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il sublime rovesciato: comico umorismo e affini

Copertina Numero 15

 ottobre 2017

Saggi e rassegne

Emanuela Scicchitano

L’uovo e la gallina: il racconto biografico di Iela, Enzo (e Michele) Mari

 

Il paradosso dell’uovo e della gallina

Ovvero: è nato prima l’uovo o la gallina? È quanto si chiede provocatoriamente nei Saturnalia Macrobio, autore latino vissuto nel V sec. d. C e appassionato di letteratura ed erudizione. Nell’immaginario dialogo conviviale fra sapienti, che si svolge in occasione delle feste di Saturno, egli affronta alcune questioni letterarie e filosofiche, fra cui uno dei paradossi più celebri dell’antichità, quello dell’uovo e della gallina, dietro al quale si celano i dubbi relativi all’origine delle cose. La risposta che dà Macrobio è aristotelica: se condividiamo il presupposto per cui l’atto è il progresso di ciò che è in potenza e il perfetto si origina dall’imperfetto e non viceversa, allora ne consegue che l’uovo, in quanto informe, sia stato creato per primo dalla natura, che procede sempre per gradi:

ergo natura fabricans avem ab informi rudimento cepit, et ovum, in quo necdum est species animalis, effecit: ex hoc perfectae avis species extitit procedente paulatim maturitatis effectu

[Traduzione: dunque la natura cominciò a formare l’uccello da materia informe, e l’uovo, nel quale ancora non vi è specie di animale: da ciò a poco a poco ha origine una specie perfetta di uccello in seguito a un progressivo effetto di maturazione]

(MACROBIO, Saturnalia, VII, 16)

La soluzione di Macrobio da un lato parrebbe confermata dagli ultimi studi scientifici sull’evoluzione umana, che hanno provato a riformularla tenendo conto delle acquisizioni di conoscenza su DNA, RNA e proteine; dall’altro invece è stata smentita dai creazionisti, i quali si basano sull’autorevolezza narrativa della Bibbia, in cui Dio crea gli animali, non “materia informe”.

Fra scienza e Bibbia potremmo insinuare una terza via per rispondere a questo paradosso: quella dell’arte. E potremmo, in particolare, volgere lo sguardo al racconto figurativo di una disegnatrice italiana: Iela Mari, la quale negli anni Sessanta pubblicò, in collaborazione con il marito Enzo, alcuni silent books con lo scopo di narrare ai bambini storie adatte a loro e affidate, quasi esclusivamente, al potere affabulatorio delle immagini, che sono universali e non necessitano di traduzioni o mediazioni. Il principio, che anima questi libri, è quello che Calvino nelle Lezioni americane classifica come «visibilità»: il processo creativo che parte dall’immagine visiva per arrivare all’espressione verbale che, in questo caso, può essere aggiunta sotto forma di commento mentale dai genitori o dagli stessi bambini che sfogliano il testo.

Si delinea, adoperando le parole di Calvino, una «pedagogia dell’immaginazione» (CALVINO 1993, p. 94) che abitua a «controllare la propria visione interiore» e permette che «le immagini si cristallizzino in una forma ben definita, memorabile, autosufficiente, icastica» (p. 94). Questa pedagogia vuole opporsi proprio alla «civiltà delle immagini» che negli anni del boom economico penetrava nel tessuto culturale italiano, bombardandolo tramite la televisione di messaggi visivi a tal punto da inibire la capacità di «distinguere l’esperienza diretta da ciò che abbiamo visto pochi minuti alla televisione» (p. 93), con il conseguente rischio di ritrovarsi con una «memoria ricoperta da strati di frantumi di immagini come un deposito di spazzatura, dove è sempre più difficile che una figura tra le tante riesca a avere rilievo» (pp. 93- 94) e quindi ad accendere la fantasia, soprattutto, dei più piccoli.

Inseguendo questa forma di «visibilità», Iela disegna, con Enzo Mari, La mela e la farfalla (1960) e L’uovo e la gallina (1969), progettati come libri continui, nei quali la centralità e l’eleganza del tratto stilistico non lasciano margini a occhieggiamenti leziosi verso il mondo infantile, trattato con la stessa dignità di quello adulto. È come se l’autrice ci volesse dire che il disegno è tutto e questo tutto coincide con la stessa potenza della vita e della parola, che non iniziano e non si concludono ex abrupto ma proseguono nel loro esistere circolare.

