È l’11 ottobre 1797. A Udine, Napoleone Bonaparte incontra il conte Johann von Cobenz, rappresentante dell’Austria, per definire i dettagli dell’accordo politico e militare che verrà ratificato pochi giorni dopo a Campoformio: a conclusione della sua vittoriosa campagna in Italia, egli acconsente a cedere i territori della plurisecolare Repubblica di Venezia all’Austria in cambio del riconoscimento ufficiale della Repubblica Cisalpina. Sui Colli Euganei, dove già prima di lui Francesco Petrarca aveva trovato conforto negli ultimi anni della sua vita, Jacopo Ortis scrive al suo amico Lorenzo Alderani: «Il sacrificio della patria nostra è consumato: tutto è perduto» (FOSCOLO 2015, p. 9). Nel tutto, che dolorosamente Jacopo piange, sono rinchiusi sua madre e la sua “matria”: Venezia, che sta per dissolversi sotto i colpi della sua stessa inezia, della sua «stessa letargia, come quei moribondi che rinvengono la chiarezza della mente all’estremo del momento dell’agonia» (NIEVO 2004, p. 492). Lì nella città, che pochi mesi prima aveva votato a favore dei Francesi, Giandomenico Tiepolo, rassegnato, inizia a disegnare un ciclo di raffigurazioni dedicate alla vita di Pulcinella e destinate al Divertimento per li regazzi; nel frattempo è da poco giunto con suo padre Carlino Altoviti, che osserva e deplora «all’ingresso dei Francesi in Venezia la rovina di una grande repubblica, erede della civiltà e della sapienza romana», che «si era tolta volontariamente all’attenzione del mondo » (NIEVO 2004, p. 453).
È il 17 ottobre 1797, giorno dell’addio: di Venezia ai suoi quattordici secoli di storia; di Jacopo Ortis alle sue aspirazioni rivoluzionarie; di Giandomenico Tiepolo alla pittura; di Carlino Altoviti alla sua «fresca e spensierata giovinezza» (NIEVO 2004, p. 459) trascorsa nel castello di Fratta, il luogo della sua fiabesca infanzia che sta per essere violato dalla Storia. Il suo «epitaffio sugli anni deliziosi vissuti nel mondo vecchio» (NIEVO 2004, p. 461) Carlino lo appone nei giorni in cui la Rivoluzione travolge la sua terra e i suoi ventidue anni appena compiuti.
È il 18 ottobre 1775, giorno dell’Evangelista San Luca. In Friuli, vicino al distretto di Portogruaro, nasce nel Castello di Fratta Carlino Altoviti: è «veneziano» ma, come dichiara all’inizio delle sue Confessioni (1858), egli si augura di morire «Italiano quando lo vorrà quella Provvidenza che governa misteriosamente il mondo» (NIEVO 2004, p. 3). Lo scrive nel 1858 quando il suo desiderio sta per maturare; lo intuisce chi, come lui, sa di essere vissuto nel tempo liminare della Rivoluzione e quello della Restaurazione: il Settecento e l’Ottocento, i due secoli fra i quali Alessandro Manzoni, ne Il cinque maggio (1821), immagina che si sia seduto Napoleone Bonaparte in veste di “arbitro”. Fra questi «due secoli che resteranno un tempo memorabile massime nella storia italiana» Carlino Altoviti si mette «a cavalcione» (NIEVO 2004, p. 4), come se fosse un bambino pronto a giocare su un cavallo a dondolo: così autobiograficamente lo immagina Ippolito Nievo nelle Confessioni di un Italiano. Lo scrittore sa che Carlino, come ogni personaggio della sua epoca ha incistata dentro di sé la parabola napoleonica, ma che non può aspirare alla funzione arbitrale che la Storia, come in una tragedia, ha affidato al generale corso. A lui la Storia, come in una commedia, ha affidato invece la funzione picaresca e dissacrante di attraversare il tempo e i luoghi della Rivoluzione e del Risorgimento, per coglierne e viverne senza retorica le contraddizioni; lo sottolinea nel capitolo primo del romanzo, che fa da controcanto al capolavoro narrativo manzoniano:
