Alla domanda del generale Clark su che cosa sia uno stato totalitario, il giornalista Curzio Malaparte, che si trovava al seguito dell’esercito americano di liberazione in Italia, risponde: «è uno stato dove tutto ciò che non è proibito, è obbligatorio». A tale risposta tutti i presenti lo guardano «meravigliati esclamando “Funny”!» (MALAPARTE 1978, p. 176). Con lo stesso entusiasmo, tinto di una puerile superiorità, gli americani sembrano reagire ad ogni battuta sull’Europa e sugli europei pronunciata in un quel contesto in cui lo stesso Malaparte è conscio di aver smarrito una sua identità culturale e civile. «E mi sentivo – confessa – insieme oppresso, distrutto fucilato, invaso, liberato, mi sentivo vigliacco ed eroe, bastard e charming, amico e nemico, vinto e vincitore» (MALAPARTE 1978, p. 176).
È il 1943, gli Alleati stanno risalendo l’Italia meridionale per giungere a Roma a liberare un popolo, quello italiano, che non è più loro nemico ma non è ancora loro federato e che, al loro arrivo, non sa nemmeno quali sentimenti provare. A Napoli, fa notare Malaparte, la gente non si sentiva né libera né vinta: dopo l’armistizio, con una rivolta popolare, la città si era liberata da sola dai tedeschi, costringendoli alla fuga, ma era rimasta schiava della sua povertà, delle sue epidemie, dei suoi bombardamenti. Ancora una volta, ciascuno era chiamato a difendere la propria pelle, o con gesti eroici o con gesti infimi, o sacrificando la propria vita o la propria verginità.
E mentre gli Alleati si insediano a Napoli, tutte le città italiane ed europee che stanno per essere liberate si apprestano a divenire Napoli: «è il destino dell’Europa di diventar Napoli» (MALAPARTE 1978, p. 163), con il suo coraggio e la sua prostrazione, con la sua lotta per non morire, prima, e per vivere, poi. Fra queste città c’è Roma che, dopo l’8 settembre, dovrà attendere fino al 4 giugno 1944 l’arrivo della V Armata, bloccata ad Anzio. E durante questa attesa, in cui l’assedio diventava sempre più stretto, l’unico spazio di sopravvivenza morale è l’ironia. Racconta Paolo Monelli nel suo reportage storico, Roma 1943, che «Un giorno di marzo si lesse sul muro di una casa in Travestere la scritta: Americani, tenete duro, che presto verremo a liberarvi» (MONELLI 2012, p. 344).
E così, forti di un umorismo che si è spogliato della paura e della disperazione, i romani reagiscono all’occupazione tedesca e alla delusione americana. A loro, forse, è giunta l’eco del «formidabile riso» (MALAPARTE 1978, p. 20) che, come un terremoto, ha scosso Napoli alla notizia che nel porto della città, una notte, «fu rubata una Liberty ship, giunta alcune ore prima dall’America.[…] Scomparve, e non se n’è mai saputo più nulla» (MALAPARTE 1978, p. 20). Divertite – osserva lo scrittore – anche le dee protettrici della città: Giunone, Minerva e le Grazie «si affacciarono tra le nuvole sopra il Vesuvio a mirar Napoli e a prendere il fresco e a ridere, reggendosi il seno con ambo le mani» (MALAPARTE 1978, p. 20): i vinti, con la loro risata, avevano sconfitto i vincitori e il loro «funny!».
Del resto – sostiene Malaparte – nessun popolo, più di quello italiano, ama ridere per ridere e sa burlarsi meglio dei difetti altrui, perché in fondo ritiene «che non è possibile rider di loro» (MALAPARTE 1978, p. 166). E nell’ irrisione altrui risiederebbe perciò il riscatto sugli altri: su chi ci relega o su chi noi vogliamo relegare in uno stato di minorità. Ma in Italia gli “altri” non sono soltanto gli stranieri, che ancora nel ’43 occupano la penisola; gli altri sono anche gli italiani stessi: quelli che non invadono città ma cariche pubbliche, «quelli del “lo dico a papà”, “voi non sapete chi sono io”, “vi farò mettere a posto”» (MONELLI 2012, p. 26), che sotto il ventennio fascista, in un clima da critica addomesticata, hanno prosperato. Fino, ovviamente, a dissolversi o a tramutarsi dopo la sua caduta.