Sta dunque alla nostra inventiva ricostruire la storia della gallina, di cui in copertina vediamo le zampe tratteggiate in giallo e nero. Quale terreno solcano? Quale capo sorreggono? Basta girare pagina e lo scopriamo: eccola la gallina, con la sua cresta rossa, che guarda a se stessa e si preoccupa di ciò che sta per accadere: la fuoriuscita dell’uovo, che dovrà covare. Le pagine dedicate all’uovo capovolgono i colori del racconto, il fondale si fa nero per far risaltare la luminosità del bianco e del giallo, chiamati a farsi carico simbolicamente della vita in fieri, che come già sottolineava Macrobio non procede per salti ma paulatim, a poco a poco. Questa gradualità è accentuata nel libro dall’alternarsi di pagine a sfondo bianco, su cui si impone il piumaggio nero della gallina, e pagine a sfondo nero, su cui si incistano il bianco del guscio e il giallo del pulcino; tutto ciò fino alla schiusura finale, osservata dall’occhietto rosso e meravigliato della gallina, la cui iniziale incredulità sembra rispecchiare quella dei bambini che sfogliano il libro e assistono alle battute finali: il pulcino cresce e si fa strada nel mondo, imparando a nutrirsi di insetti e vermi, come sua madre gli ha insegnato e come probabilmente lui stesso farà, una volta diventato grande. Col pulcino che si appresta a diventar gallina intravediamo una fase di quel maturitatis effectus di cui ci parlava Macrobio e di cui i disegnatori ci hanno offerto una declinazione visuale, a distanza di tempo, valida nella sua eleganza e capace di farci superare l’impasse del paradosso iniziale: è nato prima l’uovo o la gallina?

Interpretando provocatoriamente i disegni di Iela e Enzo Mari, rispondo che forse sono nati insieme; come del resto ci suggerisce la scelta del titolo, L’uovo e la gallina, il quale fa cadere l’opposizione espressa dalla congiunzione disgiuntiva o, che introduce un’alternativa fra le due ipotesi, e a essa sostituisce una congiunzione non più ossimorica ma pienamente se stessa nell’espletamento della sua funzione: la e. Sono dunque nati assieme l’uovo e la gallina, con buona pace di Macrobio, degli evoluzionisti e pure dei creazionisti.

Una (prima) postilla bioscopica: storia di Michele

Nacqui. Ci sono dei grumo-nodi irrisolti, nella mia vita, che voglio lasciare irrisolti: ne avrò ben diritto, perdio! Invece, poiché ho dimostrato di sapere infiorare qualsiasi bassezza, sono convocato alla soluzione: per via estetica, […]. comunque, qua, primo grumo, un carico mica da ridere: mio padre. Che mio padre sia stato un genio è cosa troppo conclamata perché io la debba qua argomentare; che il suo carattere si collochi all’intersezione di Mosè con John Huston, pure, [..] E allora come se ne esce? Mi pare chiaro che non se ne esce, certo non per la strada del mito e della bellezza, che è l’unica che mi interessi. […] Nodo-madre, ora, veloci. […] quando ancora non so cosa voglio farne, del fantasma di mia madre, limitandomi per ora a museificarne le stanze, stanze senza più vita e senza più male ridotte a étalage di bellurie, così adesso è quella, mia madre, un precipitato di stilemi, una grazia che molto tempo fa fu persona.

(MARI 2017, p. 13)

A rievocarci qui la sua nascita, avvenuta a cavallo del Natale del 1955, è lo scrittore Michele Mari, figlio di Iela e Enzo, i quali scorgiamo nei due «grumo-nodi» da cui la voce narrante parte per ricostruire la sua Leggenda privata (2017), il romanzo autobiografico con cui le esperienze vere e fittizie della sua famiglia vengono a comporre una sorta di “lessico familiare” ipertrofico e capovolto rispetto all’archetipo di Natalia Ginzburg. Quello di Mari è un libro avulso dalla nostalgia e da intenti edificanti, in cui le parole e le frasi dell’infanzia non semplificano, ma imbrogliano il ricordo di un rapporto parentale «mostruoso» (MARI 2017, p. 4) e quindi, etimologicamente, fuori dal comune e spaventevole.

