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il sublime rovesciato: comico umorismo e affini

Copertina Numero 14

 aprile 2017

Saggi e rassegne

Emanuela Scicchitano

Il contro-futuro prossimo di Ippolito Nievo

Libro zero: utopia e ucronia

«Il paradosso sta dalla parte dell’accaduto: dall’altra parte se ne sta, sconfitta, quella che chiamiamo (sebbene con ottimismo) logica delle cose» (MORSELLI 1975, p. 121): è quanto suggerisce, con disillusione ironica, Guido Morselli nell’Intermezzo critico che accompagna il suo romanzo ucronico intitolato Contro-passato prossimo. Un’ipotesi retrospettiva, nel quale ipotizza che la Prima Guerra Mondiale sia stata vinta dagli Imperi Centrali a danno dell’Intesa, a cui l’Italia apparteneva. In questo rovesciamento storico si annida, tuttavia, il dubbio che l’ipotesi interpretativa e fittizia del fatto sia più autentica del fatto stesso e che il tradimento della verità sia una sua più sottile traduzione, offerta a un lettore desideroso di infrangere la superficie più evenemenziale. È quanto lo stesso autore ribadisce nell’Intermezzo, in cui immagina di chiacchierare con il suo alter ego, il personaggio dell’editore, che incarna non solo i dubbi del mondo della carta stampata, con cui egli ebbe un rapporto di silenziosa ostilità, ma quelli del lettore medio, dubbioso sulla validità della «fanta-politica» o «fanta-storia»:

il famigerato prefisso, ‘fanta-‘, allude a escogitazioni rivolte all’avvenire. Qui si tratta di res gestae, per mostrare che erano gerendae diversamente: si polemizza su fatti e persone della realtà. Siamo con i piedi sul concreto. […] Questa che io chiamo “ipotesi retrospettiva”, meno gratuita di quanto non sembri, rintraccia uomini che sono vissuti o che attendibilmente potevano vivere e, su quelle premesse, con quelle sollecitazioni, agire. […] la cucitura del ‘contro-passato’ sul passato, nel racconto, diventa visibile proprio nel punto dove il congruo e il sensato si sostituiscono all’incongruo e insensato, ecc… (MORSELLI 1975, p. 117)

Cucire un’ipotesi sul passato significa quindi camminare lungo il percorso del tempo e del significato logico degli eventi a rebours, infrangendo gli schemi della consequenzialità con cui siamo stati abituati a pensarli. E, del resto, il superamento del cronachismo è proprio l’abbrivio iniziale della letteratura ucronica che, su modello e a completamento di quella utopica, costruisce percorsi storici alternativi a quelli avvenuti e rispondenti alla domanda: “se fosse accaduto che…?” Se il fondatore teorico dell’utopia è stato Thomas More, quello dell’ucronia è stato Charles Renouvier, che nel 1857 pubblicò il saggio Uchronie. Ma l’ucronia già attraversava come un fiume carsico la letteratura occidentale ed era destinata a trovare nel Novecento una riemersione violenta: il secolo breve delle guerre e delle rivoluzioni aveva acceso domande e pensieri artificiosi sui destini individuali e collettivi, sul contro-passato prossimo delle nazioni che si erano sfidate sul ciglio della distruzione.

Ma se Morselli nel 1972 si interroga ucronicamente su “come sarebbe il presente se in passato fosse accaduto che…”, Ippolito Nievo nel 1859 si interroga ucronicamente su “come sarebbe il presente se nel futuro accadesse che…”: il presente a cui pensa è quello dell’Italia risorgimentale che sta per conquistare l’agognato simulacro della unificazione, mentre il futuro a cui pensa è quello del 2222. Ma tre secoli a venire non sono sufficienti a segnare un vallo di confine che possa separare due mondi: il 2222 nieviano non è uno pseudo-futuro e non è pura fictio perché, facendo nostre le parole di Morselli, anche il racconto di Nievo:

ha a contrassegno, e come sola giustificazione, due elementi: il dettaglio, inseguito con accanimento, perché analitica, una sommatoria di dettagli è la nostra esperienza, anche collettiva; e una attendibilità che rasenta l’ovvio. (MORSELLI 1975, p. 120)