Su di loro punta il suo cannocchiale rovesciato Paolo Monelli nei suoi saggi storici: Roma 1943, scritto e pubblicato a caldo nel 1945, sotto l’urgenza di dover raccontare gli eventi che determinarono la deposizione di Mussolini e la violazione di Roma come “città aperta”; e Mussolini piccolo borghese, edito nel 1950, dopo aver riordinato l’ingente massa di appunti e testimonianze, raccolte dalla fine della Prima Guerra Mondiale in poi, durante la sua attività di giornalista. I testi furono poi rivisti nei decenni successivi, man mano che venivano editi memoriali e studi su tale periodo storico; essi, tuttavia, conservano la tesi di fondo: il completo e reciproco rispecchiamento degli italiani, con vizi e virtù, in Mussolini, «veramente tipico rappresentante di una gran parte di noi» (MONELLI 2012, p. 31).
Come se fosse il principale protagonista della «festa de noartri» (MONELLI 2012, p. 128), Mussolini incarna, secondo Monelli, l’italiano medio «insofferente di opinioni e di azioni in contrasto con le proprie, […] con il gusto dell’intrigo, dell’andar per vie traverse, purtroppo anche dell’andare a riferire, del tradir confidenze, per mettersi avanti, per farsi meriti», che «conta più sulle benemerenze personali e politiche che sul merito», che «ha più fiducia nelle raccomandazioni che nell’applicazione imparziale del regolamento, […] che preferisce ricorrere alle camorrette familiari e regionali». E in fondo – fa notare Monelli – il fascismo «con la sua apparenza austera, con le massime feroci contro le raccomandazioni e le cricche, era diventato una sola immensa cricca ove si sapeva che tutto era venale, tutto era ottenibile con relazioni personali, con sollecitazioni, con adulazioni» (MONELLI 2012, p. 167). E in cui bastava essere «The wrong man in the wrong place», l’uomo sbagliato nel posto sbagliato per essere capo del governo (MONELLI 2012, p. 19).
Col fascismo si instaura, dunque, un mondo alla rovescia, che però ha la presunzione di esser dritto, e in cui il senso del ridicolo era stato messo da parte assieme, forse, all’intelligenza che «gli italiani avevano abolito per ordine di Starace» (MONELLI 2012, p. 19). È quanto finemente fa notare Monelli nel suo reportage storico-narrativo, in cui denuncia gli aspetti più dilettanteschi del regime, ben evidenti agli occhi di esperti e di antifascisti: Emilio Lussu, già nel 1931, ne aveva fornito un quadro articolato e intenso in Marcia su Roma e dintorni, un «documento soggettivo su un periodo della civiltà italiana» (LUSSU 2014, p. 10): dal 1919, anno del trattato di Versailles e della prima ascesa di Mussolini alla ribalta politica, fino al 1929, anno della sua avventurosa fuga dal confino a Lipari assieme a Nitti e Carlo Rosselli.
E come Lussu, anche Monelli aveva partecipato alla I Guerra Mondiale da capitano dell’esercito e conquistato delle medaglie al valore per le azioni compiute. Il passato in trincea gli rendeva molesta la farsesca esaltazione delle virtù militari che proveniva da personaggi in passato fuggiti dalle prime linee, come Roberto Farinacci, esentato quale addetto alle ferrovie. E così accadde che, quando incontrò il «focoso fascista» (MONELLI 2012, p. 414), Monelli, essendo un amante dei motti di spirito, gli disse: «Che vuoi? À la gare comme à la gare»; senza che l’altro comprendesse l’arguzia in francese.