Né il mio semplice racconto rispetto alla storia ha diversa importanza di quella che avrebbe una nota apposta da ignota mano contemporanea alle rivelazioni d’un antichissimo codice. […] così l’esposizione de’ casi miei sarà quasi un esemplare di quelle innumerevoli sorti individuali che dallo sfasciarsi dei vecchi ordinamenti politici al raffazzonarsi dei presenti composero la gran sorta nazionale italiana. […] Ed ora, prima di prendere a trascriverle, volli con queste poche righe di proemio definire e sanzionare meglio quel pensiero che a me già vecchio e non letterato cercò forse indarno insegnare la malagevole arte dello scrivere. Ma già la chiarezza delle idee, la semplicità dei sentimenti, e la veridicità della storia mi saranno scusa e più ancora supplemento alla mancanza di retorica. (NIEVO 2004, p. 5)
Carlino è sia protagonista che narratore di vicende storiche tortuose: da loro protagonista non ha bisogno di essere Napoleone e gli basta sedere a cavalcioni fra i secoli; da loro narratore può fare a meno dell’esempio manzoniano e dello stratagemma retorico del ritrovamento di un finto manoscritto a cui ispirarsi. Il manoscritto, da cui prendere l’abbrivio per raccontare il suo «ridicolo dramma feudale» (NIEVO 2004, p. 4), è la sua memoria; il luogo è un castello, quello di Fratta, che solo superficialmente ricorda quello di Don Rodrigo e dell’Innominato. La sua bizzarria e il suo stato di degrado non incutono più timore, soprattutto in chi come lui è sì nato fra quelle mura, un tempo imperiose, ma è cresciuto in una cucina:
Ma eccoci giunti a un punto che richiederebbe di per sé un’assai lunga descrizione. Bastivi il dire che per me che non ho veduto né il colosso di Rodi né le piramidi di Egitto, la cucina di Fratta ed il suo focolare sono i monumenti più solenni che abbiano mai gravato la superficie della terra. […] La cucina di Fratta era un vasto locale, d’un indefinito numero di lati molto diversi […], il quale s’alzava verso il cielo come una cupola e si sprofondava dentro terra più di una voragine: oscuro, […], ingombro, […], solcato. […] nel canto più buio e profondo di essa apriva le sue fauci un antro acherontico, una caverna ancora più tetra e spaventosa, dove le tenebre erano rotte dal crepitante rosseggiar dei tizzoni, e da due verdastre finestrelle imprigionate da una doppia inferriata. Là un fumo denso e vorticoso, là un eterno gorgoglio di fagiuoli in mostruose pignatte, là sedente in giro sovra panche scricchiolanti e affumicate un sinedrio di figure gravi arcigne e sonnolenti. Quello era il focolare e la curia domestica dei castellani di Fratta. Ma non appena sonava l’Avemaria della sera, ed era cessato il brontolio dell’Angelus Domini, la scena cambiava ad un tratto, e cominciavano per quel piccolo mondo tenebroso le ore della luce. […] le lampade si rimandavano l’una all’altra il loro chiarore tranquillo e giallognolo; il foco scoppiettava fumigante […], e gli abitanti serali della cucina scoprivano alla luce le loro diverse figure. (NIEVO 2004, p. 8)
