voluto la buona coraggiosa volontà delle ragazze del 1899, perché la prova che poi ci fu è che, di queste valorose ciovene, nella crante battaglia del Piave, mi hanno morto il 50 per cento, e il 75 per cento forino ferite e pricioniere, e quente fummo pochi quelle che restammo, che uno è questo Rabito Vincenzo, che, per raccontare queste fatte, quello che scrivo non sono bucie, ma sono fatte vere (p. 77).
L’esigenza di sottolineare agli occhi del lettore la sincerità della propria opera è, come indica Lejeune, uno dei tratti distintivi dell’autobiografia assieme all’identità fra autore, narratore e personaggio. In Terra matta questa attestazione di autenticità i lettori la incontrano ogni volta che lo scrittore vuole marcare i momenti di rottura della propria esistenza: quelli che, sempre secondo lo studioso francese, sono:
Il vero atto di nascita del suo io: se astrattamente la rottura può apparirci come una degradazione, essa è in realtà anche una fissione, una sorgente prodigiosa di energia sprigionata all’improvviso, e usata per un intenso lavoro di costruzione. L’urto è puntuale, l’energia liberata sembra indefinita. […] l’ingresso nella storia è irreversibile: ma il processo, nel momento in cui scatta, assume forma di ritorno (LEJEUNE 1986, p. 141).
Le riflessioni di Lejeuene scaturiscono dalla lettura del libro fondante dell’autobiografia occidentale moderna: Le Confessioni di Rousseau. Esse, tuttavia, ben si adattano anche a una autobiografia orale e popolare come quella di Rabito, il quale giudica la sua entrata in guerra come uno strappo nel suo microcosmo, una sorta di traumatico passaggio di formazione individuale e generazionale che lo costringe a fuoriuscire dall’ambito familiare per costruirsi come persona nel sociale. Eppure è in questa crepa che si insinua l’aspirazione alla narrazione, la quale fa sì che la messa nero su bianco dei ricordi sia la ricostruzione non solo del passato ma di un nuovo e più ambizioso progetto per il futuro, che in qusto specifico caso è farsi narratore. Ecco che se volessimo far nostra la considerazione di Gerard Genette per la quale ogni racconto non è che la mostruosa espansione di una frase iniziale, come dimostra il capolavoro archetipico l’Odissea che accresce una unica frase iniziale, «Ulisse torna a casa», potremmo allora affermare che la cellula narrativa iniziale di Terra Matta è «io mi faccio scrittore». A partire, appunto, dalla Grande Guerra, che amplia l’universo del protagonista dalla chiusa cerchia familiare siciliana all’indistinta massa di uomini travolta dalla Storia e dalla carneficina: italiani e austriaci, soldati e borghesi, uomini e bestie:
Quinte, tutte li soldate italiane ci abiammo trovate immenzo al fuoco. Li soldate cascavano per terra, senza che nessumo avemmo il tempo di vidire se era vivo o morto, opure ferito. […] Così, tutte non si ha penzato altro – quelli che erimo vive-: «Questa volta, si muore», perché non c’era altro scampo che la morte, perché non se combateva con il fucile a sparare, ma se travino bombe ammano di tutte li parte. […] Quente, tutte restammo immienzo al fuoco. E poi, immienzo a questo fuoco, si ce trofavino magare li borchese, poverette, con tutte li piceridde e con tutte li massirizze: mule, cane, piecore, maiala, e tutto le suoi misere ricchezze… (p. 77).
Da contadino e pastore, cresciuto fra i latifondi e gli allevamenti siciliani, Rabito non manca di avere riguardo, nella rievocazione iconica della battaglia del Piave, per quegli animali che prima dello scoppio del conflitto avrebbero potuto essere motivo di benessere e solidità economica e che ora, invece, sono degradati ironicamente all’ossimoro «misere ricchezze», che riconduce Rabito alla sua attuale dimensione di soldato non più «cristiano», ma «macellaio». E non più di carne animale, ma di carne umana.