Mentre il popolo va alla guerra, c’è dunque chi si reca in stazione: per intraprendere la gita al fronte che gli avrebbe garantito la conquista di una medaglia al valore. Rileva Monelli: «tutti i petti divennero pezzi di cielo, tutti eroi, todos todos; di un notissimo gonfianuvoli che tornò di Spagna con tre medaglie d’argento si disse che la storia delle sue medaglie era questa: la terza gliel’avevano data perché ne aveva già due, la seconda gliel’avevano data perché una non gli bastava, la prima gliel’avevano data se no non andava in Spagna» (MONELLI 2012, p. 6).
E, da buon umorista, Monelli non manca di prestare il suo orecchio anche alle parodie popolari che nascevano in merito e che il regime, nonostante i suoi tentativi di censura, non riusciva a soffocare. Ad esempio durante la campagna d’Etiopia, a cui lui prende parte come reporter, le truppe, guidate dal generale Gariboldi, fanno il controcanto all’inno di Garibaldi, cantato nel Risorgimento dalle giubbe rosse:
«Si scopron le tombe, si levan i morti
i nostri gerarchi son tutti risorti.
Finché noi pugnammo fiorivan negli orti,
ma or che la pugna diventa pugnetta
i nostri gerarchi accorrono in fretta.
Se spira il più lieve sospiro di vento
– domandano, ed hanno medaglia d’argento:
e Pinco pallino, di tutti il più gonzo
rimedia lo stesso medaglia di bronzo.
Vien fuori medaglia, vien fuori che è l’ora
vien fuori medaglia, medaglia al valor»
(MONELLI 2012, p. 6)
Chi sia il Pinco Pallino citato Monelli non lo rivela, che l’aggettivo «gonzo» sia un sostituto di un epiteto più vivace lo lascia però intuire al lettore; senza affidarsi a proclami e denunce ufficiali ma solo all’accostamento fra termini aulici e profani, gli svela la vacuità dell’azione bellica italiana: non «pugna», bensì «pugnetta».
E che sia un lettore che abbia vissuto o che abbia solo letto gli eventi narrati nel libro, Monelli si attiva per instaurare con lui un rapporto di complicità sempre più attivo e malizioso. Gli porge il suo cannocchiale rovesciato e gli fa vedere il fascismo di sbieco: con lo sguardo allenato di chi gioca con gli strumenti della cultura “alta” per addentrarsi in quella “bassa”, nel cui flusso di spot e immagini si è, spesso, immersi senza adeguata percezione. E così, in un periodo storico in cui per la prima volta il congegno del consenso popolare viene messo a punto per sostenere i regimi totalitari, Monelli si fa mass-mediologo per mostrare gli esiti più ridicoli dell’ignoranza adoperata a fini di promozione politica. È il caso di un celebre spot del regime, che ambiva a far sentire tutti gli italiani nobili discendenti degli antichi Romani: “figli della Lupa”, appunto. Ma Monelli conosce e irride la sciatta formazione piccolo-borghese di Mussolini, lontana dalla frequenza del liceo classico e dalla comprensione di Tito Livio. E mentre Lussu annota sarcastico che «il latino dell’età imperiale, in Italia, per molti è causa di un mare di guai» (LUSSU 2014, p. 33), Monelli sottolinea che «quell’espressione, figlio della lupa, ha il suo corrispettivo esatto nel romanesco figlio di mignotta» (MONELLI 2012, p. 23); come attesta la lettura di Ab urbe condita (I, 4):
Sunt qui Larentiam, vulgata corpore, lupam inter pastores vocatam putent; inde locum fabulae ac miraculo datum [ trad.: alcuni pensano che codesta Larenzia, per aver spesso prostituito il suo corpo, sia chiamata lupa e che da qui sarebbe derivato lo spunto per la straordinaria leggenda]. (TITO LIVIO 1963, vol I, pp.154-55)
Insomma: il tentativo di incidere nel costume degli italiani, elevandoli attraverso la propaganda a eredi di conquistatori, si capovolge nella messa in discussione dei costumi della loro progenitrice. Con malinconica accettazione, Monelli deve rilevare che, forse, più che aggressivi come lupi gli italiani erano divenuti, dall’inizio della dittatura in poi, assuefatti come pecore a lasciarsi guidare da un capo a cui avevano attribuivano i poteri taumaturgici di risanare una società svilita e malata. E finché si è vissuti in pace, il capo appariva un padre buono che asfaltava strade e bonificava paludi; poi con l’alleanza tedesca e lo scoppio della II Guerra Mondiale, il pater familias della nazione ha esibito il suo lato indifferente e maldestro. E ormai nel 1943 gli dei sono caduti: le sconfitte subite in guerra e l’occupazione militare del paese hanno rotto l’idillio affettivo, che legava il popolo al suo duce, e palesato che «la cura fallì, che il medico era un saltimbanco, e che oggi le piaghe sono più cancrenose che mai, e che altre se ne sono aggiunte» (MONELLI 2012, p. 16).