L’attendibilità del futuro nieviano poggia sulla immissione di fantasia ironica nell’interpretazione del presente e nella precisione dei dettagli con cui il contro-futuro prossimo ci viene fornito sin dalla Introduzione della Storia filosofica dei secoli futuri fino all’anno dell’era volgare 2222 ovvero fino alla vigilia in circa della fine del mondo , pubblicata sulla rivista umoristica “L’uomo di Pietra” a cui Nievo collaborò a partire dal 1857. Al 1858 risaliva un suo articolo, utile per comprendere lo spirito che animava quella redazione, intitolato Attualità in cui dichiarava:

La vita, figlioli miei, tutti vi diranno che è la composizione più umoristica del mondo; nessuno vi dirà che la sia né tutta allegra né tutta tetra, né tutta correvole né tutta irta, né tutta rosea né tutta nera. L’è appunto essenzialmente umoristica per la mescolanza che avviene in essa di tutti questi elementi così disparati. L’umore oscilla fra i contrapposti, come la verità pratica.

(NIEVO 2003, p. 41)

Libro primo: Una storia scritta da un cervello postero

Ed è sulla verità, capace di farci leggere il reale in controluce, che il narratore della Storia filosofica lavora come se essa fosse un «negativo fotografico» (NIEVO 2003, p. 46) su cui appaiono su sfondo nero segni bianchi scritti da un «postero cervello» (p. 46) che ci mostra chi siamo e chi fra poco diventeremo: nel capovolgimento ludico della Storia filosofica la posterità non è il destinatario, ma il mittente del messaggio in bottiglia giunto nelle mani di Ferdinando de Nicolosi, il filosofo chimico che ora si accinge a farcelo conoscere dopo averlo salvato dall’oblio.

Questa storia a posteriori si divide in cinque libri che seguono le vicende italiane ed europee: dalla pace di Zurigo (1859) alla pace di Lubiana; dalla pace di Lubiana alla federazione di Varsavia (1960); dalla federazione di Varsavia alla rivoluzione dei contadini (2030); e infine la reazione e moltiplicazione degli omuncoli (2066-2140) e il periodo dell’apatia (dal 2180 al 2222). Ne risulta una «contro-realtà (un po’ più che semplice realtà di segno contrario). Rimanendo tuttavia nei termini del realismo» (MORSELLI 1975, p. 119) e nei confini della parodia. Ne è un esempio la riflessione proemiale sulla guerra:

a quei tempi, quando le passioni peccavano per eccesso di attività e non erano ancora inventati gli omuncoli o uomini a macchina e di seconda mano, i dissidi fra le nazioni erano terminati con un mezzo spicciativo, che si chiamava la guerra. Questa era un’arte inventata e perfezionata a bella posta per distruggere gli uomini; e siccome gli uomini a quei tempi erano turbolenti e cattivi, quell’arte era in monte benemerita della civiltà. Peccato che infino allora i più turbolenti e cattivi l’avessero adoperata a loro totale beneficio ed a scapito dei tranquilli e dabbene! Ma questi ultimi, appunto nel 1859, cominciarono a imparare dai loro oppressori, rendendo ad essi, come si dice pan per focaccia, e questo avvenimento di suprema importanza per la storia dei secoli futuri successe nell’Italia settentrionale. Quanto alle cagioni che tolsero dal codice delle nazioni quel mezzo esecutivo e sanguinario della guerra, se ne discorrerà più ampiamente al periodo dell’arricchimento universale e della moltiplicazione degli omunculi. (NIEVO 2003, p. 48)