A partire dalla convinzione nieviana che «l’uomo fa il luogo e il luogo fa l’uomo» (NIEVO 2012, p. 148) Carlino sembra prendere per mano il lettore per condurlo, attraverso gli occhi della sua memoria, nello spazio in cui è cresciuto e si è conosciuto come persona: come uomo che, entrato bambino e orfano, ne esce adulto e nuovamente figlio; come personaggio che vive per potere poi raccontare; come attore che si muove su un palcoscenico teatrale dove incontra altre personae che indossano una maschera. La cucina è dunque theatrum mundi: un microcosmo umano e letterario in cui esperire, come Dante nella Commedia, il basso e l’alto, l’Inferno e il Paradiso, l’oscurità e il chiarore; in cui essere Pindaro e Pulcinella, come suggerisce lo stesso Nievo nel titolo di una sua opera teatrale: Pindaro Pulcinella (1855), in cui fa dire al suo alter ego Valerio, sconfortato per non poter dare voce alla sua ispirazione poetica svenduta alle richieste dei committenti, che «il poeta fra gli eroi della Grecia diventa Pindaro, fra i burattini si fa Pulcinella!…» (NIEVO 2004, p. 110). Ma se per essere Pindaro ci vorrà il tempo della maturità, per essere Pulcinella non esiste un tempo predefinito: per Carlino è sufficiente esser nato in cucina e lì aver pregustato l’emozione delle prime scorribande, a cui seguiranno quelle più travolgenti in giro nel mondo. Come Pulcinella, appunto:
Si trovò in una taverva non esiliato come aveva sognato, ma da padrone. Aveva fatto prove, come affittuario di un’osteria prima e di una salumeria dopo: in genere i clienti le trovavano vuote, ma lui ci prese gusto ed ebbe la taverna. Ma non poteva reggere commercialmente, con le sue mangiate e le gozzoviglie, ch’egli chiamava merende, modeste refezioni, inadeguati ristori, infantili spuntini e, di rado, refezioni. Ma Pulcinella, fosse stato anche un digiunatore e un oste prospero, non poteva rimanere in un luogo fisso. Suo destino era viaggiare e mutarsi. […] Tuttavia tenne nostalgia della taverna e quando intraprendeva i viaggi marini veniva preso dalla trepidazione, come sanno tutti a Napoli fin dal seno materno, che per mare non ci sono taverne. La taverna, che è anche theatrum mundi, la frequenterà sempre. (DE MAIO 1989, pp. 102-103).
Carlino non è destinato alla stanzialità; uscito dalla cucina di Fratta, approda a Venezia per poi iniziare le sue peregrinazioni politiche nell’Italia in fermento del primo Ottocento. Ma è proprio nella capitale veneta che, come Pulcinella, avverte il primo sentore del sentimento di nostalgia, che poi lo accompagnerà tutta la vita, verso la cucina di Fratta, una sorta di Eden primigenio in cui:
Eravamo contenti senza fatica, felici senza saperlo […]. I vecchi servitori, il prete grave e sereno, i parenti arcigni e misteriosi, le fantesche volubili e ciarliere, i rissosi compagni, le fanciullette vivaci, petulanti, e lusinghiere ci passavano dinanzi come le apparizioni di una lanterna magica. Si avea paura dei gatti che ruzzolavano sotto la credenza, si accarezzava vicino al fuoco il vecchio cane da caccia, e si ammirava il cocchiere quando stregghiava i cavalli senza timore dei calci. Per me gli è vero ci fu anche lo spiedo da girare; ma perdono anche allo spiedo, e torrei volontieri di girarlo ancora per riavere l’innocente felicità d’una di quelle sere beate, fra le ginocchia di Martino, o accanto alla culla della Pisana. (NIEVO 2004, p. 460).
Viaggia a rebours nel tempo Carlino. È il 17 ottobre 1797 e a Venezia infiamma la Rivoluzione; nel suo animo invece prende corpo la restaurazione dei luoghi e dei tempi in cui è nato: a Fratta, il 18 ottobre 1775.