Il diffuso clima di ozio intellettuale non ha però solo acquietato il popolo con le sue rassicurazioni di una vita più sicura; ha anche ridotto all’inazione gli intellettuali che, «come i marinai genovesi» (MONELLI 2012, p. 18), si rassegnavano a star peggio consolandosi col mugugno: con spiritose critiche sottovoce, con barzellette fugaci e timorose della censura. Monelli ne offre un buon repertorio, restituendoci così l’atmosfera drammatica e disincantata di un periodo in cui l’esercizio della libertà era talmente limitato da costringere i giornalisti o ad aderire alle indicazioni dell’agenzia Stefani o a non firmarsi; pena il confino, come lo aveva subito Malaparte. Ed ecco il fiorire dei calembour che deformano in modo caricaturale i motti fascisti: «chi si ferma, è perduto» diventa «chi si firma, è perduto» (MONELLI 2012, p. 18). Oppure «o Roma o morte» si tramuta dapprima, date le difficoltà di entrare nella capitala, in «o Roma o Orte» (SPINOSA, 1989, p. 131); più in là nel tempo invece, dati i rischiosi ludi sportivi a cui Mussolini sottoponeva i suoi uomini, in «o il federalato o la morte» (MONELLI 2012, p. 17). Pare, infatti, che un federale di Trento, inesperto di nuoto e tuffi, per dimostrare l’adeguatezza al suo incarico, sia stato costretto dal duce a gettarsi dal trampolino per poi essere salvato dai sommozzatori dall’annegamento.
E non mancano poi i motti di spirito sugli uomini del regime, a partire da Galeazzo Ciano, primo titolare del ministero della Cultura popolare, ribattezzato da allora «il ministero sui generi» (MONELLI 2012, p. 40). Ma il bersaglio satirico prediletto è Achille Starace, segretario del Partito fascista dal 1931 al 1939, organizzatore delle grandi adunate popolari e promotore dello “stile fascista” che ciascun italiano, nella quotidianità, avrebbe dovuto adottare. La minuzia di Starace nel regolamentare ogni aspetto della vita comune partiva – secondo Monelli – da un imperativo categorico: l’abolizione dell’intelligenza. Tale soppressione era visibile in ogni decisione di Starace: il saluto romano al posto della stretta di mano, l’istituzione del sabato ginnico, l’imposizione del «voi» al posto del «lei», l’uso della divisa nelle occasioni ufficiali, su cui il giornalista riporta alcuni aneddoti, tutti imperniati sull’iperbole:
si è sempre fatto un gran ridere, nei gruppetti scanzonati, della mania per l’uniforme di Starace: Starace che per andare a comperare un cono gelato si veste da eschimese; Starace che visitando una corazzata mette fuori la testa da un oblò, e chi lo vede grida: «Guarda Starace vestito da corazzata!»; Starace che studia l’uniforme per i poliziotti in borghese, e così via. Starace si pavoneggiava una volta davanti a un gruppo di giornalisti e disse che studiava un distintivo per loro. «È bell’e trovato, – disse uno di quelli – un violino e un soffietto incrociati». Ma come la regina Vittoria, Starace was not amused. (MONELLI 2012, p. 33)
Starace si rivela, inoltre, prolifico inventore di titoli ed epiteti per il capo; fra cui, a partire dalle guerre coloniali degli anni Trenta, quello di fondatore dell’impero con cui lo apostrofava alle adunate; un’espressione destinata al ludibrio degli umoristi. E Monelli così la commenta:
«una di quelle trovate estemporanee che poi, come avveniva, divenivano elemento necessario del rito e stancavano il pubblico come un frustro ritornello. E la pasquinata diceva che Starace, incapace di tenersi a memoria quelle semplici parole, se le scriveva prima nel cavo della mano». (MONELLI 1983, p. 202)
Starace perciò, da riformatore e castigatore dei pubblici comportamenti, si ritrova castigato dall’unico romano a cui ancora non aveva imposto una divisa: Pasquino, il più vetusto fra i romani di cui aver timore.