Sullo sfondo delle guerre d’Indipendenza, con cui l’Italia risorgimentale aspirava alla liberazione dalla presenza straniera sul proprio territorio, Nievo attiva la finzione retrospettiva dello sguardo postero che giudica negativamente il passato e, anzi, si spinge fino al punto di confutare e rovesciare il paradigma retorico della laudatio temporis acti. Non le res gestae, ma le res gerendae, di cui ci aveva parlato anche Morselli, diventeranno per noi lettori magistrae vitae perché tramite il tono comico ci avvieranno all’arte della critica e dello sbeffeggiamento. E così alla satira della guerra come mezzo di risoluzione dei conflitti internazionali, segue immediatamente quella della «censura, ch’era a quanto pare una museruola per l’intelligenza, ma di cui ora si stenterebbe ad immaginare il congegno» (NIEVO 20013, p. 49). Gli omuncoli, infatti, che sono destinati nel futuro a sostituire gli uomini, non potrebbero nemmeno concepire il meccanismo censorio di cui, nel 1859, poteva essere vittima Nievo e chi, come lui, professava nel Lombardo-Veneto austriaco idee indipendentiste e, perciò, mal aveva digerito le decisioni diplomatiche prese durante il Congresso di Vienna, che aveva celebrato la restaurazione dei confini statali antecedenti alla rivoluzione napoleonica. Vivo ancora questo malessere, Nievo teme che l’unificazione, che dovrebbe sopraggiungere, venga nuovamente boicottata dagli altri stati europei chiusi a difesa dellostatus quo. Ma a rassicurarlo giunge il suo alter ego futuro:

successe la pace di Lubiana, che francò l’Italia dai barbari, per dirla con Giulio II, e la liberò insieme dalle barbarie del suo successore, limitando il suo dominio temporale alla città e campagna di Roma. Questa fu la pace di Lubiana che avviò mirabilmente l’unificazione d’Italia, lasciandola divisa in due soli regni, i quali per riunirsi non altro sembravano aspettare che la decadenza assoluta del potere teocratico temporale, e il ritorno di Roma alla sua condizione storica e geografica di capo delle genti italiane. […] Ora tutte queste cose, se non furono perfette, certe incominciarono a smuoversi negli anni che susseguirono al 1859, e intorno all’epoca del trattato di Lubiana.

Libro secondo: fra Pasquino e il Papa

Ed eccoci giunti, nella lettura, al Libro secondo della Storia filosofica, la cui ricostruzione giunge fino al 1960 e si concentra, in particolar modo, sulle vicende dello Stato della Chiesa, verso il quale il narratore mostra uno sferzante spirito anticlericale, come emerge dall’assunto iniziale:

prima di tutto, se il poter temporale d’un pontefice è in se stesso assurdo, possieda egli poco o molto, l’assurdo rimane sempre. E poi il conservar qualche cosa dell’antico patrimonio lasciava sempre una segreta lusinga di riacquistarlo tutto, e scaldava gli animi gesuiteschi a congiurare contro il poter secolare e a danno della patria. S’aggiunga che l’occupazione papalina di Roma vietava la completa unificazione d’Italia, escludendo l’unico centro in cui potessero compenetrarsi i due regni Muratiano di Napoli e Sabaudo dell’Alta Italia. Perciò gli Italiani gridavano contro il papato; e gli stranieri, che se ne intendevano poco, gridavano contro di essi. Non mancarono anche gli apostoli della pace che consigliavano la pazienza: ma la pazienza è un bello averla quando i malanni son fuori di casa (NIEVO 2003, p. 54)

In questo passo è l’anima garibaldina e repubblicana a parlare e a rievocare uno dei nodi storici del lento percorso di unificazione italiana: la presenza al centro della penisola dello Stato Vaticano che, sorretto militarmente dall’esercito francese, aveva sin dall’Alto Medioevo contrastato ogni tentativo di modificare l’assetto politico italiano. Già Francesco Guicciardini aveva denunciato questa debolezza italiana e tre secoli dopo Nievo continua a ribadirlo sotto forma di contro-intuizione storica, simulando di preoccuparsi per una città che, governata da un potere teocratico ormai fortemente prostrato, potrebbe correre il pericolo di «rimaner spopolata, e abitata unicamente da Pasquino e dal papa» (NIEVO 2003, p. 53), mentre Russi e Inglesi la spogliano delle sue antichità.