Nella sua infantile taverna, Carlino matura la sua innata somiglianza con Pulcinella: lo dichiara involontariamente quando ricostruisce la storia sentimentale della sua amicizia con Martino, il servo che si assume una funzione accudente in assenza di altri volti familiari. Carlino, infatti, è orfano di madre e ignora quale sia stata la sorte del padre, il quale ricomparirà tardivamente nella sua vita sciogliendone i nodi irrisolti. In attesa di scoprire quelle verità che in un testo teatrale si possono svelare solo in chiusura d’opera, Carlino e Martino si relazionano fra loro come l’adulescens e il servus callidus delle commedie latine: l’uno è insoddisfatto, ansioso e pronto a cambiare e innamorarsi; l’altro è rassicurante e protettivo, uguale a se stesso nei gesti e nelle parole. Del resto, anche gli altri personaggi che compaiono sulla scena di Fratta agiscono come maschere comiche. Il conte di Fratta ripropone il senex: «era un uomo d’oltre a sessant’anni il quale pareva avesse svestito allor allora l’armatura, tanto si teneva rigido e pettoruto sul suo seggiolone» (NIEVO 2004, p. 8); sua moglie la matrona; il capitano Sandracca, che si occupa della sicurezza della tenuta, è il miles gloriosus: «a udirlo lui, quando avea vuotato il quarto bicchiere, non era stata guerra dall’assedio di Troia fino a quello di Belgrado dove non avesse combattuto come un leone» e «studiava sempre allo specchio qualche foggia di guardatura e qualche nuovo arriccimento di baffi che gli rendesse il cipiglio più formidabile» (NIEVO 2004, p. 16).
Ma se con questi personaggi Carlino intreccia rapporti esili e passivi, fondati più sull’osservazione che sulla partecipazione, è invece con Martino che instaura un rapporto più profondo. Essi infatti condividono la cucina come luogo di generazione e il cibo come oggetto della loro azione: Martino trascorre le giornate grattando il formaggio che sarebbe poi servito per la minestra, Carlino gira lo spiedo. Quando Carlino viene sgridato, è il servo che lo difende:
[Martino] fu, si può dire, il mio primo amico; e se io sprecai molto fiato nel volergli scuotere il timpano con le mie parole, n’ebbi anche per tutti gli anni che visse meco una tenera ricompensa d’affetto. Egli era quello che mi veniva a cercare quando qualche impertinenza commessa mi metteva al bando della famiglia; egli mi scusava con Monsignore, quando invece di servirgli messa scappava nell’orto ad arrampicarmi sui platani in cerca di nidi […]. Insomma fra Martino e me eravamo come il guanto e la mano, e s’anco non entrando in cucina non giungeva a discernerlo pel gran buio che vi regnava in tutta la giornata, un interno sentimento mi avvertiva che egli v’era e mi menava diritto a tirargli la parrucca o a cavalcargli le ginocchia. Se poi Martino non vi era, tutti mi davano la baia perché restava così mogio mogio come un pulcino lontano dalla chioccia. (NIEVO 2004, p. 32)
In questa atmosfera da fabula plautina, i rimandi intertestuali si intrecciano: Martino, nel suo ruolo di guida nel buio acherontico della cucina, rovescia comicamente la figura di Virgilio nell’Inferno dantesco; Carlino, che senza il suo maestro rimane mogio in un angolo come «un pulcino lontano dalla chioccia», ci appare allo stesso modo in cui lo scultore Lello Esposito (PAËRL 2002, p. 51, fig. 33) ha immaginato Pulcinella nella statua in bronzo intitolata Il dubbio dell’uovo: Pulcinella che, nato da un uovo, custodisce una natura bifronte di puer senex che è eternamente fanciullo nella sua ingenuità, eternamente adulto nella dolorosa allegria del suo chiedersi sempre “perché”; così pure Carlino che da ottuagenario racconta la sua fanciullezza di figlio non nato affettivamente da una madre e un padre, bensì da un servo.
Questa condizione familiare riporta a quanto scrive a proposito di Pulcinella la studiosa olandese Hetty Paërl, commentando il primo dei 104 disegni a penna e inchiostro acquarellato dell’album Divertimento per li regazzi di Giandomenico Tiepolo. In esso il pittore immagina Pulcinella che, come Gesù, nasce in una stalla; ma ad attorniarlo sono altri Pulcinelli come lui, che assistono attoniti alla rottura dell’enorme uovo di tacchino da cui, già mascherato, esce un loro simile: una nascita, contraddittoriamente, sacra e ripetitiva, per la quale l’antropologa si domanda: «è forse una coincidenza che Pulcinella sia nato in una stalla, figlio di un padre che non lo aveva concepito e di una madre che non lo aveva portato in grembo?» (PAËRL 2002, p. 68).