Se Pasquino fosse originariamente un sarto non lo sappiamo, che fosse invece capace di tagliare i panni addosso alla gente, ancora in età fascista, lo possiamo ben accertare e Monelli ce ne fornisce numerose prove. Nonostante gli sforzi di sorvegliare e reprimere ogni possibile critica, la statua ellenistica, collocata nell’omonima piazza romana di fronte a palazzo Braschi, continuò a far sentire la sua voce, sempre stridula e urticante sin dal 1501, quando fu collocata lì per ordine del cardinale Oliviero Carafa. Da allora, ai piedi di ciò che rimaneva di un complesso marmoreo rappresentante Menelao, furono con assiduità affisse poesie, giaculatorie anonime, o in volgare o in latino, che prendevano di mira i personaggi più in vista del tempo: papi, aristocratici, potenti venivano colpiti da notazioni mordaci o allusive, che disvelavano sardonicamente lo scarto fra virtù pubbliche e vizi privati. Era un genere di satira, di stampo luciliano, che sapeva mescolare elementi dotti e popolari e attirare scrittori colti come Pietro Aretino, Giuseppe Gioacchino Belli o Trilussa, che divennero maestri nelle pasquinate e animatori del dibattito politico romano. A vivacizzare tale scenario contribuirono anche altre due statue parlanti: Marforio, imponente statua fluviale del I sec. d. C che si trovava al Campidoglio, e Madama Lucrezia, antico simulacro di Iside che si trovava all’angolo di Piazza Venezia. Il botta e risposta fra le statue è confermato da Monelli, che ne trascrive un esempio:
Un’antica pasquinata diceva: «Sapete che aboliranno le federazioni? E chiedeva Marforio, perché? E rispondeva Pasquino: perché non c’è più la fede, e le razioni se le sono mangiate». (MONELLI 2012, p. 24)
La pasquinata documenta le prime delusioni degli intellettuali di fronte alla mancata rivoluzione fascista, deterioratasi in una guerra carrieristica fra uomini apparentemente devoti, in realtà ambiziosi di guadagni e poltrone. E così il discrimine fra la professione di “fede” fascista e la spartizione delle sue “razioni” passa tutto in una sofisticata sciarada, che consiste nel ricavare un’unica parola (federazione) da due di significato diverso (fede, razioni). La pasquinata si poggia, dunque, sulla convinzione che la parola è un dato che si può scomporre e le componenti (in sé non associate a significato), che così si ottengono, possono avere rilevanza ermeneutica e divinatoria: «la battuta – chiosa Monelli – era stata profetica (o è una prova di più che i vocaboli hanno un loro significato ermetico. Divino, che il gioco di parole rivela); la fede era ora un vuoto formalismo» (MONELLI 2012, p. 24).
Un’altra pasquinata premonitrice, da cui Monelli rimane colpito, viene affissa nel 1942: anno della perdita dell’Etiopia e delle traversie per le campagne d’Albania. Di fronte allo sbigottimento generale per lo sfaldamento dell’impero, Pasquino sogghigna: «prima ero regnicolo, ora sono impericolo» (MONELLI 2012, p. 12). In questo la crasi fra la preposizione in e il sostantivo pericolo genera un falso derivativo di impero (impericolo), che fa da contrappunto rimico a regnicolo.