Nelle paure nieviane sembra rivivere l’eco della esperienza di Carlino Altoviti che, nelle pagine coeve delle Confessioni di un italiano, vediamo giungere nella Città Eterna all’indomani della proclamazione della Repubblica Romana avvenuta il 15 febbraio 1798. Lo spirito giacobino di Carlino dovrebbe esultare di fronte alla riacquisita libertà del popolo romano ma in lui si annida il timore dei disordini popolari che potrebbero travolgere l’Urbe come già era accaduto a Venezia. Per cui Carlino confessa che:

la Roma di allora invece mi empieva di rammarico e quasi di spavento. Il papa se n’era andato senza scherni e senza plauso; perché avendo dovuto rimettere molto della pompa e della magnificenza con la quale era solito vivere, il popolo non se ne accorgeva più di lui. Dallo splendore della corte e delle cerimonie, più che dalla virtù e dalla santità della vita si misurava l’eccellenza del principe del cristianesimo. Una confusione di cose venerabili per religione e per età vituperate, di schifezze levate a cielo e splendidamente decorate, di stupidi superstiziosi e di vili rinnegati, di saccheggi e carestie, di epuloni e di affamati, di frati cacciati dai conventi, di monache strappate ai loro ritiri, di cardinali inseguiti dai cavalleggieri, e di cavalleggieri scannati dai briganti; tutto andava a soqquadro, si rovesciava alla perdizione; giudice del bene o del male il talento annebbiato od illuso d’ognuno. […]. Nessuna semente maggiore di discordia e di ribellioni future che questa opinione dei popoli che cambia in altare il patibolo.

(NIEVO 2004, pp. 614-5)

Osservando questi eventi sanguinosi e inaspettati per chi, come Carlino, aveva nutrito ambizioni utopistiche di libertà e riscatto, il narratore si rifugia con rassegnazione nella constatazione che nessun popolo, che sia stato per secoli oppresso dalla corruzione, dall’ozio e dalla servitù, può insorgere democraticamente; la mancanza di cultura democratica farà defluire l’assolutismo verso l’anarchia e l’utopia verso la distopia. E la tensione narrativa e storica verso la distopia attraversa, in modo interstiziale, tutta la scrittura nieviana, per bilanciare in modo ironico e disincantato l’idealismo di cui autobiograficamente si nutriva.

Libro terzo: la Buona Novella

Mentre il potere temporale della Chiesa sembra irrimediabilmente indebolirsi, trascinando con sé secoli di dominio spirituale e culturale sulle popolazioni europee, si rinvigorisce il desiderio di spiritualità delle persone. E così la società occidentale, alle soglie del 1960, è sempre più ansiosa di accogliere nel suo grembo messaggi palingenetici e messianici, senza valutare i rischi di un fervore immediato ed empatico verso il primo che possa dichiararsi profeta.

Nel secolo XX, narrato nella Storia filosofica, si condensano quindi i miti dell’età dell’oro di cui già Virgilio nella IV Egloga dava testimonianza, preconizzando la nascita di un bambino che avrebbe segnato l’inizio di nuovi destini per l’umanità. Nell’opera nieviana non è un bambino ma un contadino boemo «cognominato Giovanni Mayer» a mettere fuori la voce «ch’egli era il Messia, ch’era venuta la pienezza dei tempi, e che per opera sua il secolo d’oro o il vero millennio avrebbe cominciato nel mondo» (NIEVO 2003, p. 59).

Su chi si celi dietro questo personaggio si è interrogato Emilio Russo, curatore dell’edizione più aggiornata dell’opera, che basandosi su un criterio di prossimità onomastica ipotizza un riferimento a Enrico Mayer, pedagogista illuminato di metà Ottocento. Tuttavia egli scrive che l’autopromozione di Mayer a messia è da inquadrare nella prospettiva politica e filosofica di Charles Fourier, fondatore di comunità socialiste utopiste in Europa e negli Stati Uniti. Si potrebbe, però, allargare l’approccio ermeneutico, se si considera che il progetto dei falansteri di Fourier non era isolato ma si inseriva in un contesto di teorie e sperimentazioni sociali e economiche di più vasto respiro: in Europa il socialismo utopistico aveva radici più antiche e contava nomi di pensatori come Saint- Simon, Owen, Blanc, i quali denunciarono le ingiustizie e vessazioni a cui erano sottoposti gli operai e prospettarono modelli economici più equi e rispettosi dei diritti individuali e, in qualche modo, preparatori di quello comunista immaginato da Karl Marx. La figura nieviana di Mayer è quindi un collettore simbolico e comico di queste esperienze, verso cui lo scrittore padovano guarda con un’ammirazione celata da timore.