E ancora, è forse un caso che Carlino sia nato in una cucina? E che scoprirà di non essere il figlio dell’uomo di cui porta il cognome? Ai dubbi sulla sua nascita, egli può contrapporre solo le certezze della sua crescita; io sono «servitore – dichiara – perché coi servi era il mio posto nel castello di Fratta» (NIEVO 2004, p. 326) ed è uno di loro che paternamente lo accudisce e gli ripete: «tu sei il più bel Carlino di tutti i dintorni, e sì che sei nato dalla cenere del focolare e la più parte del latte te l’ho data io». (NIEVO 2004, p. 241). In questo Bildungsroman senza padre, agli occhi di Carlino e del lettore pure Martino sembra ricordarci Pulcinella: egli «diventava gobbo mano a mano che io m’ingrandiva; oramai le forze gli mancavano; grattava il formaggio stando seduto. […] io e lui seguitavamo a intendercela a cenni» (NIEVO 2004, p. 241).
Ed è proprio la sua morte che si rivela un’epifania identitaria per i due personaggi e per i lettori, i quali scoprono che il servo era depositario di una saggezza atavica. Egli, infatti, leggeva e annotava tutte le sere un:
«libricciuolo di devozione, quell’Imitazione di Cristo attibuita a Tommaso da Kempis, uno dei capisaldi della meditazione che aveva grande diffuzione popolare nell’Ottocento. Per Carlino il valore è dato dalla memoria di Martino, il vecchio servitore, che lo aveva praticamente cresciuto, e dall’importanza delle riflessioni annotate dalla sua calligrafia faticosa, […] da cui trae il monito ad andarsene da Fratta, a non inseguire più l’amore impossibile, ad accettare la realtà» (NIEVO 2004, p. XIX).
Martino è in vita servus callidus: personaggio piatto, la cui dimensione esistenziale sembra comprimersi su un solo gesto, il grattare il formaggio, e un solo scopo, occuparsi di Carlino; dopo la morte invece egli si toglie la maschera e si palesa servus savius: personaggio a tutto tondo, che sa essere padre oltre che balia e sa accellerare il processo di formazione di Carlino, il quale sottolinea: «primo effetto di cotal proponimeto fu di distorgliermi dal castello di Fratta per condurmi di qua e là in cerca di svagamenti e piaceri, come altre volte avea fatto» (NIEVO 2004, p. 329).
Nel momento in cui decide di allontanarsi dal Castello di Fratta, teatro giovanile della sua vita, Carlino abbandona la maschera fissa dell’adulescens; assume su di sé quella camaleontica del picaro aperto a imprevidibili metamorfosi storiche e umane: a volte tragiche e degne di essere cantate da un poeta-Pindaro, a volte comiche e degne di essere vissute da un personaggio-Pulcinella.