Altro gioco di parole amato da Pasquino è il bisticcio, multiforme figura retorica e gioco enigmistico, che può nascere dall’accostamento in una unica frase dello stesso termine in accezioni diverse; interessante quello riportato da Monelli a proposito della seduta del Gran Consiglio del 25 Luglio 1943, con cui venne destituito Mussolini. Lo scrittore ne ricostruisce con dovizia di particolari tutti i retroscena, basandosi sui diari e le interviste rilasciate da alcuni dei protagonisti, come Bottai, Ciano e Grandi. E lo stesso Pasquino narra che:
un giorno il Gran Consiglio era riunito, parecchi anni prima dell’ultima seduta, un omino bussò alla porta della sala. Mussolini disse: «Avanti!» E comparve l’omino, un modesto cittadino, dall’aspetto dimesso. «Che volete?» – tuonò Mussolini – come vi permetette d’interromperci? Chi vi ha lasciato passare? Chi siete?» «È questo il Gran Consiglio?» chiese dolcemente l’omarino. «Sì, questo è il Gran Consiglio». «Allora – disse l’omarino -, andate tutti fuori delle scatole quanti siete; questo è un gran consiglio» (MONELLI 2012, p. 156).
La freddura è citata ed enfatizzata da Monelli che, nel riportare il dialogo fra Mussolini e il Re avvenuto la mattina del 25 Luglio, mette in luce i tentativi di Mussolini di minimizzare quanto accaduto durante la notte precedente e di far apparire la votazione da parte del Gran Consiglio dell’ordine del giorno, firmato da Dino Grandi, «come una buffonata da non tenerne conto, ad ogni modo una cosa senza valore deliberativo, tutt’al più un consiglio e null’altro, o se volete un gran consiglio» (MONELLI 2012, p. 156).
Nel rivolgersi ai lettori, ancora una volta, Monelli confida nella loro arguta solidarietà per condividere i giochi paronimici, contenuti nelle pasquinate, oppure per svelarne quelli spontanei, insiti nelle disposizioni del fascismo. A esserne vittima e complice l’agenzia Stefani, che faceva da filtro fra Mussolini e i giornali diramando i suoi ordini in merito agli articoli da pubblicare. Poteva dunque capitare che l’eccesso di enfasi narrativa si tramutasse in accidentale amenità e che le gesta di Mussolini, trasfigurate in chiave epica scivolassero, in alcuni casi, nel grottesco. È quanto accade in uno degli ultimi viaggi di Mussolini in cerca di consensi popolari a Bologna, che un cronista così descrive:
«l’entusiamo dei bolognesi si è manifestato in lacrime di madre, in benedizione di vecchi, con grida di popolo, con ripetute rotture di cordoni…». Il giorno dopo un secco ordine del ministero della Cultura Popolare vietò di parlare di rotture di cordoni a proposito di Mussolini e dei suoi viaggi (p.64).
Altro divieto nato da un malapropismo è, in età fascista, quello di pronunciare il nome del bandito calabrese Musolino, così foneticamente simile a quello del Duce da far cadere in errore anche ministri del governo; durante una seduta del Consiglio provinciale di Cagliari, Lussu assiste all’intervento dell’on. Lissia che depreca «i precedenti governi che han tradito gli interessi vitali dell’Isola» ed esalta «Musolino che intende riparare al passato» (LUSSU 2014, p. 71). Il lapsus ottiene gli applausi generali.