Così l’autore lo percepisce sin dall’inizio, ancor prima della sua stessa nascita: «perché quell’angoscia era già nei miei genitori, per il fatto stesso che io ne ero l’ipotesi: io il responsabile dell’orrore di quell’amplesso fatale, io suo telo e ratio» (MARI 2017, p. 4). E quell’angoscia sembra lo sphragìs impresso su di lui dalla madre e mal cicatrizzato dalle parole dal padre, che non avrebbe mancato di dirgli: «io ti ho dato l’intelligenza e la forza, e te ne ho dato tanto, dell’una e dell’altra: ma lei ti ha dato la fragilità, e ti assicuro, ne è bastata pochissima» (MARI 2017, p. 3). Forza e fragilità costituiscono per Mari una antinomia quotidiana e ineludibile, tanto più radicata nel presente quanto più derivante dal passato familiare dei genitori, figli a loro volta di nodi padre / madre replicabili all’infinito e a ritroso. Da questa genealogia Mari è avviluppato perché sa, avendolo appreso da Eschilo, che le colpe dei padri, così come le loro virtù, ricadono sui figli e ciascuno di noi potrebbe scrivere una Orésteia familiare che fra meriti e demeriti, momenti comici e drammatici, ripercorra à rebours le vite dei nostri avi, senza peraltro essere sicuri di afferrare il simulacro della verità:

Orbene, perché questa tragica e cupa sequenza mi appare sublime? Per quanto il rousseauiano progresso consola? Al contrario: per il brivido di risalire nell’anamnesi di un orrore che già dopo cinque o sei generazioni si fa inimmaginabile, e che non per questo perde il proprio carattere di verità, quella che ci informa e ci causa. Tanto che, se ci spostiamo a valle, il progresso ci appare così idillico da cadere per ciò stesso in sospetto di falsità

(MARI 2017, p. 16)

L’urgenza di stilare una sorta di cartella clinica della famiglia diventa il lievito letterario che fa fermentare l’autobiografia e la trasforma in «autobioscopia»: esame medico che prevede l’osservazione narrativa e soggettiva del proprio vissuto, che si sovrappone e contiene in nuce quello dei propri genitori e quello dei propri nonni. La propria leggenda privata diventa perciò come la gallina che cova il proprio uovo: fa da incubatrice alle storie avite e le traduce o in epica, se si tratta delle vicende del ramo paterno, destinate al successo, o in un romanzo naturalista di ambiente borghese, se si tratta di quello materno, inclinato dalla vita e dal peso della sconfitta.

Una (seconda) postilla epica: storia di Enzo (e Michele)

Quando si tratta del nonno paterno, Michele Mari si fa aedo e, come se plasmasse la materia per un episodio di un ciclo epico, canta la storia di Luigi Mari, un novello Enea che fugge dodicenne dalle macerie morali della Prima Guerra Mondiale che lo ha reso orfano, povero e non accetto ai parenti più vicini a lui; e come il principe troiano fugge trascinandosi per mano il figlio, segno di un futuro che dovrà ripartire altrove, così Gino porta con sé il fratellino di cinque anni e insieme salgono su un treno che dalla Puglia è diretto a Nord. Giunti a Milano, inizia la loro lotta per la sopravvivenza e la loro ascesa sociale, che culmina nell’acquisizione di un mestiere, il calzolaio, e in un matrimonio, da cui nasceranno quei figli che dovranno riscattare i genitori delle fatiche compiute per garantirsi agiatezza economica. In questa Eneide neorealista è compito del primogenito Enzo dare la svolta al destino comune, facendo leva sulla sua pietas e sul suo talento per il disegno, che potrebbe fruttargli una borsa di studio per l’Accademia di Brera:

dunque l’aut aut: o vincere quella borsa, o andare a lavorare in fabbrica o in officina e addio studi per sempre, dunque capite per quale cruna è passato anche il mio di destino, io che scrivo libri e insegno in università, pre-nascituro ho avuto una possibilità su cinquecento, e naturalmente mio padre la vinse, quella borsa, la stravinse con il disegno in assonometria di una colonna barocca della scalinata dell’Accademia di Brera, guardate se si può essere così sfrontati, il disegno di una colonna di quella scalinata per poterne salire i gradini a tre a tre, il futuro Re del Design! Altrettanto naturalmente mi è stato riferito in tutte le salse, il nonno non fece un complimento: mio padre aveva fatto il suo dovere […] sicché, capite, come poteva mio nonno Gino non essere il mio eroe? Però, se mio padre non mi ha mai fatto un complimento, è stata colpa anche del nonno e delle Murge, è strano come la catena del valore e della bellezza sia inscindibile dalla catena della colpa e della violenza

(MARI 2017, pp. 40 – 41)

Entrato studente borsista a Brera, Enzo Mari ne esce nel 1956 designer e già nel 1967 vince il premio Compasso d’oro, istituito nel 1954 da Giò Ponti per individuare gli astri nascenti di questa nuova arte e col tempo divenuto il più prestigioso riconoscimento internazionale del settore. A questo primo premio, ne seguirono altri quattro, di cui l’ultimo nel 2011 alla carriera: sigillo finale di una scalata umana e culturale, idealmente iniziata da suo padre nel lontano 1917 in un paesino della Puglia, condannato dalla miseria e dall’indifferenza.