Ma se gli esperimenti dei falansteri di Fourier e quelli delle fabbriche sociali di Blanc rimasero molto circoscritti, al contrario quelli di Mayer, nell’immaginario comico della Storia filosofica, spopolano velocemente, soprattutto fra la gente semplice, alla ricerca di messaggi elementari e rispondenti ai bisogni primari dell’uomo:

La buona novella ch’io ho portato è questa: che si vive per vivere, che perciò bisogna viver bene, e che a viver bene giovano il buon umore, il lavoro moderato, e il fare e l’accettare benefizi. Ecco la mia religione; che fa salvi, allegri e contenti tutti, meno gli oziosi e i birbanti. Il mondo è fatto per tutti; bisogna metter via quel vecchio salmo della mortificazione della carne inventato dai ricchi a danno dei poveri; occorre dare a tutti una parte di felicità qui in questo mondo, ove siamo certi di goderla. (NIEVO 2003, p. 61)

Pronunciato questo discorso, Mayer viene riconosciuto da tutti come il Papa della buona gente e, mentre «Hegel con quarant’anni di filosofia fece soltanto un adepto, ed era il suo portinaio» (NIEVO 2003, p. 60), egli invece «in ventotto mesi ebbe un popolo di credenti» (NIEVO 2003, p. 61) dato che «il segreto della fortuna sta in questo, di farsi rimorchiar dalla moda, e il Papa della buona gente indovinò questo segreto» (NIEVO 2003, p. 61). Inoltre, mentre le religioni di per sé comportavano obblighi di fede, questa che predicava solo la necessità di esser contenti non si fregia dell’epiteto di religione e attira su di sé la bieca ostilità della Chiesa cattolica la quale, perso il proprio stato, non voleva vedere il proprio gregge disperdersi dietro nuove credenze, come già era accaduto in passato, ad esempio con il protestantesimo. E nell’ingranaggio parodistico, l’ alter ego nieviano inverte i dati storici: mentre nel Cinquecento i protestanti furono costretti a emigrare in America per sfuggire alle persecuzioni delle guerre religiose e per ritagliarsi uno spazio esistenziale e sociale improntato alla libertà di culto, al contrario nel Novecento gli adepti della buona novella si accordano volontariamente col Papa per spartirsi il mondo in zone di influenza religiosa: l’Europa resterà al cattolicesimo, l’Asia e l’Australia rimarranno zone franche per la catechizzazione di Mayer. È una sorta di rivisitazione futuristica del cuius regio eius religio, in cui però l’assenza di politici di riferimento fa sì che siano gli stessi “papi” a promuovere la loro cartina geo-religiosa del mondo.

Le conseguenze di questa pace di Augusta, rivisitata ironicamente post eventum, saranno disastrose: privata dei suoi migliori cittadini, l’Europa vivrà una fase di «mene dispotiche e religiose, […] nuove convulsioni» (NIEVO 2003, p. 63), destinata all’epilogo solo quando la tecnica e la scienza colmeranno il vuoto apertosi con la caduta degli dèi.

Libro quarto: le magnifiche sorti e progressive

Svuotato di contenuti sacri, il ventunesimo secolo sembra essere avviato verso un progresso inarrestabile grazie a:

una rivoluzione scientifica che operò nel consorzio umano; e dopo un’oscillazione spaventosa di alcuni lustri lo fermò stabilmente sulle basi incrollabili su cui adesso riposa. L’introduzione delle lingue articolate, la formazione delle famiglie, il trovato della navigazione, l’agricoltura, lo stabilimento delle città, la codificazione morale religiosa, il dogma dell’eguaglianza umana, l’invenzione della polvere e della stampa, il trionfo della libertà di coscienza, l’applicazione del vapore e dell’elettrico, l’assetto definitivo della nazionalità, la concordia democratica universale, e la sanzione sociale del diritto di viver bene aveano condotto l’umanità di metamorfosi in metamorfosi a non riconoscersi più nella sua forma originale. (NIEVO 2003, p. 66)