Di fronte alla disumanizzazione in atto, pure il miraggio ideologico di combattere per la grandezza della Patria, che era stato sventolato come una bandiera dagli interventisti, sembra assottigliarsi fino a divenire prima un’ombra da allontanare dalla vista e poi un obiettivo farsesco da aggredire con la parola per smascherare la vacuità della retorica bellica:
Così, qualcono magare moreva per la «crantezza della Padria!». Che «la Padria aveva ancora bisogno di noie!». E quinte, «se se moreva per la Padrie, non zi moreva! E che moreva per la Padria moreva di un bravo soldato». Quinte, erino belle parole «morire di aroie», ma erino parole che facevino compiare li coglione, se tutte la penzavino come la penzava io.
La rudezza di questa constatazione appare tanto più dirompente se paragonata a simili rilievi presenti In Lussu o in Monelli. Un anno sull’Altipiano si apre con una recusatoria contro le dimostrazioni oratorie di uomini d’armi e politici che già nel 1916 predicono vittorie dopo averle lette «nel libro del destino» (p. 17). Ma come annota Lussu: «dove fosse quel libro, certo, nessuno di noi […] lo sapeva. E ancora meno che cosa fosse scritto in quel libro irreperibile» (p. 17). Allo stesso modo, dice Lussu, nelle assemblee pubbliche si inneggiava alle «belle e sublimi attrative» della guerra, come morire per la patria: «la sentenza era classica» (p.17) e sembrava voler dire che si era più belli da morti che da vivi.
L’inganno dei discorsi politici è pari a quello dei documentari e servizi che si proiettavano nei cinematografi per informare l’opinione pubblica sull’andamento della guerra, per attutire le preoccupazioni dei familiari dei soldati ed esortare le nuove leve a combattere. L’effetto fittizio è ricercato: lo rileva Paolo Monelli che in un giorno di congedo si reca al cinema, dove:
Proiettavano la battaglia di Ala. Che era qualcosa di buffo, una concezione quarantottesca, truppe al Savoia! Per quattro sullo stradone, piume di bersaglieri e trombe che suonavan all’attacco, ufficiali caracollanti, austriaci in fuga in ordine chiuso. Io espressi le mie proteste e la mia meraviglia con un po’ di esuberanza. Ma il mio vicino mi guardò brutto e mi disse: – […] Cosa volete venire a raccontarmi la guerra come la fate voi! Lasciate che me la goda riprodotta come me la figuro io (MONELLI 1921, p. 83).
All’enfasi fraudolenta di politici, militari e mezzi di comunicazione, contro cui si scagliano Lussu e Monelli, Rabito aggiunge quella dei cappellani, vocati a rincuorare le truppe e ad alleviare le loro sofferenze spirituali e materiali attraverso udienze private e messe pubbliche. Il giovane siciliano riporta, a tal proposito, un episodio accaduto il giorno di Natale del 1917. Durante la notte un austriaco di origine triestina e di madrelingua italiana si era presentato al loro avamposto chiedendo di essere preso come prigioniero. Affidato in consegna a Rabito, viene portato a messa e, quando ascolta il prete pregare affinché il Signore possa concedere alla truppe italiane la grazia della vittoria, con una risata interrompe la predica e avverte sia Rabito sia i soldati attorno che:
Sono tutte li stesse prete, che la domenica passata il nostro prete ci ha detto, quanto ci hanno portato alla messa, ci ha detto propia li stesse parole, che il Dio ci aveva a fare una crazia, che l’Austria doveva «scacciare il potente nemico», che ene l’Italia, e «vincere questa sanquinosa querra»… – E il triestino redeva, e non sapiammo perché redeva e ha detto che forse ci sono 2 Patre Eterne, uno è in Italia, e uno ene in Austria, e non ci capeva niennte, e rideva e fece redere a tutte, che il prete si aveva compiato li coglione e ni ha detto:- Che ci l’ha portato a questo che va contra la relicione? Portatelo fuori dalla messa!- Così, io mi ne sono antato, perché il prete si aveva innervosito. E poi lo hanno portato al campo di concentramento, era uno che diceva la veretà (p. 58).