Ma quell’aut aut ha conseguenze sia professionali sia sentimentali. Nelle aule dell’Accademia Enzo Mari conosce un’altra allieva, Gabriela Ferrario, che sposa nel 1955 e lo renderà padre di due figli, Michele e Agostina. La loro è, tuttavia, una vicenda tormentata sin dagli esordi e la voce narrante non manca ironicamente di sottolinearlo ogni qual volta introduce frammenti biografici che traghettano il racconto dal bioscopico al «biopsicopato»: confessione di una sofferenza ancestrale e intimamente patita, perché insita nell’attrito sociale fra le famiglie di origine dei suoi genitori, che dapprima vittime ne diventano poi involontari complici, fino alla separazione avvenuta «nell’estate del 1965, dopo una memorabile vacanza in Jugoslavia» (MARI 2017, p. 167) e preludio di due vite molto diverse.

Quella di Enzo è una vita di riconoscimenti, bramosamente ricercati e ottenuti in virtù di una indagine artistica anticonvenzionale e rigorosa, in nome della quale era possibile sacrificare affetti e demolire miti. La stessa paternità è fonte di imbarazzo fino a produrre nel rapporto col figlio involuzioni autistiche, su cui la memoria «selettiva», eppur «pietosa» (MARI 2017, p. 137), di Michele non manca di indugiare con una ironia fluttuante fra insofferenza e disincanto:

per il genitore, dunque, affetto ammirato, dimolto guardingo […]. si tenga poi conto che mio padre istesso si sarebbe dispiaciuto di un affetto più pieno e spiegato, ogni morbidezza, ogni intenerimento di medulla equivalendo, nella catabasi àpulo-barbara, a indecorosa svenevolezza: a un simil frigno […]. veri uomini, duri, sguardo Jack Palance – Charles Bronson, estremo-laconici, quozienti di intelligenza vertiginosi.

(MARI 2017, p. 58)

Nella deriva edipica del loro rapporto, potremmo correre il rischio di scorgere in controluce i più illustri archetipi letterari, su cui il Novecento ha edificato la sua conflittuale identità, ma Mari sventa questo pericolo: al signor Cosini preferisce gli attori dei film gangster o western come Jack Palance e Charles Bronson, emblemi di una postmodernità che seleziona i suoi simboli fra i B- movies degli anni Cinquanta e Settanta piuttosto che fra i romanzi modernisti. E quella di Mari è, una postmodernità che «fa un uso ironico dell’immaginario dei mass-media» (CALVINO 1993, p. 97) e immette il gusto per il grottesco e per il gotico nei meccanismi della narrazione autobiografica, per accentuare il senso di straniamento del lettore di fronte a una scrittura che ibrida la citazione colta e iperletteraria con riferimenti all’immaginario filmico di Quentin Tarantino. A questo mondo, pulp e iperbolico, possiamo ricondurre gli incubi cruenti nei quali il suo grumo esistenziale di figlio, schiacciato dall’auctoritas paterna, fuoriesce alla ricerca di una rivalsa possibile solo nella finzione psichica:

spesso sogno di avere ucciso qualcuno in modo efferato: segandogli il pomo d’Adamo con il bordo tagliente di una piastrella rotta, o tenendogli la testa nell’acqua di un canale, o mettendolo sotto una pressa. Non sogno l’uccisione nella sua attualità, ma la rivivo in ogni dettaglio, sì che non c’è solo l’angosciosa paura di essere preso e punito, ma anche l’orrore materiale del fatto, riattualizzato ogni volta.