Nell’enumeratio dei tratti caratterizzanti la società del contro-futuro prossimo, l’avanzamento sociale è simbiotico con quello scientifico, così come era percepito dal Positivismo: il movimento filosofico e culturale ottocentesco che riponeva fiducia nelle capacità della tecnica e della scienza di perseguire il bene dell’uomo, riverberando in ogni settore della sua vita i progressi ottenuti in campo industriale. L’atteggiamento ideologico nieviano appare bifronte: l’ammirazione per il raggiungimento di migliori condizioni generali di vita sembra essere insidiato dal dubbio che «le magnifiche sorti e progressive dell’umanità» siano solo un miraggio labile, con la stessa consistenza temporale del mito dell’età dell’oro. A tal proposito, il sociologo Riccardo Campa afferma che in questo divertissment «Nievo mostra uno straordinario equilibrio nel considerare il ruolo sociale di scienza, tecnica e industria: nessuna esaltazione positivistica e nessuna chiusura tecnofobica o nostalgica. Egli si muove in una dimensione che oscilla fra l’ottimismo e il pessimismo, tra l’utopia e la distopia» (CAMPA, p. 16). E sullo sfondo di questa ambivalenza ideologica campeggia, oltre al mito dell’età dell’oro, quello di Prometeo: simbolo della hybris umana pronta a sfidare gli dèi per ottenere un vantaggio tecnico usufruibile da tutti gli uomini. Dentro ciascun uomo, il fuoco di Prometeo è sempre acceso a ricordare che non c’è nessuna forma di curiositas che non possa essere esaudita e punita allo stesso tempo. Come fa notare Campa, «quando Nievo deve definire le caratteristiche della nuova società pone alla sua base i due pilastri dell’universalismo e dei valori prometeici» (CAMPA, p. 23).

E nel 2100 chiunque può farsi titano e amico degli uomini, come Prometeo: persino due calzolai inglesi, Jonathan Gilles e Teodoro Beridan, i quali spinti dal desiderio di velocizzare il proprio lavoro e di incrementare le proprie vendite costruiscono degli «omuncoli, detti anche uomini di seconda mano, o esseri ausiliari» (NIEVO 2003, p. 66). Gli omuncoli sono i prototipi dei robot che, nelle aspirazioni umane, dovrebbero essere dei replicanti umani in grado di garantire ausilio allo svolgimento delle mansioni quotidiane del lavoro e della vita domestica. E l’invenzione dei due calzolai sembra inizialmente andare incontro a questa esigenza fin quando essa non viene scoperta e sfruttata a proprio vantaggio da veri imprenditori che la trasformano in «speculazione d’industria come qualunque altra» (NIEVO 2003, p. 71), senza valutare le conseguenze sul lungo periodo. Divenuti più numerosi degli uomini stessi, gli omuncoli hanno facilitato a tal punto la vita umana da rendere le nuove generazioni così avvezze alla tecnica da aver perso ogni manualità e spirito d’iniziativa:

gli ultimi cresciuti si trovarono in educazione ed in sentimenti così disformi dall’antica rozzezza e così simili alla civile cultura che le differenze fra i diversi ceti scomparvero affatto. Solamente l’ozio guadagnava troppo nelle abitudini della società; e insieme coll’ozio l’uso dei narcotici come il tabacco, l’oppio e il betel, i quali facevano morire di stupidità un gran numero di cittadini. Quelli poi che volevano preservarsi da tali disgrazie e si davano allo studio, incorrevano facilmente in accessi cerebrali e morti improvvise per apoplessia nervosa; del qual malanno i medici incolpavano la soverchia attività concentrata tutta nel cervello per due o tre generazioni.