In un contesto che aspira a trasferire la sacralità della messa a quella della guerra, la risata del triestino appare, al pari della bestemmia o del tradimento del nome, come un gesto di hybris, di sfida alle sovrastrutture di pensiero dominanti che tendono a identificare la religione come un instrumentum regni o, ancor peggio, a instrumentum belli. Ecco che l’ilarità del personaggio incrina la ritualità del momento e l’ipocrisia comune, generando una sorta di parabola al contrario: quella dei due Padri Eterni, italiano e austriaco, che vegliano sui due eserciti spingendoli al successo. La blasfemia, ancora una volta, è riconosciuta come deposito di verità e, come tale, è osteggiata dalle autorità.
È quanto accade in un altro episodio simile di Terra matta, in cui l’irrisione del sacro è interpretabile come ribellione all’assurdità del conflitto e come cartina al tornasole della stupidità dei comandi. Durante una veglia notturna, Rabito e i compagni scoprono una cassa seminascosta alla vista e la sotterrano nella speranza di rinvenire del denaro. Trovano, invece, una statua di S. Antonio con una croce e un bambino in braccio. Così, con uno spirito goliardico che le atrocità in corso ancora non hanno cancellato, prendono la statua, che è ad altezza d’uomo, la mettono alla porta con un elmetto in testa e un fucile in mano:
E ci abiammo fatto fare la quardia, e tutte noi vicino che quadammo. Quinte abiammo fatto cose che solo le ragazze di 10, 13 anne l’avesseno potuta fare…E abiammo fatto questo: di farece fare la sentenella assanta Antonio! Così, si ha trovato che venne uno oficiale di specione. […] quinte l’oficiale entrava e la sentenella non ci ha fatto il saluto, e l’oficiale ci ha messo uan mano nella spalla, decentoce: – Bestia, che faie dorme?! – E Sant’Antonio cascavo, e quello ci ha detto: – Animale, io l’ho detto che davero duorme!- Così, responte uno napolitano che intialetto ci ha detto: – Che, non lo vede che quello eni Sant’Antonio, e lei ci ha detto «animale»? E così, socesse la fine del mondo, quella notte, che l’oficiale ni voleva sparare. Poi si alza il sercente, il caporale e il caporale maggiore…E menomale che ci perdonareno…(p. 91).
Il perdono finale è rivolto più che ai fanti semplici, irriguardosi verso le gerarchie religiose e militari, a sè stessi, così presi dagli obblighi da non essere capaci di distinguere una statua da un uomo. A differenza loro, invece, i soldati mostrano una sagacia così beffarda da esser degna di un eroe comico delle novelle di Boccaccio. Essi, infatti, sono in grado di rovesciare umoristicamente la situazione, già di per sé irrisoria del sacro, in cui si trovano coinvolti. E così la trasformazione della statua di Sant’Antonio in sentinella, che bonariamente poteva ricordarne l’originaria funzione protettrice e patronale, trascina involontariamente l’ufficiale alla bestemmia. Egli bollerà la vedetta come «bestia» ritenendo che sia un uomo, fin quando un sottoposto lo smaschererà e lo rimprovererà con un tono canzonatorio, accentuato dal vernacolo napoletano.
Se la lingua dei comunicati ufficiali e dei comandi è infatti l’italiano, quella del loro dileggio non potrà che essere il dialetto, a cui tutti i soldati rimangono aggrappati perché è l’unica che conoscono, dato che nessuno ha pensato di accompagnare il servizio militare con un percorso di alfabetizzazione della lingua italiana, che rendesse almeno utile quanto vissuto.
È lo stesso Rabito che non manca di osservarlo: «e quinte restaie senza lavoro e senza niente, e non aveva imparato niente con cinque anni di soldato, solo che mi aveva imparato a bestimiare. E quinte la vita di borchese per me era una vita peggio di quella che fece militare» (p. 152).