(MARI p. 68)

Ma al di là della fictio onirica, c’è quella letteraria di cui si nutre Leggenda privata e di cui prima ancora si nutriva Tu, sanguinosa infanzia (1997), silloge narrativa letta e rifiutata da Enzo Mari come un «regolamento di conti» (MARI 2017, p. 137) che ci riporta al mondo tragico dell’Orésteia, a quello castrante di Con gli occhi chiusi di Federico Tozzi e, più beffardamente, a quello postmoderno dei western americani in cui buoni e cattivi non potevano che vivere dapprima isolati nell’apparente inconcialibilità etica dei loro mondi e infine destinati all’eroico scontro conclusivo. E se questo scontro evaporasse? i due mondi vivrebbero separati e reticenti, come è accaduto a Enzo e Michele Mari e anche ai protagonisti del racconto I giornalini, di Tu, sanguinosa infanzia, in cui la siderale lontananza fra un padre e un figlio si dipana, come un filo infinito, sin dal primo giorno in cui i due ruoli iniziano a definirsi. E nello stordimento ha un’unica certezza: dovrà nascondere al figlio i cari fumetti, collezionati da bambino: 

non erano forse un documento- una prova!- della sua infanzia, mentre invece tutto aveva congiurato a strappargliela via a sangue a colpi di paure, di orrende prurigini, di ambigue conquiste intellettuali («il risveglio epico»! «il cammino dell’uomo»!), di botte da orbi?

(MARI 1997, p. 3)

Ecco che la catena di bellezza e violenza, che agisce in Leggenda privata, sembra aver infierito anche in questo racconto fino a renderci indistinguibile a quale padre faccia riferimento, come in un’ illusione ottica, lo scrittore: al suo, Enzo Mari? Oppure a se stesso, Michele, su cui pesa il trauma di essere stato figlio edipico? Oppure a un archetipo narrativo da un lato così ancestrale da affermare: «si cresce soli, si vive soli, si muore soli» (MARI 1997, p. 8), dall’altro così postmoderno da dichiarare: «Kamumilla Kokobì…più o meno qualcosa come l’Iliade...» (MARI 1997, p. 8). E in questo universo fumettistico, lo scontro edipico avverrebbe non in punto di morte, come per Zeno Cosini, non per lettera, come per Kafka, ma una sera a tavola quando, col cucchiaio imbrattato di semolino, il bambino chiederà: «Mamma, chi è questo signore che mangia con noi?» e il padre indignato risponderà: «Cocco Bill sono!» (MARI 1997, p. 8). In questa mancata agnizione ci potrebbe essere, tuttavia, il seme del riscatto, che risiede nella possibilità che il figlio metta su una sua biblioteca di riferimenti fumettistici che lo rendano indipendente nel pensiero.

Ma se con la figura paterna il figlio gioca, sul piano esistenziale e su quello narrativo, o all’inseguimento o alla fuga, con quella materna sembra invece giocare a nascondino: in quale armadio della memoria si nasconde? In Leggenda privata le ante si aprono e Mari restituisce alla «Madre», pur nella sua evanescenza, una corporalità.

Una (terza) postilla leggera: storia di Iela (e di Michele)

Mia madre, tutto fuorché volgarotta. Solo talento e intelligenza, ma talmente autodistruttiva da diventare l’ultracorpo di se stessa, una perfetta macchina di dolore. […] mia madre, transfuga dal ceto borghese (medici e militari), ribelle al cattolicesimo di mia nonna (dama di San Vincenzo), ex scout, ex scalatrice di montagne insieme a Dino Buzzati e perfino Walter Bonatti, talento grafico-pittorico precocissimo, magra come un’acciuga, mascolinamente vestita, spiritosa (pare) del tipo understating, cosa sollecitò nel bruto di genio? Un riconoscimento di genio con genio, o vaghezza del diverso? l’uno e l’altro, credo, ma più di tutto l’intuizione di poter disporre di una vittima intelligente, già pronta all’uopo (talmente già pronta che di lì a pochi anni, consunta come un osso di seppia, cessò di fungere). […] la trovò già domata: da se stessa, in spregio agli agi e all’intelligenza, proprio perché intelligente: farsi del male con ogni mezzo per consistere solo di intelligenza e talento.

(MARI 2017, pp. 48-49)

Ma, per quasi tutta la sua esistenza (1931-2014), l’intelligenza e il talento di Iela Mari rimasero silenti come i suoi libri per l’infanzia, che dissolvevano le parole e giocavano astrattamente con forme e colori per attivare la fantasia dei bambini, distolti già negli anni Sessanta dalle immagini televisive. Ai primi caroselli in bianco e nero Iela Mari oppone immagini stilizzate e sottili, accompagnate a colori pieni e vivaci: il suo mondo grafico-pittorico riflette la sua vita di vuoti e pieni, vissuta nella scia di una famiglia altolocata e all’ombra di un marito ingombrante. Eppure questa vita, quasi salingeriana nella sua appartatezza, merita di essere raccontata seguendone attraverso Leggenda privata le testimonianze biografiche, le foto, i disegni raccolti dal figlio: un materiale documentario che ci permette di intuire la leggerezza calviniana di Iela.