(NIEVO 2003, p. 72)

In questo passaggio, Nievo ripropone in una versione narrativa proto-fantascientifica lo stesso conflitto fra il cultus e l’ incultus che viene sviluppato da Tacito nella Germania, opera monografica scritta nel 99 d.C., in cui i Germani sono descritti etnocentricamente come “barbari”, dato che non parlano latino e greco, non hanno nessuna delle forme di convivenza civile e politica dei Romani, non adoperano i raffinati strumenti culturali con cui i Latini hanno modellato la propria vita. Eppure, nel loro essere privi di cultus, essi sono ancora distanti dai rischi della mollezza e del lusso che deriva dalla cultura stessa: sono combattenti forti e valorosi, come lo erano i Romani prima che la corruzione insidiasse e indebolisse il loro animo e li rendesse simili nei costumi ai Greci delle colonie: gli stessi che popolano il mondo alla rovescia del Satyricon di Petronio. Ed è interessante sottolineare che per i Romani i filosofi o retori, che vivevano come parassiti nelle grandi famiglie romane, erano indicati in modo dispregiativo come Graeculi. La stessa carica denigratoria è insita nel termine omuncoli, il quale indica il rischio della degenerazione connaturata al cultus, fino al suo esito più estremo: la sterilità. E se nel mondo romano imperiale le matrone venivano accusate di non procreare più come nel passato perché maggiormente concentrate sul proprio piacere piuttosto che sul proprio dovere, nel nuovo mondo nieviano del 2140 il pericolo della sterilità è paventato dall’avvento delle omuncole o donnuncole:

gli economisti furono assai spaventati di questa innovazione che minacciava il genere umano di sterilità procurando un surrogato della donna. Per cui il figlio di Gilles fu tenuto d’occhio fin che visse, perché non potesse comunicare agli altri quella pericolosissima scoperta. E dopo che egli fu morto, siccome il segreto di quella fabbricazione pareva tutto consistesse in un certo lievito di gatta, Gregorio Alison presidente del decimo congresso dell’umanità ordinò la distruzione di tutta la razza felina. La sentenza fu eseguita puntualmente, e i diritti delle donne furono salvi, ma la terra fu inondata da una quantità molestissima di topi.

Accanto ai topi, metafora di un mondo alla deriva, continuano a proliferare gli omuncoli, i quali nel 2180, dopo essere stati a lungo demonizzati, vengono battezzati in massa dal pontefice che, stanco di osteggiarli vanamente, decide di agire in senso contrario con lo scopo di salvare quelle creature «dalla dannazione se erano in qualunque modo animate, e per toglierle alla balia di Satanasso se non erano altro che strumenti umani» (NIEVO 2003, p. 73). Il battesimo non è che il riconoscimento simbolico di una accettazione dell’altro avvenuta per sfinimento: l’altro è divenuto virale, ha infettato la società umana che, troppo debole per reagire, si prepara alla sua apocalisse.

Libro quinto: la peste

E l’apocalisse nieviana si manifesta con sintomi subdoli: accessi apoplettici cerebrali, abuso di narcotici e infine una «peste apatica» che condanna gli organi umani alla morte:

questo contagio putrido e spaventevole, il raffreddamento sensibilissimo della superficie terrestre, e l’aumento graduale della noia e del suicidio per causa di essa sono i tre pericoli a cui andiamo incontro, e nell’uno dei quali una volta o l’altra l’umanità finirà col soccombere.

(NIEVO 2003, p. 74).

Il germe della peste corrode l’umanità dall’interno perché coincide con l’accidia: con l’indolenza nel fare il bene condannata dalla Chiesa e con l’abbandono a se stessi in cui potrebbe, però, maturare la scrittura, così come accadde a Petrarca, teorico nel Secretum delle potenzialità narrative dell’accidia. Lo stesso pseudo-autore della Storia filosofica confessa ironicamente il suo essere indifferente alle sorti dell’umanità: «per me io credo che avrò tempo a morire nel mio buon letto elastico; e morto me, che il mondo pericoli ancora, si addrizzi o tracolli, non me ne importa gran fatto» (NIEVO 2003, p. 74). Con il compiacimento comico per la propria noncuranza, Vincenzo Bernardi di Gorgonzola si congeda dai lettori e con lui lo fa anche Ferdinando De Nicolosi, il filosofo-chimico che con i suoi trucchi è riuscito a riportare in vita questo libro, venuto dal contro-futuro prossimo e miracolosamente salvatosi dalla distruzione di tutti i libri anteriori al 2000.