L’amarezza per non aver appreso nulla che potesse elevare la sua condizione sociale, tranne che «l’arte di arranciarsi» (p. 24), corroderà sempre l’animo del contadino, del soldato, del disoccupato sempre in cerca di un lavoro stabile. E solo quando diventerà padre, egli potrà riscattarsi attraverso i figli, a cui vorrà garantire quella istruzione che gli era stata negata:
Perché io penzava che a causa di non essere stato mantato alla scuola, perché padre non ci n’aveva, sono stato volte maletratato dai disoneste che comanteno e offatto una vita troppo maletratata. E quinte per questo devo per forzza fare studiare ai miei figlie. E i miei figlie, se vuole il Dio, la vita meschina che offatto io non ci la voglio fare fare. E io tutto quello che scrivo, magare che si capisce poco, è tutta veretà, perché io ci ho tante e tante prove (p. 347).
Ancora una volta la dichiarazione di autenticità accompagna un momento di svolta personale: il cambio generazionale e l’ascesa sociale della famiglia, costruita pur con varie tribolazioni. Questa affermazione, però, si accompagna a due elementi nuovi: le prove a sostegno della verità e la cognizione di essere poco chiaro, date la commistione linguistica fra dialetto siciliano e lingua italiana e la mancanza di una struttura sintattica tradizionale. Eppure la mancata aderenza a un modello letterario e grammaticale classico non inficia il capolavoro in nuce in Terra matta; anzi il testo appare tanto più irruente nella sua ricostruzione storica e individuale quanto minore è la cura formale con cui è stato scritto.
Tale paradosso è spiegato da Lejeune, il quale sostiene che l’eccessiva cura formale è incompatibile con il patto autobiografico, perché:
Una scrittura troppo accurata o troppo chiara desta nel lettore di autobiografie una diffidenza di cui pptrebbe difficilmente sbarazzarsi, pur comprendendo che manca di fondamento. […] per essere logici, bisognerebbe legare la sincerità all’uso di una scrittura di grado zero, alla banalità e al disordine, e si tornerebbe a credere che l’autobiografia abbia la funzione di rivelare un contenuto precisamente alla sua forma e che ogni forma, ogni sforzo di stile non potrebbero che alterare o dissimulare. […] Come dice Gide, solo gli spiriti molto semplici raggiungono l’espressione sincera della loro personalità. Perché una personalità nuova si esprime sinceramente solo in una forma nuova. La frase che ci appartiene deve restare tanto difficile da tendere come l’arco di Ulisse (LEJEUNE 1986, p. 218).
E Terra matta è come l’arco di Ulisse, perché mira verso il passato per individuarne i bersagli da rimuovere o da salvare e per disegnarne i centri concentrici: la famiglia, la Sicilia, la guerra, la Storia, Dio. E infine per riconciliarsi idealmente con sé stesso e con tutti i sacrifici fatti, per perdonarsi di tutte le bestemmie pronunciate, attraverso il perdono del Signore, che si è materializzato con il successo scolastico dei figli: «E così, io mi trava il conto che tutte i sacrifizie che io aveva fatto il Dio mi l’aveva pagato, compure che io, per lo meno in tutto il tempo che aveva stato al Comiso, aveva bistimiato più assai di tutte li uomine desperate» (p. 348). Chiusi i conti con Dio e riscattatosi dalla condizione di disperato in cui era nato, Vincenzo Rabito può guardare più sereno alla sua terra e alla sua vita, matte e amate.
LEJEUNE Philippe (1986), Il patto autobiografico, Il Mulino, Bologna
LUSSU Emilio (1945), Un anno sull’altipiano, Einaudi, Torino
MONELLI Paolo (1921), Le scarpe al sole. Cronache di gaie e di tristi avventure d’alpini, di muli e di vino, Cappelli, Bologna
RABITO Vincenzo (2007), Terra matta, a cura di Evelina Santangelo e Luca Ricci, Einaudi, Torino