Il primo avvenimento “pulcinellesco” a cui Carlino va incontro, dopo la morte di Martino, è la scoperta di essere un figlio ora che non è più un adulescens e non può rimanere nel Castello, ma non è ancora un vir e non sa qual è il mondo in cui vivere. L’agnizione del padre è, non a caso, posta al centro del Bildungsroman di Carlino; tuttavia essa non è occasione di analisi psicologica e di scavo nella memoria, bensì presenta tratti grotteschi, motivati dalla somiglianza dell’uomo con la maschera carnevalesca di Pantalone: il mercante, di origine veneziana, anziano e avaro, tutto proteso al successo sociale e all’accumulo di beni per sé e i suoi figli:
Un’ora dopo squillò il campanello, e un ometto rubizzo, sciancato d’una gamba, mezzo turco e mezzo cristiano al vestito, entrò saltabeccando nell’anticamera. […] Io mi abbandonai fra le braccia del nuovo arrivato versando tra le pieghe della sua zimarra armena le prime lacrime di gioia che spargessi mai. Mio padre non fu verso di me né molto affettuoso né troppo discorsivo; si maravigliò assaissimo che col nome che portava mi fossi nicchiato in un così oscuro bugigattolo […] e mi promise, che inscritto che io fossi come suo figliuolo nel Libro d’Oro, avrei fatto la mia gran figura nel Maggior Consiglio. Quell’accorto vecchietto parlava di cotali cose con un certo fare che non si sapeva se fosse da burla o da senno; ed a ogni punto e virgola, quasi per corroborare l’argomento, usava battere col rovescio della mano sul taschino del sottabito da dove rispondevagli un lusinghiero tintinnio di zecchini e di doble. […] Persino una certa barbetta rada e grigia e stizzosa accostava la fisionomia di mio padre alla maschera di Pantalone; ma egli veniva tardi sulla scena del mondo. Mi pareva uno di quei personaggi comici ancor travestiti da Persiani o da Mamalucchi che dopo calato il sipario escono ad annunziar la commedia per l’indomani. Tuttociò senza alcun pregiudizio della paterna autorità. (NIEVO 2004, pp. 425-6).
Quello che dunque potrebbe essere l’inizio di un nuovo atto teatrale, si annuncia come la fine: prima ancora che sia chiamato a farlo, il personaggio di Pantalone è costretto a gettare la maschera, non perché lo voglia ma perché necessitato dalle circostanze. Il sipario sta calando e lui è entrato troppo tardi ad annunciare la sua presenza, a modificare il corso degli eventi. Le circostanze si sono modificate da sole e irreversibilmente. A livello storico la firma del trattato di Campoformio decreta la fine della Repubblica di Venezia e la vacuità del seggio da patrizio su cui Carlino potrebbe sedere; a livello letterario la riforma del teatro goldoniano ha spazzato via le maschere costringendo Pantalone ad evoluzioni più borghesi e sfumate; a livello narrativo Carlino è troppo grande per accettare una «paterna autorità», tanto più se non sorretta da una paterna autorevolezza o da una somiglianza identitaria. Se Carlino si specchia in Martino, al pari suo Pulcinella e servo, non può specchiarsi nel padre, Pantalone e padrone. Il padre è, perciò, altro da lui, che ha fresca nell’animo la lezione di umiltà e saggezza impartitagli da Martino in punto di morte. Mentre quest’ultimo gli suggeriva che «la pace dell’anima val più di mille zecchini» (NIEVO 2004, p. 326) e che la povertà è maestra di generosità, la «guardinga taccagneria»(NIEVO 2004, p. 427) del padre lo infastidisce.
Ma per l’uggia di Carlino verso la spilorceria del padre non c’è più tempo:
«intanto le cose d’Italia si stravolgevano sempre più. […] Tutta Italia s’insudiciava i ginocchi dietro le orme trionfali di Bonaparte ed egli ingannava questi, sbeffeggiava quelli con alleanze con lusinghe con mezzi termini. […] la Serenissima Signoria aveva veduto passarsi dinnanzi quel turbine di guerra, come l’agonizzante che travede nell’annebbiata fantasia lo spettro della morte» (NIEVO 2004, p. 429).
Eppure è solo la revisione senile che permette a Carlino di leggere in questa chiave gli accadimenti napoleonici; in realtà nel 1797, egli è fra gli illusi che inneggiavano all’avvento delle libertà repubblicane che avrebbero estinto i privilegi delle oligarchie più vetuste. Fra di loro, tanti veneziani pronti a divenire cittadini come Ugo Foscolo e Jacopo Ortis; ma anche Nievo e Gionata Beccafichi.