Che sia volontaria o involontaria, la paronamasia si attesta dunque come «veicolo di comicità, di satira, di umorismo paradossale o bonaccione o demenziale o che altro dir si voglia, arguzia raffinata […] trasgressione creativa, in testi letterari o paraletterari, parodia di luoghi comuni» (MORTARA GARAVELLI 1988, p. 207). Essa inoltre ha potere consolatorio: aiuta l’accettazione di situazioni altrimenti inaccettabili; come ci ribadisce Monelli, spiegando il motivo per cui annota nel suo saggio le pasquinate di età fascista:
la pasquinata fu, in quegli anni, una critica, uno sfogo e una soddisfazione insieme; la frase spiritosa che bollava il gerarca ignorante o ladro, o criticava il decreto assurdo o malefico, pareva poi fare più facile l’accettazione dello stato di cose che l’aveva fatta nascere. (MONELLI 2012, p. 18)
Del resto, che sia un calembour o un malapropismo, il bisticcio linguistico ci appartiene e ci aiuta a far brillare le situazioni: a renderle più chiare oppure a depotenziarle, come fa un artificiere di fronte a una bomba ancora inesplosa. A dimostrarcelo è sempre Monelli nel capitolo di Roma 1943 intitolato Il 25 luglio e l’arresto di Mussolini, in cui ricostruisce uno dei passaggi della drammatica seduta del Gran Consiglio che depose Mussolini. Il duce, incredulo di fronte all’ordine del giorno Grandi, cerca di difendersi minacciando i gerarchi e millantando soluzioni salvifiche per vincere la guerra e superare lo stallo politico, in cui ora versa:
Con una misteriosa aria profetica conclude con queste parole, che lasciano l’assemblea stupefatta e perplessa: «Io ho in mano una chiave per risolvere la situazione bellica, ma non vi dirò quale». («che sia una chiave inglese?» sussurra Bottai al vicino). (MONELLI 2012, p. 142).
Nel tentativo di mettere in scena l’ultimo bluff, Mussolini sfodera la natura istrionesca che lo ha sempre animato e che, se prima riscuoteva i consensi, ora riscontra solo l’incredulità beffarda dei presenti: a partire da quella dei suoi più antichi squadristi, come Bottai. Egli sceglie di sfoderare non l’arma che teneva nascosta sotto la divisa ma una battuta, la cui sagacia scaturisce dall’uso anfibologico dell’espressione «chiave inglese» che, sul piano più immediato e concreto, rinvia il lettore al noto utensile da officina e, su quello più astratto e allusivo, a una uscita italiana dalla guerra concordata con gli inglesi. La chiave inglese si rivelò storicamente fallace: Churchill non la offrì a Mussolini e Mussolini non riuscì a fermare gli anglo-americani sul “bagnasciuga”, come paventato. Dal punto di vista linguistico, però, la chiave inglese conferma ancora oggi la sua efficacia. La polisemia, infatti, fa dialogare le parole al loro interno e le dischiude all’ironia: il «formidabile riso» capace di far affacciare le divinità sulla terra e di risvegliare, come un terremoto, la lingua e i parlanti dal loro torpore, annunciando loro che:
Si risolve ben poco
con la mitraglia e col nerbo.
L’ipotesi che tutto sia un bisticcio,
uno scambio di sillabe è la più attendibile.
Non per nulla in principio era il Verbo.
(MONTALE 1984, p. 686)
LONGOBARDI Monica (2011),Vanvere. Parodie, giochi letterari, invenzioni di parole, Carocci, Roma
LUSSU Emilio (2014), Marcia su Roma e dintorni, Einaudi, Torino
MALAPARTE Curzio (1978), La pelle, Mondadori, Milano
MONELLI Paolo (1983), Mussolini piccolo borghese, Garzanti, Milano
MONELLI Paolo (2009), Da Milano a Dongo, Mursia, Milano
MONELLI Paolo (2012), La marcia su Roma, Mursia, Milano
MONELLI Paolo (2012), Roma 1943, Einaudi, Torino
MONTALE Eugenio (1984), Tutte le poesie, a cura di G. Zamba, Mondadori, Milano
MORTARA GARAVELLI Bice (1988), Manuale di retorica, Bompiani, Milano
SPINOSA Antonio, (1989) Mussolini, Mondadori, Milano
TITO LIVIO, Ab urbe condita (1963), ed. a cura di C. Moreschi, Rizzoli, Milano