La «sottrazione di peso» (CALVINO 1993, p. 7) le viene imposta sin dalla nascita, sin dal nome: Gabriela, «con una sola elle: essendosi augurati i miei nonni – commenta Mari – un bel maschio da battezzar Gabriele, onde poi, con la massima economia, il metaplasma di genere» (MARI 2017, p. 61); e poi «Gabriele non nacque. Gabriela si fece Iela, perdendo la R» (p. 61) e infondendo in lei, sin da ragazza, la sensazione di essere nata sbagliata. Una sensazione speculare a quello del marito, Enzo, il cui nome è lo scorciamento di Vincenzo (lat. Vincentius), che deriva etimologicamente da vincens, colui che vince e, forse in questo caso, vince più degli altri.

Ma la leggerezza di Iela consiste anche nel fatto che «prima di essere stata la Madre […] era stata ragazza, però, inerpicata sulla parte mentore Walter Bonatti, nella chiarìa del mattino. E scout. Agile come una gazzella» (p. 60). La ritraggono «snella ed aerea sui picchi, in controluce sul cielo» (p. 51) le foto scattate nell’estate del 1952, trascorsa a scalare le Dolomiti proprio assieme a Bonatti. In queste immagini, che scandiscono il racconto di Leggenda privata, Iela ci appare “leggerissima” così come prima di lei lo era il poeta Guido Cavalcanti che, nella novella del Decameron (VI, 9) di Boccaccio, per sfuggire a una brigata di giovani che lo incalzava a causa del suo presunto epicureismo, «sì come colui che leggerissimo era, prese un salto e fusi gittato dall’altra parte, e sviluppatosi da loro se n’andò» (BOCCACCIO 1999, vol. II, p. 757). Calvino commenta che «l’agile salto improvviso del poeta-filosofo che si solleva sulla pesantezza del mondo» dimostra che una apparente gravosità può occultare il segreto della leggerezza «mentre quella che molti credono essere la vitalità dei tempi, rumorosa, aggressiva, scalpitante e rombante, appartiene al regno della morte, come un cimitero di automobili arrugginite». (CALVINO 1993, pp. 15-16)

Di questa leggerezza pensosa sono vessilliferi anche due frequentazioni letterarie di Iela Mari: Dino Buzzati, con cui condivideva la passione per il disegno e per la montagna, e Eugenio Montale, con cui la legava un antico vincolo familiare; i due scrittori sono così effigiati da Mari:

il prosatore e il poeta; il bellunese-milanese e il genovese-monterossino […] chiusi ognuno nel proprio mondo, gelosi dei propri privatissimi mali di vivere – privatissimi, altro che universalità dell’opera d’arte. […] In casa mia, pertanto, si citavano la Fortezza Bastiani e Dora Markus come fossero luoghi e persone di famiglia: il che non ha fatto bene all’animo spugnoso di mia madre, fatto per imbibersi di ogni dolenza del mondo. […] Dino Buzzati, quanto influenzò mia madre? In montagna, nel rosa delle albe, nell’affilarsi della percezione, quando il pensiero si fa sempre più metafisico, troppo metafisico… qualsiasi cosa legga, di Buzzati, vi trovo un bisbiglio che può averla condizionata nel modo di guardare alle cose, come un filtro.

(MARI 2017, p. 75; p. 84)

Ed è un filtro colorato e metafisico quello con cui Iela Mari ha osservato il mondo per poi disegnarlo in libri per bambini che, come L’uovo e la gallina, proiettano «immagini alla nostra vista interiore» (CALVINO 1993, p. 85) dando sviluppo e senso a una storia che sembra non iniziare e non concludere mai, perché atemporale come il ciclo della vita e come la narrazione stessa.

Bibliografia

BOCCACCIO G. (1999), a cura di BRANCA V., Decameron, Einaudi, Torino, voll. 2.

CALVINO I. (1993), Lezioni americane, Mondadori, Milano.

MARI I., MARI E. (1969), L’uovo e la gallina, Emmedue, Milano.

MARI M. (1997), Tu, sanguinosa infanzia, Einaudi, Torino.

MARI M. (2017), Leggenda privata, Einaudi, Torino.