Nel congedo, tuttavia, egli insinua il dubbio della inattendibilità del narratore primario: Vincenzo Bernardi di Gorgonzola sarà stato veritiero? Ma, per De Nicolosi, a questa domanda c’è un’unica risposta: « ai posteri l’ardua sentenza!». La nota citazione è tratta dai vv. 31-32 dell’ode Cinque maggio, in cui Manzoni sospende il giudizio storico su Napoleone, affidandolo a coloro che verranno e che avranno la possibilità di poterlo giudicare con maggiore freddezza. Tale inserzione d’autore rimanda parodisticamente al modello narrativo dei Promessi sposi, basato sulla fittizia scoperta da parte del narratore di un manoscritto anonimo del Seicento, di cui verrà riportata una più ricca e articolata trascrizione. Come la finzione manzoniana del manoscritto venuto dal passato incrementa agli occhi del lettore la credibilità storica del romanzo, così quella nieviana del manoscritto venuto dal futuro invece la depotenzia; arrivato al sugo della storia, il lettore si confronterà con una tripla disillusione: quella di Vincenzo Bernardi, primo autore della Storia filosofica, verso la società umana ormai internamente smagliata dal suo stesso cultus; quella di De Nicolosi, primo trascrittore della Storia filosofica, verso la veridicità della letteratura; e infine quella di Nievo, che contiene le precedenti e le proietta verso un più esteso orizzonte morale di scetticismo nei confronti della possibilità umana di autorigenerarsi tramite utopie politiche e sociali, di fatto irrealizzabili o, se realizzabili, perniciose.

Nella Storia filosofica, dunque, l’ucronia indebolisce l’utopia fino ad annientarla, come simbolicamente dimostra il finale pestilenziale dell’umanità: da Tucidide in poi, infatti, la peste è stata interpretata letterariamente come un emblema della dissipazione etica degli uomini e della loro conseguente punizione da parte degli dèi o di Dio, offesi dalla debolezza umana di fronte al dilagare del peccato. E così il male interiore si tramuta in un male fisico che, come una palingenesi, spazza via il primo per porre, forse, le basi di una umanità migliore e più sana. Nei Promessi Sposi, romanzo storicamente vicino a Nievo, la peste soffia via la vita da don Rodrigo, permettendo così a Renzo e Lucia di sposarsi.

Ma nella Storia Filosofica la palingenesi non è contemplata dal testo; forse possiamo presupporre che sia extra-testuale: depositata nella mente dei colti lettori contemporanei a Nievo, sollecitati intellettualmente dalla lettura di questo divertissment a diffidare di tutto ciò che abbia parvenze messianiche. La palingenesi sarebbe, dunque, l’azzeramento di ogni palingenesi.

E, ancora, possiamo ipotizzare che la salvezza sia affidata ai lettori postumi di Nievo, quelli che inseguono negli universi cartacei della letteratura i fili che conducono verso contro-realtà più seducenti e plausibili della realtà stessa: le città immaginarie di Orano, concepita da Camus, o di Macondo, vagheggiata da Garcia Marquez, in cui la peste, che le affligge, viene sconfitta pur nella consapevolezza che essa possa ripresentarsi in futuro. La salvezza, in questo caso, consisterebbe nella prudenza e nella precauzione consapevole, attivate dalla letteratura che solletica sempre il capovolgimento dei punti di vista e ci stimola a quelle incursioni paradossali ed estreme «verso l’Accaduto» (MORSELLI 1975, p. 118) che Guido Morselli giudicava come le uniche possibili per accedere alla verità.

BIBLIOGRAFIA

CAMPA R. (2012), La storia filosofica dei secoli futuri di Ippolito Nievo come caso esemplare di letteratura dell’immaginario sociale, in “AdVersus”, IX, 23 dicembre 2012, pp. 13-30.

MORSELLI G. (1975), Contro-passato prossimo. Un’ipotesi retrospettiva, Adelphi, Milano.

NIEVO I. (2003), Storia filosofica dei secoli futuri (e altri scritti umoristici del 1860), Salerno editrice, Roma.

NIEVO I. (2004), Le confessioni di un italiano, Bur, Milano.