Il personaggio di Mastro Gionata Beccafichi lo incontriamo in apertura dell’Antiafrodisiaco per l’amor platonico, un breve romanzo satirico composto da Nievo attorno al 1850, nel periodo in cui era legato affettivamente a Matilde Ferrari, destinataria di una densa corrispondenza epistolare. Da questa vicenda sentimentale Nievo ricava la convinzione che nessun amore platonico, come quello che lega due persone a distanza, può sopravvivere agli sbalzi degli umori personali e storici: è la carnalità a dar corpo a un rapporto d’amore, che rischia invece l’estinzione sotto la pressione degli stereotipi culturali dell’età romantica. Attorno a questa tesi Nievo costruisce un divertissement che sa di pastiche, poiché contiene al suo interno piccole divagazioni come la Storia della vita e dei miracoli di Mastro Gionata Beccafichi prof. di Disegno. L’inserzione di digressioni extravagantes accentua la natura già di per sè umoristica del testo, confermando l’appartenenza di Nievo a quel filone sterniano della nostra letteratura dell’Ottocento che si fa risalire alla traduzione foscoliana del Viaggio sentimentale di Lawrence Sterne a firma di Didimo Chierico, la maschera comica della maturità foscoliana, contrapposta a quella tragica e giovanile di Jacopo. È una linea narrativa aperta, irregolare e caratterizzata dalla «adozione di procedimenti e stili di scrittura digressivi e antisistematici, in cui l’autore/ narratore non pretende di ordinare e dar senso al reale ma di rappresentarlo nella sua complessità e contraddittorietà» (COLOMBI 2011, p. 17).
A questo gusto narrativo si fa risalire anche il capriccio, termine adoperato in musica per indicare un componimento strumentale di forma libera e varia e in arte un quadro in cui il pittore assembla elementi fra loro inconsueti e immaginosi: è il caso, secondo alcuni critici, dei disegni del Divertimento per li regazzi di Tiepolo, che si allontana dal consueto per allettare i suoi immaginari piccoli lettori con la figura di Pulcinella (cfr. AGAMBEN 2015, p. 123).
In questo mondo prismatico e capriccioso rientra la figura di Gionata Beccafichi, il quale contiene in nuce alcuni tratti pulcinelleschi che poi Nievo svilupperà con maggiore maturità in Carlino: se quest’ultimo è nato nella cucina di Fratta e vive accanto a un servo e a uno spiedo, Gionata nasce già «bello e vestito da una cazzaruola di fagioli cotti» nella casa di «mastro Macario Professore di Gastronomia, detto volgarmente Cuoco» (NIEVO 2011, p. 51). Il suo rapporto col cibo e col corpo è pantagruelico: egli ha sempre fame, a volte cammina per strada strusciando il suo deretano per i muri; ma ciò non gli impedisce di custodire intatta la sua allegria da uomo libero e la sua natura di filosofo, come Pulcinella, appunto, il filosofo che – secondo De Maio – fu chiamato pazzo. Con la maschera napoletana, Gionata condivide altre qualità, a partire dalla somiglianza fisica:
una pancia tonda, e soda è il punto culminante della sua persona. Superiormente ad essa si diparte un torso piramidale che finisce in una testa conica, e grigia, il tutto all’altezza di quattro piedi e mezzo, e nella suddetta testa sono incastrati due occhietti, ed un nasino da falcone, ed una bocca al labbro sottile che si contorce per tutti i lati. […] Inferiormente le gambe seguono il medesimo processo – cioè vanno a finire a cono discendente in due piedi piccoli, e grossotti come quelli di un abate. (NIEVO 2011, p. 60).
Inoltre, come Pulcinella: è un servo che ha a che fare con i padroni; decide di sposarsi una donna che «sapeva il suo conto» (NIEVO 2011, p. 57); non può star fermo in un sol posto perché è «un essere leggero come un pellegrino» (DE MAIO 1989, p. 25); è camaleontico nei mille mestieri che svolge; la sua vita come Cristo si è fermata ai trentatré anni per poi forse risorgere, come disegna Giandomenico Tiepolo nelle sue tavole per il Divertimento per li regazzi.
Ma soprattutto, Gionata, allo stesso modo di Pulcinella e Carlino, è l’emblema «della libertà dello spirito nella storia, come idea per un mondo armonico» (DE MAIO 1989, p. 189); lo è a tal punto che quando Messer Napoleone Bonaparte «colla melodia de’ suoi cannoni superava tanto spesso gli accordi delle chitarre […] allora Gionata si levò in piedi. Gettò la sua chitarra in quel luogo dove Arrio ha vuotato la sua anima, e presente Donna Bettonica sul sepolcro del suo caro strumento giurò in nome dei Santi di non potere più toccare chitarra» (NIEVO 2011, p. 58). Tuttavia, egli non si trova a suo agio nemmeno quando il generale francese «se n’andò assai peggiormente che non era venuto, e un altro Messere venne a seguire l’opera sua, vale a dire a dissanguare i poveri padri nostri. E Gionata non fu niente contento d’un tal cambiamento», perché lui non è una «maschera politica, ma il censore delle maschere della politica» (DE MAIO 1989, p. 115), che siano esse francesi o austriache.
La fabula milesia di Gionata è, quindi, attraversata dal fiume carsico della delusione storica che dalle Ultime lettere di Jacopo Ortis di Ugo Foscolo giunge poi alle Confessioni di un italiano di Ippolito Nievo. Essa si modula: a volte sulla voce pindarica di Jacopo che da una parte inveisce contro i «devastatori di popoli» che «si servono della libertà come i Papi si servivano delle Crociate» e «che ci hanno spogliati, derisi, venduti» (FOSCOLO 2015, p. 11) e dall’altra inneggia alle glorie italiane custodite a Santa Croce; altre volte sulla voce stridula e beffarda di Gionata che, assieme a Pulcinella, «poté sguazzarla allegramente colla cara metà fino allo spuntar dell’anno 1848. Si dice anzi che egli sapesse buon grado, e fosse gratissimo a quei cari Signori che a furia di Congressi son riusciti a far quello che non avevan potuto fare a furia di cannonate» (NIEVO 2011, p. 59).
E Carlino? Lui non si arrende come Jacopo alla disillusione e decide di coltivare il sogno di libertà e il desiderio d’amore per il quale il suo coetaneo si uccide; affronta il mondo nuovo che la Rivoluzione francese e i moti del 1848 gli fanno intravedere, perché sorretto dall’utopia eroica della sua generazione. Ma questo ideale è destinato al naufragio: Carlino non fa in tempo a viverlo, può solo affidarlo a suo figlio come un tempo Martino aveva fatto con lui, donandogli il suo patrimonio di saggezza. Con Giulio Altoviti l’eredità di Carlino e di Ippolito Nievo è integra: anche lui, come suo padre, «fra gli eroi della Grecia diventa Pindaro, fra i burattini si fa Pulcinella».
Pindaro e Pulcinella sono, dunque, le due maschere della letteratura nieviana, così come prima di loro Jacopo Ortis e Didimo Chierico per Foscolo. Nei loro tratti, a volte sardonici a volte suadenti, possiamo ritrovare la stessa visione della vita che Nievo aveva tratteggiato nell’articolo Attualità, apparso ne “L’uomo di pietra” del 28 marzo 1858:
La vita, figliuoli miei, tutti vi diranno che è la composizione più umoristica del mondo; nessuno vi dirà che la sia né tutta allegra né tutta tetra, né tutta correvole né tutta irta, né tutta rosea né tutta nera. L’è appunto essenzialmente umoristica per la mescolanza che avviene in essa di tutti questi elementi così disparati. L’umore oscilla fra i contrapposti, come la verità pratica (NIEVO 2003, p. 41).
E allo stile della verità Nievo ha affidato la sua scrittura, la sua vita e i suoi personaggi: Carlino e Giulio Altoviti, Martino e Gionata.
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